Noi siamo portati a identificare Dio con il Tutto, l’Uno, l’Unità, cioè, da cui le molteplicità derivano, che è quindi l’ “Uno in sé diverso” (Eraclito), e di cui noi ci rappresentiamo come parte. .
Di questa molteplicità che razionalmente, cioè attraverso l’intelligenza, percepiamo come condizione ideale, alla stregua del Paradiso, ma che in realtà esiste in una dimensione che possiamo solo conoscere, appunto, per via razionale, ma non vivere – di questa molteplicità aspireremmo invece a fare parte, intuendo la promessa di pienezza che da essa proviene e che contrasta con la vuota prassi quotidiana del vivere. Questo nostro desiderio, che si configura come una vera e propria aspirazione a considerarci parte del Tutto, presuppone tuttavia l’acquisizione da parte nostra della consapevolezza di essere esterni da esso, consapevolezza che si acquisisce nel momento in cui l’essere che siamo si costituisce come soggetto. Cioè nel momento in cui l’essere dice “Io”, rinuncia ad essere “Tutto”.
Ma l’essere Tutto non si può dire, perché non si può pensare. Dunque l’essere è, cioè esiste, solo nel momento in cui dicendo “Io” si distacca dal Tutto. L’essere è dunque una astrazione dal Tutto, perché non può esistere un essere nel Tutto, un essere soggettività in un essere molteplicità. Nel momento in cui si dà, l’essere si è tirato fuori dal Tutto, è nato al mondo tirandosi fuori dal Tutto, cioè dalla condizione pre-esistente, cioè esistente prima che l’essere nascesse. Nel momento in cui nasce, l’essere si autoesclude dal Tutto, del quale non può più avere cognizione. Ma del quale non aveva cognizione neanche prima, perché non si può esistere nel Tutto, dal momento che si esiste solo nell’attimo in cui da esso ci si tira fuori. E invero non si può esistere nel Tutto anche perché il Tutto prima dell’essere non può esistere. Cioè il Tutto esiste nel momento in cui diventa ciò da cui siamo usciti, dunque esiste solo nel e dal (cioè a partire dal) momento in cui l’essere si costituisce come soggetto, Io. La condizione predecente non può che essere una dimensione di potenzialità immanente e a-soggettiva. E dunque il soggetto, nascendo, crea se stesso e ciò da cui è nato, ponendolo come esterno da sé. Ma lo crea come perdita, come mancanza, come assenza.
Da qui deriva la sua condizione essenzialmente tragica, cioè tragica in maniera essenziale, direttamente legata alla sua esssenza, cioè al modo della sua esistenza, che è appunto un esistere in quanto autoescludersi da cio in cui, dalla dimensione in cui, nascendo, si tira fuori. Per questo ogni nascita è essenzialmente un assassinio. Cioè ognuno nasce uccidendo Dio. E vive nel rimorso. Nella mancanza. Nell’assenza.
E dunque la
bellezza cos’è? La speranza lo si capisce, perché è legata al rimorso, e
all’assenza, e dunque alla possibilità di imbattersi in uno sbaglio di natura che risolva la nostra
tragedia e in qualche modo ci trasporti sotto a quel limite (sub-limen) che tuttavia
necessariamente, cioè costituzionalmente, non possiamo superare, perché è costituito dal
nostro stesso esistere, e quindi esiste, come limite, in conseguenza del fatto
che noi esistiamo, e dunque esistendo non possiamo superarlo. E la bellezza
allora cos’è se non ciò di cui si nutre la speranza? Perché altrimenti su quali
basi di verità potrebbe poggiare la speranza? Quale credibilità potrebbe avere?
Quale fondamento? Se non esistesse la
bellezza a testimoniare, con la sua esistenza,
l’esistenza, vera, concreta, che si può toccare con mano, di una
armonia; che non è opera nostra, del nostro intelletto, della nostra abilità,
della nostra intuizione, ma che anzi esiste a prescindere da noi? E questa
esistenza di qualcosa che possiamo toccare ma che non possiamo comprendere, non
è forse il fantasma che ci salva?
Forse. Dunque c’è speranza.
“L’uno in sé diverso è l’essenza della bellezza, e prima che fosse stato trovato non esisteva alcuna filosofia. La poesia è il principio e la fine di questa scienza”.
Così scriveva
Holderlin in uno dei suoi frammenti più importanti. Ma questo frammento va inserito,
necessariamente, nella complessità del
suo pensiero, di cui dunque bisogna avere conoscenza, cosa non facile, a causa
della frammentarietà della sua opera. Tuttavia viene qui ripreso, forse arbitrariamente, per segnare una differenza che è
significativa e le cui conseguenze necessitano di essere indagate.
L’Uno in sè diverso, infatti, è
l’essenza del divenire. E
il divenire è l’unica via che abbiamo per concepire la pienezza dell’essere, non
potendo noi concepire la sua pluralità nell’unità di tempo (cioè il fatto di
essere cose diverse nel medesimo tempo).
Quindi non è l’essenza della bellezza. O meglio lo è nella misura in cui
è solo attraverso una disposizione
armonica che si può comporre una
molteplicità di parti in un tutto. Dunque la bellezza è il superamento del
divenire, laddove il divenire rappresenta solo una manifesta insufficienza, non
potendo risolvere la molteplicità in un tutto che attraverso l’introduzione di
una sequenza temporale. Quindi il frammento
di Holderlin dovrebbe essere scritto in questo modo:
“La bellezza è l’essenza dell’Uno in sé diverso, e prima che fosse trovata non
esisteva alcuna filosofia. La poesia è il principio e la fine di questa
scienza”.
In questo modo anche la seconda parte del frammento pare più circostanziata.
Bisognerebbe ora parlare del significato della poesia per Holderlin per
contestualizzare questo suo pensiero, ma non lo faremo. E’ un dialogo che, per
fortuna cominciato, ci accompagnerà fino alla fine; e dunque ci sarà tempo e
modo. Qui comunque, senza entrare nel merito, abbiamo compiuto una forzatura,
ma il risultato funziona. Perché la poesia è il pensiero che canta (non
esteriormente, come in un’opera lirica,
ma nel suo stesso costituirsi, cioè nella sua essenza, attraverso la
disposizione degli accenti cioè la loro precisa distanza nel verso, che
costituisce dei veri e propri accordi),
e dunque è un pensiero che per il fatto di essere armonico
si libera dal giogo dell’intelligenza.
Proust dichiarava in una intervista nel 1913 che la Recherce era stato il
tentativo di convertire in qualcosa di intelligibile quello che sembrava
estraneo al mondo dell’intelligenza, al
pari di un motivo musicale.
Tentativo eroico, in tutto paragonabile al folle volo dell’Ulisse dantesco,
perché come quello fondato su una contraddizione in termini. Che lì era
il pensare di poter vedere il Paradiso da vivi, e qui è stato il tentare di
rendere con la prosa, e quindi con l’intelligenza, con il pensiero ragionato,
quei molteplici elementi forniti dalla
sensibilità, come le impressioni
provate con la musica.
Perché è solo attraverso la poesia che il pensiero diventa musica. Cioè il
pensare diventa musica; e dunque l’esistere diventa essere musica, essere cioè l’esito di una disposizione armonica di
aspetti.
Questo dunque è l’Angelo della Bellezza: e quando l’Angelo appare significa che
siamo stati già salvati. Perché Egli è, nello stesso suo mostrarsi, dunque in
una unità di tempo, domanda e risposta. Cioè quello che noi non possiamo
essere. E tuttavia questo, cioè il sapere che questa Unità esiste, anche se non
esiste per noi, e già sufficiente. Così ci dice Montale, concludendo la poesia
che fin qui ci ha condotto:
Va’, per te l’ho pregato,
– ora la sete
mi sarà lieve, meno acre la ruggine…