La stanza di Nietzsche

Il dramma musicale greco, 1870.
Nella nostra odierna vita teatrale non si trovano semplici ricordi ed echi delle arti drammatiche della Grecia. …
L’erudizione, il freddo sapere,  e la polimatia sono un vero e proprio freno per lo sviluppo delle arti moderne: ogni accrescimento e ogni divenire nel campo dell’arte deve procedere nella notte profonda.
… Gode … di una grande popolarità il principio estetico, secondo cui la riunione di due o più arti  non può elevare in alcun modo il godimento estetico e costituisce piuttosto un’aberrazione barbarica del gusto. Ma questo principio dimostra tutt’al più una dannosa assuefazione moderna,  per cui noi non siamo più in grado di godere qualcosa come uomini completi: a causa delle arti assolute noi siamo ridotti in pezzi, e gustiamo qualcosa solo come uomini parziali, ora come uomini che dispongono soltanto dell’udito, ora come uomini che possiedono soltanto la vista eccetera. Confrontiamo con ciò quello che dice A. Feuerbach a proposito del dramma antico, rappresentandolo come arte complessiva. “Non c’è da meravigliarsi – egli dice – che le singole arti, per una affinità elettiva che ha  profonde ragioni, si confondano infine in un tutto indivisibile, inteso  come una nuova forma d’arte. I Giochi olimpici raccoglievano in una unità politico religiosa le stirpi divise dei Greci: la solenne rappresentazione drammatica assomiglia a una festa della riunificazione delle arti greche. Il modello in proposito era già fornito da quelle solettità intorno ai templi, dove la plastica apparizione del dio dinnanzi a una folla devota era festeggiata con danze e canti. Come in quel caso, così anche nella rappresentazione drammatica l’architettura fornisce il quadro e la base, mediante cui la superiore sfera poetica si separa in modo visibile dalla realtà.  Vediamo così che il pittore si occupa dello scenario, e che tutte le attrattive di un variopinto gioco di colori si trovano diffuse nello splendore dei costumi. Dell’anima dell’insieme  si è impadronita la poesia, intesa però a sua volta non già come singola forma poetica, per esempio come inno nel culto del tempio. Quei racconti ci riconducono alla poesia epica. … La poesia lirica trova il suo posto  nelle scene passionali, e nel coro, e può manifestarsi in tutte le sue  sfumature… Nella recitazione, nel canto, nel suono del flauto e nel passo cadenzato della danza il cerchio non è ancora chiuso.  Se infatti la poesia costituisce l’elemento più intimo e fondamentale del dramma, è vero però che a essa si fa incontro, in questa sua nuova forma, la plastica”.
Solo di fronte a una simile opera d’arte, senz’alcun dubbio, noi dovremmo imparare com’è possibile gustare qualcosa come uomini completi: c’è da temere tuttavia che noi, anche se posti di fronte a una siffatta opera, ci spezzeremmo in semplici frammenti, per riuscire ad appropriarci di essa.
… L’anima dell’Ateniese che veniva a vedere le tragedie nelle grandi feste dionisiache, aveva ancora in sé qualcosa dell’elemento onde era sorta la tragedia. Si tratta dell’impulso primaverile che sboccia prepotente, di un sentimento tumultuoso e al tempo stesso folle, noto a tutti i popoli ingenui e all’intera natura, quando si avvicina la primavera. Come si sa, anche le nostre rappresentazioni carnevalesche, e le burle delle nostre maschere derivano in origine da tali feste della primavera,  che sono tuttavia alquanto antidatate per ragioni ecclesiastiche. In questo campo, tutto si riporta all’istinto più profondo: quegli straordinari cortei dionisiaci errabondi, nell’antica Grecia, trovano qualcosa  di  analogo nei danzatori medioevali di San Giovanni e di San Vito, i quali passavano di città in città cantando, saltando e trascinando con sé una moltitudine sempre crescente.
E anche se l’odierna medicina parla di quel fenomeno come di una epidemia del Medioevo, noi tuttavia siamo convinti che i dramma antico è fiorito da una tale epidemia e che la vera disgrazia delle arti moderne consiste proprio nel non essere sgorgate da una tale fonte misteriosa.
…  Questa è la culla del dramma. Esso nasce quando l’uomo è fuori di sé e crede di essersi trasformato per un incantesimo. Nello stato di esser fuori di sé, di estasi,  si richiede soltanto un passo ulteriore: non ritorniamo in noi stessi, ma piuttosto entriamo in un altro essere, comportandoci così come individui trasformati per un incantesimo. In estrema analisi è di qui che proviene il profondo stupore, suscitato dalla vista del dramma: il terreno vacilla, vien meno la fede nell’indissolubilità e nella rigidità dell’individuo.

Frammenti postumi, Autunno 1869
1.45 
Purtroppo siamo abituati a godere le arti isolate l’una dall’altra: assurdità delle gallerie d’arte e delle sale da concerto. Le arti assolute sono un triste vizio moderno. Tutto si smembra.  Non esistono organizzazioni che coltivino insieme le arti come arte unica, che coltivino cioè i campi dove le arti si unificano.
Ogni arte percorre un tratto di strada da sola,  un altro in compagnia delle altre arti. In epoca moderna, per esempio, i grandi trionfi italiani rappresentano una simile unificazione delle arti. …

Socrate e la tragedia, 1870
Opere di F. Nietzsche, vol III tomo II

… Quando morì la tragedia si disse che la poesia era perduta. Nella commedia attica nuova sopravvisse la forma degenerata della tragedia.
Euripide, Menandro e Filemone portarono lo spettatore sulla scena. Prima di Euripide i personaggi erano uomini eroicamente stilizzati, in cui si riconosceva subito la derivazione dagli Dei e dai semidei della tragedia più antica. Lo spettatore vedeva in essi il passato ideale della grecità,  e insieme anche la realtà di tutto ciò che viveva nella propria anima nei momenti più difficili.
Con Euripide penetrò sulla scella lo spettatore, ossia l’uomo della realtà della vita quotidiana. Lo specchio, in cui prima erano stati riflessi solo i tratti grandi e arditi, diventò più fedele, e con ciò più volgare. Le forme della quotidianeità si posero in chiara evidenza.
Quell’immagine autenticamente tipica del Greco, la figura di Odisseo,  era stata potenziata da Eschilo nel carattere grandioso, astuto e nobile di Prometeo.
Tra le mani dei nuovi poeti tale figura si abbassò nella parte dello schiavo domestico, che tanto spesso sta al centro dell’intero dramma, quale sfacciato intrigante.
… Lo spettatore vedeva e ascoltava sulla scena euripidea il proprio sosia. L’idealità si è ritirata nella parola, ed è fuggita dal pensiero. –
…Il medio ceto berghese,  su cui Euripide fondava le sue speranze politiche, prese ora la parola, dopo che fino a quel momento i maestri della lingua erano stati nella tragedia il semidio e nella commedia antica il satiro.
Con la perdita della tragedia il Greco aveva perso la fede nella propria immortalità, non solo la fede in un passato ideale, ma anche la fede in un futuro ideale.
L’attimo e l’arguzia sono ora le divinità supreme. Predomina ora, almeno secondo i sentimenti, il quinto stato, quello dello schiavo.
Euripide lottò contro la decadenza del dtramma musicale, che egli vedeva in Eschilo e Sofocle. Egli aveva osservato quale abisso si apriva tra lo spettatore e la tragedia. Egli giunse a formulare una estetica razionalista, sintetizzata con la legge capitale che dice: “Tutto deve essere razionale, affinchè tutto possa venir compreso”.

…In Socrate ha preso corpo uno degli aspetti della grecità, ossia quella chiarezza apollinea, senza alcuna mescolanza estranea: egli appare come un puro e trasparente raggio di luce, in quanto annunciatore e araldo della scienza che doveva del pari nascere in Grecia. Ma la scienza e l’arte si escludono a vicenda: da questo punto di vista è significativo che Socrate fosse il primo grande Greco ad esere brutto.
 Del resto tutto in lui è simbolico. Egli è il padre della logica,  che presenta nel modo più nello il carattere della scienza; egli è il distruttore del dramma musicale, che aveva raccolto in sé i raggi di tutta l’arte antica.
Distruttore del dramma musicale egli lo è in un senso assai più profondo di quanto non si sia potuto accennare sinora. Il Socratismo è più antico di Socrate: il suo influsso dissolvitore sull’arte si fa già notare molto tempo prima. L’elemento peculiare del socratismo – la dialettica – si è insinuato nel dramma musicale già molto tempo prima di Socrate, e ha agito in modo devastatore su quel bel corpo.  La corruzione prende lo spunto dal dialogo. Com’è noto il dialogo non appartiene originariamente alla tragedia,  ma si sviluppa solo dopo l’intervento di una coppia di attori, cioè relativamente tardi.  Già prima esisteva qualcosa di analogo,  nel colloquio tra l’eroe e il corifeo: qui tuttavia la contesa dialettica era impossibile, a causa della subordinazione di un personaggio all’altro. Non appena tuttavia si trovarono di fronte due attori principali in una stessa posizione, si manifestò allora una gara di parole e argomenti. Con quella gara si fece appello nell’animo dello spettatore, a un elemento che fino ad allora era stato bandito dalle sedi solenni delle arti drammatiche: la “cattiva” Eris. La buona Eris dominava già fin dai tempi antichi in tutte le rappresentazioni musicali e in occasione della tragedia faceva comparire tre poeti in gara di fronte al popolo raccolto per giudicare. Ma quando il riflesso della contesa verbale, che proveniva dall’atrio del tribunale,  si insinuò anche nella tragedia,  sorse allora per la prima volta un dualismo nella natura e nell’effetto del dramma musicale.  Da quel momento vi furono parti della tragedia in cui la compassione retrocedeva, di fronte all’evidente piacere suscitato dallo stridere delle armi dialettiche. L’eroe del dramma si trasformò in erore della parola. … A poco a poco tutti i personaggi cominciarono a parlare con tale sfoggio di  acume, di chiarezza e di perspicuità che sorge realmente in noi un’impressione complessiva imbarazzante, quando leggiamo una tragedia di Sofocle. Non si ha che da confrontare quato diversa sia la dialettica degli eroi di Shakespeare: su tutti i loro pensieri, le loro supposizioni e le loro deduzioni si trovano diffuse una certa bellezza musicale, e una certa interiorizzazione, mentre nella tarda tragedia greca domina un dualismo assai sospetto nello stile per cui la potenza della musica è separata da quella della dialettica. Quest’ultima si avanza sempre più prepotentemente, sino a dire la parola decisiva anche riguardo alla struttura dell’intero dramma. Il processo si conclude con la commedia di intrigo: solo in tal modo viene ad essere superato quel dualismo, in conseguenza dell’annientamento totale di uno dei due contendenti, cioè della musica.
A tale proposito è significativo che  tale processo sia giunto alla fine con la commedia,  mentre aveva preso inizio con la tragedia. La tragedia, sorta dalla profonda fonte della compassione, è nella sua essenza pessimistica.  In essa l’esistenza è qualcosa di sommamente terribile, l’uomo è qualcosa di sommamente stolto. L’eroe della tragedia non si rivela, come crede l’estetica moderna, nella lotta contro il destino, e altrettanto poco si può dire che egli soffra ciò che merita. Piuttosto egli si precipita nella sua avventura cieco e col capo velato: e il gesto desolato e nobile con cui si si erge di fronte a questo mondo di terrore allora riconosciuto, penetra come un aculeo nella nostra anima. La dialettica per contro è ottimistica dal profondo del suo essere: essa crede a causa e conseguenza, e perciò crede in un rapporto necessario tra colpa e punizione, tra virtù e felicità … essa nega tutto ciò che non può scomporre concettualmente. … Quando il gusto per la dialettica ebbe dissolto la tragedia, sorse la commedia nuova con il suo continuo trionfo della furberia e della astuzia.
… Tutti conoscono le proposizioni socratiche: “Virtù è sapere: si pecca solo per ignoranza. Il virtuoso e felice”.  In queste tre forme fondamentali dell’ottimismo trova la morte la tragedia pessimistica. Già  lungo tempo prima di Euripide queste idee hanno contribuito alla dissoluzione della tragedia. Se la virtù è sapere, l’eroe virtuoso deve allora essere un dialettico.

Nietzsche già nel 1870 ha così individuato il cuore del problema, il centro dell’errore: la sua critica feroce alla contemporaneità è condotta non in nome del positivismo, come spesso viene detto, ma, al contrario, come evidenzia Colli nella nota a Umano troppo umano, è diretta contro il pensiero deterministico e conseguenziale, che del positivismo costituisce il fondamento.

Umano troppo umano
Fr. 2   Difetto ereditario dei filosofi.
Tutti i filosofi hanno il difetto di partire dall’uomo attuale e di credere di  giungere allo scopo attraverso una analisi dello stesso. Inavvertitamente “l’uomo” si configura alla loro mente come una aeterna veritas,  come un’entità fissa in ogni vortice. Come una misura certa delle cose. Ma tutto ciò che il filosofo enuncia sull’uomo non è infondo altro che una testimonianza sull’uomo di un periodo molto limitato.
La mancanza di senso storico  è il difetto ereditario di tutti i filosofi; molti addirittura prendono di punto in bianco la più recente configurazione dell’uomo, quale essa si è venuta delineando sotto la pressione di determinate religioni, anzi, di determinati avvenimenti politici, come la forma fissa dalla quale si debba partire. Non vogliono capire che l’uomo è divenuto, e che anche la  facoltà di conoscere è divenuta; mentre alcuni di loro si fanno addirittura fabbricare, da questa facoltà di conoscere, l’intero mondo.
Ora tutto l’essenziale dell’evoluzione umana è avvenuto in tempi remotissimi, assai prima di quei quattromila anni che all’incirca conosciamo, e durante i quali l’uomo non può essere gran che cambiato.
(dopo questa parola nel manoscritto per la stampa si legge il seguente passo cancellato da N. “Ma qui il filosofo scorge “istinti” dell’uomo attuale e sulla loro base trae conclusioni sull’essenza del mondo (come Schopenhauer)” ).
Ma nell’uomo attuale il filosofo vede “istinti” e suppone che essi appartengano ai fatti immutabili dell’uomo e possano quindi fornire una chiave alla comprensione del mondo in generale: tutta la teologia è basata sul fatto che dell’uomo degli ultimi quattromila anni si parla come di un uomo eterno, al quale tendono naturalmente dalla loro origine tutte le cose del mondo.
Ma tutto  è  divenuto; non ci sono fatti eterni: così come non ci sono verità assolute. Per conseguenza il filosofare storico è da ora in poi necessario, e con esso la virtù della modestia.

16.   Fenomeno e cosa in sé.
I filosofi sogliono porsi  davanti alla vita e all’esperienza – davanti a ciò che essi chiamano in mondo fenomenico – come davanti a un quadro, che è svolto una volta per tutte, e che mostra in modo invariabile e fisso lo stesso processo: questo processo, essi pensano, deve essere rettamente interpretato, per trarne una conclusione sull’essere che ha prodotto il quadro: vale a dire sulla cosa in sé, che suol essere sempre considerata come la ragion sufficiente del mondo fenomenico. Per contro, logici più rigorosi, dopo aver acutamente definito il concetto del metafisico come quello di ciò che non è condizionato e che quindi, anche, non condiziona, hanno negato ogni connessione tra l’incondizionato (il mondo metafisico) e il mondo a noi noto: sicchè nel fenomeno appunto non si manifesta affatto la cosa in sé e bisogna rifiutare ogni conclusione da quello a questa.
Da ambedue le parti non è stata comunque tenuta in considerazione la possibilità che quel quadro – ciò che oggi per noi si chiama vita ed esperienza – sia divenuto a poco a poco, che anzi sia ancora in pieno divenire, e che non debba perciò essere considerato come grandezza fissa, in base alla quale si possa formulare o anche soltanto negare un giudizio sull’autore (la ragione sufficiente).

Fr. 19,  Il numero
La scoperta delle leggi dei numeri è stata fatta in base all’errore già in origine dominante che ci siano più cose uguali (ma in realtà non c’è niente di uguale), o che per lo meno ci siano cose (ma non ci sono “cose”),
L’ammissione della molteplicità presuppone sempre già che ci sia qualcosa che si presenta come molteplice: ma proprio qui regna già l’errore, già qui fingiamo esseri e unità che non esistono. Le nostre sensazioni di tempo e di spazio sono false, giacché, vagliate conseguentemente, conducono a contraddizioni logiche. In tutte le determinazioni scientifiche noi calcoliamo sempre inevitabilmente con alcune grandezze false: ma, poiché queste grandezze sono per lo meno costanti,  come per esempio la nostra sensazione dello spazio e del tempo, i risultati della scienza acquistano lo stesso perfetto rigore e sicurezza nella loro reciproca connessione; su di essi si può continuare a costruire – fino a quell’ultimo limite, dove le erronee premesse, quegli errori costanti, riescono in contraddizione con i risultati, come per esempio nella dottrina atomica. Qui ci sentiamo sempre costretti ad ammettere una “cosa”, o “substrato materiale” che vien mosso, mentre l’intera procedura scientifica ha appunto perseguito il compito di risolvere in movimento tutto ciò che si presenta come una cosa (che è materiale): anche qui noi distinguiamo ancora con la nostra sensazione ciò che muove e ciò che è mosso, e non usciamo da questo circolo, perché la fede nelle cose è fin dall’antichità connessa col nostro essere.
Quando Kant dice che “l’intelletto non attinge le sue leggi dalla natura, ma le prescrive a questa”, ciò è pienamente vero riguardo al concetto di natura che noi siamo costretti a collegare con essa (natura = mondo come rappresentazione, cioè come errore), che è però il compendio di una moltitudine di errori dell’intelletto. Le leggi dei numeri sono totalmente inapplicabili a un mondo che non sia nostra rappresentazione: esse valgono solo nel mondo umano.

La gaia scienza, 1882
Libro terzo, fr. 112, Causa ed effetto.
Lo chiamiamo spiegazione;  ma è “descrizione” quello che ci contraddistingue dai gradi più antichi della conoscenza e della scienza. Noi descriviamo meglio; ma spieghiamo tanto poco quanto tutti i nostri predecessori.  Abbiamo  scoperto una molteplice successione, laddove l’uomo ingenuo e l’indagatore di civiltà più antiche vedeva soltanto una duplice specie di fatti,  “causa” ed “effetto”, come si diceva;  abbiamo reso perfetta l’immagine del divenire,  ma non siamo approdati oltre l’immagine, dietro l’immagine. 
La serie delle  “cause” ci sta in ogni caso dinnanzi molto più completa; ne deduciamo che questo e quello devono precedere perchè segua quell’altro,  ma con ciò non abbiamo compreso nulla. La qualità, per esempio, in ogni divenire chimico, appare,  sia dopo che prima,  un “miracolo”; allo stesso modo ogni propulsione; nessuno ha “spiegato” l’urto. Come potremmo mai d’altra parte giungere ad una spiegazione! Operiamo, nè più nè meno,  con cose che non esistono, con linee, superfici, corpi, atomi, tempi divisibili, spazi divisibili: come potrebbe anche soltanto essere posssibile un spiegazione, se di tutto noi facciamo per prima cosa un’immagine, la nostra immagine! E’ sufficiente considerare la scienza come la più fedele possibile umanizzazione delle cose; impariamo a descrivere sempre più esattamente noi stessi, descrivendo le cose e la loro successione.
Causa ed effetto: probabilmente non è mai esistita una tale dualità – in verità davanti a noi c’è un continuum,  di cui isoliamo un paio di frammenti;  così come percepiamo un movimento sempre soltanto come una serie di punti isolati, quindi, propriamente,  non vediamo, bensì deduciamo.
La repentinità, con cui si mettono in evidenza molti effetti, ci induce in errore: ma è soltanto una repentinità per noi. In questa repentinità dello spazio d’un secondo c’è un’infinita accozzaglia di processi che ci sfuggono. Un intelletto che vedesse causa ed effetto come un continuum, – non come il risultato arbitrario di una divisone e di uno smembramento, -vedrebbe il flusso dell’accadere, rigetterebbe il concetto di causa ed effetto e ogni condizionamento.

Libro Quinto, Fr. 373. “Scienza” come pregiudizio.
Dalle leggi della gerarchia discende la conseguenza che ai dotti, in quanto appartengono al ceto medio dello spirito, non è affatto lecito arrivare a scorgere i veri grandi problemi e interrogativi: per di più, il loro animo e così pure la loro vista non arrivano a tanto – soprattutto il loro bisogno, che fa di essi degli investigatori, il loro intimo anticipare e auspicare che le cose possano essere fatte così e così, i loro timori e le loro speranze, giungano presto a trovar pace e appagamento. Quel che per esempio induce il pedante inglese Herbert Spencer a fantasticare a suo modo e gli fa descrivere una traccia di speranza, una linea d’orizzonte della desiderabilità, quella conciliazione finale di “egoismo e altruismo”, di cui favoleggia, a noi mette quasi la nausea.
… Similmente accade per quella credenza, di cui oggi tanti materialisti scienziati della natura si sentono soddisfatti,  credenza in un mondo che dovrebbe avere il suo equivalente e la sua misura nel pensiero umano, in umani concetti di valore; in un “mondo della verità”, a cui si potrebbe in definitiva accedere con l’aiuto della nostra piccola quadrata ragione umana – come? Vogliamo davvero far si che l’esistenza si avvilisca in un esercizio da contabili e da matematici chiusi nel loro studio? Innanzitutto non si deve voler spogliare l’esistenza del suo carattere polimorfo: lo esige il buon gusto, signori miei, il gusto del rispetto di fronte a tutto quello che va al di là del vostro orizzonte! Che abbia ragion d’essere una sola rappresentazione del mondo, quella in cui voi vi sentite a posto, quella in cui si può investigare e continuare a lavorare scientificamente nel vostro senso (per voi, in realtà, meccanicistico?), una siffatta interpretazione, che altro non ammette se non il contare, calcolare, pesare, vedere e toccare con mano, è una balordagine e una ingenuità, posto che non sia una infermità dello spirito, un’idiozia.
Non sarebbe invece assai verosimile che in primo luogo si lasci afferrare proprio quel che l’esistenza ha di più superficiale ed esteriore – il massimamente apparente, la sua epidermide e il suo materializzarsi? E che forse si lasci addirittura afferrare solo questo? Un’interpretazione “scientifica” del mondo, come l’intendete voi,  potrebbe essere di conseguenza pur sempre una delle più sciocche, cioè, tra tutte le possibili interpretazioni del mondo,  una delle più povere di senso: sia detto ciò per gli orecchi e per la coscienza dei signori meccanicisti che oggi si intrufolano volentieri tra i filosofi, e sono senz’altro dell’opinione che la meccanica sia la teoria delle leggi prime e ultime,  sulle quali ogni esistenza dovrebbe essere edificata come sopra le sue fondamenta.
Tuttavia un mondo essenzialmente meccanico sarebbe un mondo essenzialmente privo di senso! Ammesso che si potesse misurare il valore di una musica da quanto di essa può essere computato, calcolato, tradotto in formule – come sarebbe assurda una tale “scientifica”  misurazione della musica! Che cosa di essa avremmo mai colto, compreso,  conosciuto? Niente, proprio un bel niente di ciò che propriamente in essa è “musica”…!

Libro quinto, Frammento 343.
Quel che significa la nostra serenità.
Il più grande avvenimento recente – che “Dio è morto” (le virgolette indicano una citazione da un precedente frammento, Libro terzo n. L’uomo folle – ndc), che la fede nel dio cristiano è divenuta inaccettabile – comincia già a gettare le sue prime ombre sull’Europa.
A quei pochi almeno, i cui occhi, la cui diffidenza negli occhi è abbastanza forte e sottile per questo spettacolo, pare appunto che un qualche sole sia tramontato,  che una qualche antica, profonda fiducia si sia capovolta in dubbio: a costoro il nostro vecchio mondo dovrà sembrare ogni giorno più crepuscolare, più sfiduciato, più estraneo, più “antico”.
Ma in sostanza si può dire che l’avvenimento stesso è fin troppo grande, troppo distante, troppo alieno dalla capacità di comprensione dei più perché possa dirsi già arrivata anche soltanto notizia di esso; e tanto meno, poi, perché molti già si rendano conto di quel che  veramente è accaduto con questo avvenimento –  e di tutto quello che ormai, essendo sepolta questa fede, deve crollare, perché su di essa era costruito, e in essa aveva trovato il suo appoggio, e dentro di essa era cresciuto:  per esempio tutta la nostra morale europea. Una lunga, copiosa serie di demolizioni, distruzioni, tramonti, capovolgimenti ci sta ora dinanzi:  che già da oggi potrebbe aver già sufficiente divinazione di tutto questo da diventare maestro e veggente di questa mostruosa logica dell’orrore,. Da essere il profeta di un ottenebramento e di un’eclisse di sole, di cui probabilmente  non si è ancora mai visto sulla terra l’uguale?… Perfino noi, per nascita divinatori d’enigmi, noi che stiamo in attesa per così dire sulle montagne, piantati fra l’oggi e il domani, noi primogeniti e figli prematuri del secolo venturo, noi che già dovremmo scorgere le ombre che ben presto avvolgeranno l’Europa: comìè che perfino noi le guardiamo salire senza una vera partecipazione a questo ottenebramento, soprattutto senza preoccuparci e temere per noi stessi? Siamo forse ancora troppo soggetti alle più immediate conseguenze di questo avvenimento – e queste più immediate conseguenze, le conseguenze per noi, contrariamente a quello che ci si potrebbe aspettare, non sono per nulla tristi e rabbuianti, ma piuttosto come un nuovo genere, difficile a descriversi, di luce, di felicità, di ristoro, di rasserenamento, d’incoraggiamento, di aurora… In realtà noi filosofi e “spiriti liberi”, alla notizia che “il vecchio Dio è morto”, ci sentiamo come illuminati dai raggi di una nuova aurora; il nostro cuore ne straripa di riconoscenza, di meraviglia, di presagio, di attesa – finalmente l’orizzonte torna ad apparirci libero, anche ammettendo che non è sereno,  finalmente possiamo di nuovo sciogliere le vele alle nostre navi, muovere incontro a ogni pericolo; ogni rischio dell’uomo della conoscenza è di nuovo permesso; il mare, il nostro mare, ci sta ancora aperto dinanzi, forse non vi è ancora mai stato un mare così “aperto”.

Libro quinto, Frammento374.
Il nostro nuovo “infinito”.
Fino a che punto si estenda il carattere prospettico dell’esistenza, o se essa addirittura non abbia oltre a ciò un altro carattere, se un’esistenza senza spiegazione, senza “senso”, non diventi appunto un “nonsenso”, se, d’altra parte, ogni esistenza non sia già essenzialmente una esistenza che spiega – tutto questo, com’è giusto,  non può essere deciso nemmeno attraverso la più diligente analisi, l’autoindagine dell’intelletto più penosamente coscienziona; infatti, in questa analisi, l’intelletto umano non può fare a meno di vedere se stesso sotto le sue forme prospettiche e soltanto in esse. Non possiamo girare con lo sguardo il nostro angolo: è una curiosità disperata voler sapere quali altre specie di intelletto e di prospettive potrebbero ancora esserci: per esempio, se chissà quali esseri possono avvertire il tempo a ritroso,  oppure alternativamente in senso progressivo e regressivo (con la qual cosa sarebbe data un’altra direzione della vita e un altro concetto di causa ed effetto).
Ma io penso che oggi per lo meno siamo lontani dalla ridicola presunzione di decretare dal nostro angolo che solo a partire da questo angolo si possono avere prospettive. Il mondo è piuttosto divenuto per noi ancora una volta “infinito”: in quanto non possiamo sottarci alla possibilità che esso racchiuda in sé interpretazioni infinite. Ancora una volta il grande brivido ci afferra – ma chi mai avrebbe voglia immediatamente di divinizzare ancora, alla maniera antica, questo mostruoso mondo ignoto? E di adorare forse, da questo momento, questa cosa ignota come “colui che è ignoto”? Ah, in questo ignoto sono comprese troppe possibilità non divine d’interpretazione, troppa diavoleria, scempiaggine, bizzarria d’interpretazione – quella nostra umana, anche troppo umana, interpretazione, che conosciamo…

Frammenti postumi, quaderno 14 frammento 25, Autunno 1881.
Dove se n’è andato Dio? Che cosa abbiamo fatto? Abbiamo vuotato il mare bevendolo fino all’ultima goccia? Che spugna fu quella con cui abbiamo cancellato l’intero orizzonte intorno a noi? Come siamo riusciti a strusciar via questa salda eterna linea cui si riferivano finora tutte le linee e le misure, secondo la quale finora costruivano tutti gli architetti della vita, senza la quale sembrava non poterci essere prospettiva, ordine, architettura?
E noi, stiamo ancora dritti in piedi? Non è il nostro un eterno precipitare?
E come se fosse all’ingiù, all’indietro, di fianco, da tutti i lati? Non abbiamo indossato lo spazio infinito come un manto di aria gelida?
E persa ogni forza di gravità,  perché per noi non c’è più un alto e un basso? E se ancora viviamo e beviamo la luce, come in apparenza siamo sempre vissuti, non è come per lo splendere e il brillare di stelle che si sono spente? 
Ancora non vediamo la nostra morte, la nostra cenere, e questo c’inganna e ci fa credere di essere noi stessi luce e vita –  ma non è che la vecchia vita nella luce d’un tempo,  l’umanità passata e il Dio passato,  i cui raggi e i bagliori continuano a giungere fino a noi – anche la luce vuol tempo,  anche la morte e la cenere vogliono tempo! 
E da ultimo, noi che viviamo e splendiamo,  che ne è della nostra forza luminosa? in confronto con quella delle generazioni trascorse?
E’ qualcosa di più di quella luce grigio cenere che la luna riceve dalla terra illuminata?

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