Pubblicato su Nuova Corrente nn. 76-77, 1978
1.
L’Architettura contemporanea di M. Tafuri e F. Dal Co si conclude sul nome di Heidegger. “Differenza” e “rinuncia” costituiscono il punto di vista tragico dal quale le vicende di questa architettura sono descritte 1). Non di “storia” perciò si tratta, – ma del problema dell’architettura contemporanea, di evidenziarne il Fragwurdiges: il suo rapporto fondamentale col mondo e le cose, il suo linguaggio in quanto esistenza di tale rapporto.
Il richiamo ad Heidegger è quindi necessario: poichè egli ha pensato direttamente ciò che appare “degno di questione” nella situazione contemporanea dell’architettura. Ma non solo. Egli l’ha pensato in forma tale da rendere impossibile o inconcepibile i Valori e le Mete di cui questa architettura si alimenta. L’analisi “disperata” di questa inconcepibilità costituisce il fulcro dell’opera di Tafuri e Dal Co. Ma i rapporti con la critica heideggeriana sono complessi, molteplici, anch’essi irriducibili a concilianti unità.
De-costruirli, analizzarli, potrà forse permetterci di vedere gli elementi fondamentali di questa vicenda che nominiamo “architettura contemporanea” sotto una luce meno disciplinarmente caduca. In gioco non sono le vecchie critiche. politiche, sociologiche, estetiche, che di volta in volta si ricorrono per catturare questo “nome” –- ma questo “nome” stesso. Perchè “architettura” oggi? Wofur Dichter…?
E’ l’elemento tettonico dell’architettura ciò che interessa
Heidegger. L’architettura produce, nel senso greco della “tecnica”, che non
significa “né arte né mestiere, ma: far apparire qualcosa tra le cose presenti”
(2). L’architettura costruisce in quanto pro-duce, in quanto porta qualcosa
alla presenza. Esso viene pro-dotto,
fatto apparire, non determinato dal costruire. “Solo se abbiamo la capacità di
abitare, possiamo costruire” (3). L’allogiare, non l’abitare, può essere
concepito come il risultato del costruire.
Il costruire come pro-duzione dell’abitare pone invece un’identità originaria
tra i due termini: costruire e abitare. Attraverso una caratteristica catena
etimologico-allegorica Heidegger ripensa: bauen, all’origine, vale anche per
dimorare – ma il dimorare è la forma in cui io sono (bin). Il modo in cui io
sono è il “ciclo”: abitare – costruire – abitare. Non abitare un alloggio –- né
costruire un alloggio. Ma dimorare come colere, come cultura: essere nel
Geviert, nel “quadrato”: sulla terra e sotto il cielo – davanti ai divini e nella comunità degli
uomini. Costruire è produrre l’abitare, ma abitare è essere nel Geviert:
l’architettura è attività tettonica nella misura in cui lascia – passare, fa
apparire il Geviert e lo accoglie (4).
Potremmo anche dire: che cos’è una cosa costruita? Un ponte.
Il ponte fa apparire le rive, riunisce la terra intorno a sé, ne “raduna” gli elementi: concilia, nel suo
modo, terra e cielo, i divini e i mortali (5). Il ponte è un luogo: “il
costruire erige luoghi che fanno al Quadrato” (6), che lo custodiscono, che ne
hanno cura.
Prima del ponte esistono spazi soltanto – uno spazio, in virtù del ponte,
diviene un luogo. Costruire significa dar – luogo, far – luogo. Costruire è far
luogo al Geviert e dimorarvi.
Ma che cosa vi è di problematico in ciò? Perchè questo discorso richiamerebbe in causa il costruire – abitare? Vi è un modo volgare, idiotamente razionalista di leggere questo Heidegger, appiattendolo su una “Filosofia dell’architettura” alla Spengler. Spengler parlava dell’assenza di “casa” nella città mondiale, dell’assenza di case dove “Vesta e Giano, Penati e Lari” possano dimorare. La casa appare come sradicata, e l’uomo vi vive unicamente come locatario o ospite.
Lo spirito è straniero in questo spazio, il cui paesaggio viene sistematicamente
distrutto dal mero aedificare, dalla mera
ars aedificandi. Questo spirito,
non più “pianta”, non più organicamente
connesso a “terra e cielo”, diviene
sterile e mena un’esistenza errante attraverso le “nature artificiali” delle
metropoli (7). Tutto ciò è all’origine dell’architettura
radicale e di miliardi di pagine pseudo – sociologiche sulla “alienazione”.
Ma è l’esatto opposto dell’intenzione del discorso heideggeriano. Non “sterile”
è lo spirito sradicato delle metropoli, ma produttivo per eccellenza. E’ la
rottura definitiva del suo essere naturale a permettere al Soggetto di voler – potere
sulla natura. E questo aveva già detto Simmel. Ma vi è
una differenza più sostanziale ancora.
Il problema non riguarda la forma del costruire in quanto tale. Ciò che
è assente non è l’ “adeguazione”
dell’edificare allo spirito, per cui lo spirito sarebbe estraneo alla sua
dimora. Il problema consiste nel fatto
che lo spirito non può più abitare, è divenuto estraneo all’abitare. E perciò
il costruire non può far-apparire la
Dimora.
Come procede Heidegger? Egli non fa che assumere radicalmente le pretese e le intenzioni dell’architettura, non fa che svolgerle fino alla loro conseguenza estrema. Tu dici di costruire. Ma il costruire è forse un semplice mezzo per l’abitare? Tu costruisci alloggi – eppure affermi che in questi alloggi l’uomo “dimora”. Il tuo fine consiste nel far “dimorare” l’uomo. Ma come puoi pretendere questo fine, se ignori che il pro – durre l’abitare è concepibile soltanto se l’abitare è originariamente connesso al costruire? Devi allora mostrarmi l’esistenza di questa connessione. E dimorare significa forsa soltanto “ripararsi”? o non anche “coltivare” e “gettare ponti” tra gli elementi del Geriervt? Così infatti ripete l’architettura: essa predica il rapporto tra l’alloggio e il lavoro, tra il riparo e la natura. A tale fine essa pare tendere. Eppure, questo fine non viene mai a problema: esso viene assunto come “naturale”, mentre è invece di Fragwurdiges dell’attuale condizione dell’arichitettura – non un modo o l’altro con cui si intende risolverlo, ma questo fine in sé e per sè. Non nostalgia, allora, in Heidegger – ma piuttosto il contrario. Egli radicalizza il discorso sui fondamenti di ogni possibile atteggiamento “nostalgico”, ne mette a nudo la logica, per evidenziarne spietatamente la distanza insuperabile rispetto alla attuale condizione.
Non si tratta di mutare le forme attraverso cui l’architettura pensa di costruire dimore. Occorre chiedersi che cosa la Dimora sia. La Dimora è soltanto se il dimorare sta a condizione dell’edificare, connesso originariamente al costruire. La Dimora è soltanto se il costruire pro-duce il luogo del Geviert. Non sono possibili “accomodamenti estetici” né “economici” a questa domanda. Ciò non significa che essi non esistano: ciò che è illusorio e mistificante è credere che il design degli interni o la costruzione di alloggi risolvano il problema dell’abitare. Ovviare alla crisi degli alloggi è necessario e fondamentale. Ma questo programma va mantenuto radicalmente distinto da qualsiasi pretesa anche soltanto di parlare del problema della dimora. Non nella qualità dell’edificio, o dei servizi, o del design sta l’abitare. O tacerne, o parlarne secondo il suo linguaggio: abitare è essere nel Geviert, sentire l’abitazione come condizione fondamentale del proprio essere, sentirsi “abitanti”. Ma è possibile costruire per “abitanti”? Soltanto degli “abitanti” lo potrebbero. E l’ “abitante” è oggi appunto l’assente.
Heidegger si
limita a ribadire la sradicatezza
dell’uomo di fronte alle false e impotenti pretese di ricomporlo organicamente,
di rifarlo organismo, pianta, radice.
All’architettura che pretende questa ricomposizione va chiesto: vuoi produrre
dimore? sai dunque abitare? Heidegger
dice che occorre “imparare ad abitare”.
Egli rimane in ascolto dell’appello all’abitare. Ma nessun Dio chiama. E’
piuttosto la crisi stessa attuale che chiama. Ma come può la crisi chiamare
all’abitare? Heidegger non lo può dire.
Di fatto, il saggio ribadisce l’inesistente logica del “ciclo”
abitare – costruire – abitare e,
dunque, smonta a priori qualsiasi
pretesa di assumere tale logica come
propositiva, denotativa. Questa logica, wittgensteinianamente, non dice nulla –
se non: forma delle proposizioni.
Heidegger distacca da noi talmente l’idea del costruire – abitare da renderne assolutamente problematica non
solo l’effettualità, ma la stessa nostalgia. Non c’è dubbio che Heidegger permanga
nell’ascolto dell’abitare. Ma
questo ascolto è appunto silenzio. Ciò che parla non è
l’abitare, ma la crisi dell’abitare. E il suo linguaggio è critica, appunto:
divisione, distacco, differenza.
Illustrando le condizioni dell’abitare, Heidegger descrive la differenza
che ci divide dall’abitare – mostrando come ponte la cosa costruita, ci mostra
l’attuale inconcepibilità di un ponte.
Anzi, ci mostra l’attuale miseria degli alloggi che si vorrebero ponti.
Ci insegna l’infinita impotenza dei ripari traverstiti da dimore, delle città
tatuate da luoghi.
Questa critica appare, in Heidegger, sotto la forma dell’ascolto, dell’attesa. Ma quest’attesa si riconosce a priori in-definibile. Le ragioni del distacco dall’abitare-costruire sono iscritte nella storia complessiva del pensiero occidentale –- nella traduzione stessa della thécne greca nella tecnica europea. Il rappresentare, la presentazione del presente, è stato fino ad oggi il carattere fondamentale del pensiero. Il pensiero occidentale tratta l’essere come presenza.
Ma verso dove rinvia il nostro pensiero ciò che chiamiamo presenza? (8). L’essere presente suppone una disvelatezza. Vige nell’essere concepito come presente una disvelatezza fondamentale, che tuttavia il pensiero occidentale non concepisce. Esso assume come naturale l’equivalenza di essere e presenza e il suo sforzo consiste nell’analisi tecnica di questa presenza, nella sua
comprensione e nel suo uso. Qui si arresta il saggio
“Che cosa significa pensare?”. Ma che
cosa significava costruire se non portare alla presenza la disvelatezza
fondamentale dell’abitare? Pensare
l’origine essenziale dell’essere e l’abitare sono connessi: pensare per
l’abitare. Ma questa origine essenziale
rimane nascosta per Heidegger: il pensiero non vi è pervenuto.
Non solo: la storia, il destino del pensiero occidentale vanno nella direzione
della tecnica, non del produrre, ma della produttività della scienza. Può in
questo destino riapparire un abitare, un costruire come pro-durre la disvelatezza dell’abitare? L’ascolto di
Heidegger smaschera tutti i falsi richiami – ma permane come ascolto. Né ad altro potrebbe condurre il
complesso del suo interrogare. Le “irreversibili” traduzioni che hanno segnato
la storia del pensare, hanno segnato altrettanto quella dell’abitare.
Ripetiamo: forma e qualità dell’edificio non sono qui minimamente in questione.
In realtà, è soltanto di esse che possiamo parlare. Ma forma e qualità non
riguardano per nulla il Fragwurdiges dell’architettura: costruire è abitare,
abitare è costruire. Poichè ciò oggi non è dato non solo realizzare, ma neppure udire effettivamente, non resta che
il permanere nel silenzio dell’ascolto o il costruire alloggi o
costruzioni.
Heidegger non richiede la costruzione di dimore – non critica, alla Spengler,
l’assenza di dimora. Distrugge invece il fingere dimore dove sono soltanto
alloggi e costruzioni – l’incredibile confusione linguistica tra alloggio e
nostalgia di dimora che costituisce la
forma specifica dell’ideologia architettonica (9). Come potrebbe Heidegger
richiedere la costruzione di dimore da parte di chi non è più abitante? Ed egli sa che questa è una condizione
essenziale, il destino, dell’uomo contemporaneo.
Ma, certo, Heidegger rimane nell’ascolto, spera il richiamo. L’essenza dell’abitare consiste nel “rimanere”, nel “trattenersi” non in un luogo qualsiasi, ma in un luogo che da pace. Abitare è essere-in-pace. Il costruire-abitare prende cura del nostro essere-in-pace. Ciò non significa un proteggere passivo, ma un fare apparire il quadrato, dove i mortali abitano. Qui, non in rifugi, non in luoghi nascosti, ma qui, nella disvelatezza stessa, consiste l’essere a casa.
Pastori, dice
Heidegger, abitano questa disvelatezza,
“fuori del deserto della terra devastata”(10).
Essi custodiscono “la legge nascosta della terra” contro la violenza
della volontà- tecnica che la trascina
all’esaustione, perchè la obbliga oltre le sue possibilità. Ma
questi pastori sono invisibili, e la legge che custodiscono, nella quale la
terra rimane al sicuro all’interno del
suo possibile, è anche invisibile. La nostalgia si toglie nel momento stesso in
cui si accenna. Non vi è soggetto per la
dimora, per il suo rapporto essenziale con la terra. Soggetto si dà soltanto nel rapporto con la
volontà, e con la volontà di potere
sulla terra. Allorchè
definisce l’abitare, Heidegger descrive le condizioni di possibilità di un
vivere oggi impossibile. Essere – a – casa
è essere invisibili custodi di invisibili leggi (11). Certo, più duro, più nuchternes è il pensiero niciano di
fronte alla “grande città” (12) poichè
esso non è più neppure nell’ascolto.
Esso inizia dove il silenzio stesso dell’ascolto si interrompe e
comincia l’analisi dell’Heimatlosigkeit.
Cosa significa non-essere-a-casa, non essere “abitante”?
Noi, i Soggetti, coloro che rendono
mathèmata la natura, coloro che violentano la terra oltre il suo
possibile, siamo i non-abitanti.
Per noi, i Soggetti, vale la
sradicatezza essenziale della tecnica, della volontà di potere. All’opposto di quel che si crede e si dice
volgarmente, il Soggetto non vive nella dimora,
né anela alla dimora, ma può esistere soltanto nell’assenza di
casa, nella sradicatezza: qui soltanto egli può, egli è
produttivo. Il linguaggio, le
funzioni e convenzioni, attraverso le quali il Soggetto esprime la sua volontà
di potere, sono l’unico tema del pensiero nietzschiano. Spengler, non Heidegger, è la scimmia di
Zarathustra, che lo vorrebbe cacciare indietro di fronte alla “grande
città”.
Eppure, Heidegger rimane in attesa dell’Evento, dell’Ereignis, che scorga i
mortali e li porti sulla via del costruire-abitare. Non solo: anche se egli non
può vedere dimore costruite (e si proibisce immagini di speranza a
proposito), pure a volte ne indica le
tracce. La dimora ha lasciato traccia
nella parola della poesia. Nella poesia, nella poesia di quest’epoca di
miseria, la dimora si è ritirata. Essa non è, è invisibile – eppure, la poesia
è la parola – parola del ritiro della dimora, del Quadrato (13). La poesia
custodisce (nel non-essere della sua parola) quell’elemento tettonico dell’architettura cui l’edificio, in quanto
partecipe della devastazione della terra, può soltanto alludere
tragicomicamente.
Questo
caratteristico rovesciamento del disincanto heideggeriano – o meglio, questa
oscillante dialettica tra Andenken come teoria tragica e Andenken come pro-posizione nostalgica, che
abbiamo altrove analizzato (14) – cerca fondamento, a proposito del
rapporto costruire-abitare-pensare, nell’analisi della tarda poesia
holderliniana In lieblicher Blaue. Il centro della poesia è costituito per
Heidegger dall’affermazione: dichterisch
wohnet der Mensch – poeticamente
abita l’uomo. L’abitare è dunque
fondato sulla poesia. Il costruire che
l’abitare permette è poetico: costruire è poetare, il suo fare è poiesis.
L’essenza del poetare è un prendere-misurare, “nel senso rigoroso
del termine, nel quale anzitutto l’uomo
riceve la misura per l’estensione ( Weite) della sua essenza” (15).
Questa misura è Dio non in quanto conosciuto in sé, ma in quanto manifesto nel
cielo. La divinità è assente in quanto tale, ma proprio come nascosta è
manifesta mediante il cielo. Il
cielo manifesta la divinità in quanto sconosciuta: e questo rapporto misura l’essenza dell’uomo –
è la misura della poiesis. In questa misura abita l’uomo – in essa egli è “abitante”.
“Il poetare edifica l’essenza dell’abitare” (16). Solo se l’uomo costruisce nel senso del poetare misurante, egli abita. Se abita,
l’uomo abita poeticamente.
Abitiamo poeticamente oggi? Heidegger avvisa subito che Holderlin non
parla delle condizioni effettive dell’abitare odierno. Aggiunge, anzi, che la misura del poetare ci
è oggi del tutto estranea e che l’intuizione del poetico ci permette di esperire il fatto che abitiamo oggi in modo
del tutto impoetico: undichterisch wohnet
der Mensch. Ma il rivesciamento di tale condizione è qui esplicitamente
sperato. L’attenzione rivolta al poetico permette di sperare. I versi di
Holderlin sono commentati con questa intenzione. A me pare, però, che essa vi manchi
completamente. Si descrive, all’inizio
la disvelatezza di un luogo: la torre
della chiesa “fiorisce in amabile azzurro”;
“come porte alla bellezza” sono
le finestre da cui suonano le campane. Semplici e sacre, einfaltig e heilig,
sono le immagini (Bilder) “ che davvero spesso temi di descriverle”. Questo è il luogo dell’abitare – è il
Quadrato. Ma con esso l’uomo può misurarsi
“so lange die Freudlichkeit noch am Herzen, die Reine, dauert”.
Freundlicheit, come Heidegger chiarisce, è la traduzione di Kàris: una condizione di mutua
appartenenza tra uomo e paesaggio, uomo e dimora. Ma la misura di cui Heidegger
parla è possibile qui soltanto. Sulla
terra che ha spezzato il ponte con gli altri elementi del Geviert, su questa
terra non più “sotto il
cielo”, nessuna misura è concepibile. “Giebt es auf Erden ein Mass? Es giebt keines”. Il wohnend Leben, il vivere-abitando, dell’uomo in die Ferne geht, va nella lontananza. Non richiama, ma distacca – non è richiamabile, è concepibile come forma soltanto, che misura la differenza.
2.
Undichterisch wohnet der Menssch… Le molteplici forme di questo undichterisch wohnen costituiscono l’oggetto della “storia” di Tafuri e Dal Co. Il dichterisch wohnen non vi è mai direttamente nominato: ma esso è la “forma assente” che rende possibile la critica dell’ideologia della dimora, delle indecenti pretese che l’architettura avanza (che sono l’architettura) sulla conciliazione di uomo e paesaggio, uomo e città.
Stranamente, accanto al nome di Heidegger, e in questo
contesto, Tafuri e Dal Co non fanno anche quello di Valéry (17). Eppure, nei
suoi saggi sull’architettura, Heidegger riprende i temi fondamentali
dell’Eupalinos, il cui motto, appunto, suona: pros kàrin.
Fedro narra a Socrate di Eupalinos di Megara e del suo lavoro di architetto.
Attraverso null’altro che “ordini e
numeri”, misurando, egli costruiva
dimore. Nulla era “particolare” nella
sua esecuzione (18) – tutto valeva essenzialmente. Costruire, per Eupalinos, è
conoscersi – poichè costruire è abitare, e abitare è essere,
essere-in-pace, essere-a-casa. Costruire
è conoscersi come abitante. E le dimore muovono l’abitante come oggetti amati.
Eupalinos esprime il significato tettonico originario dell’architettura. Costruire è poiesis. Esistono edifici muti, costruzioni e alloggi – esistono
edifici che parlano – ma ne esistono altri ancora, e sono i più rari, che
cantano. Gli edifici che parlano devono
limitarsi a parlare chiaro: “qui i gudici deliberano. Qui gemono i
carcerati”. Nelle dimore della giustizia
tutto deve esprimere sentenze e parlare di pene. “ La pietra è la pronunzia
grave di quel che essa rinchiude. Il
muro è implacabile; e quell’opera così conforme alla verità, dichiara con forza
la propria severa funzione…” (19). Di severe funzioni parlano mercati, tribunali, carceri, teatri –
e null’altro possono, se non “tatuandosi”.
L’architetto deve
dominare queste funzioni, ma riconoscere, ad un tempo, che esse non esprimono l’essenza
dell’abitare, non esauriscono affatto l’essenza del costruire poetante. Una
spietata differenza intercorre tra esse e il capolavoro che sembra “cantare per
se stesso”. Gli edifici che cantano sono la dimora. Soltanto qui l’uomo è abitante.
Essi sono i monumenti che
misurano l’essenza dell’uomo: “essere
nell’opera di un uomo come pesce nell’onda; e per intero esserne intriso e in essa
vivere, appartenerle” (20). Questo monumento soltanto può avere solidità e
durata (21), poichè esprime questo appartenersi reciproco, originario, di
costruire e abitare. Lo stesso limite che Loos impone all’architettura dell’edificio,
alla tecnica dell’alloggio – la stessa
affermazione loosiana della spettrale possibilità di consonantia tra
musica e architettura del monumento: la stessa forma loosiana,
holderlinianamente “vuota”, dell’architettura come poiesis (22).
E’ di queste “dialettiche loosiane” che vive anche il dialogo di Valéry.
Quali sono, infatti, questi monumenti che cantano? dov’è la città come armonia? Pare, nel dialogo, che l’elemento tettonico dell’architettura si ponga effettualmente, in contrasto con l’elemento dialettico: “non fu utile, io temo, cercare quel Dio che per tutta la vita ho cercato di scoprire, perseguendolo unicamente attraverso il pensiero (…) il Dio che così si trova altro non è se
non parola nata dalla parola; e alla parola ritorna” (23).
Il pensiero si è scisso dal costruire – o ha reso il costruire mera tecnica. E’
invece il costruire – nella accezione heideggeriana più propria – che appare a
Socrate “l’atto fra tutti il più completo”;
“questo grande atto del costruire”
considera incompiuta l’opera del Demiurgo che “organizzava
l’ineguaglianza”, che “nel suo furore di tutto disgregare” ha formato e
disgiunto gli elementi. “ora è il tempo del reciproco” (24): del Geviert, della
dimora “sulla terra e sotto il cielo”,
della Musa conciliatrice.
E’ un richiamo, oltre l’ascolto? è un possibile reale? Loos credeva che
soltanto nei monumenti sepolcrali
l’architettura potesse farsi poiesis.
Socrate innalza nella parola la sua architettura, dopo che il suo tempo è irreversibilmente
consumato. Egli è un architetto morto.
Non solo nella parola soltanto concepisce la forma del costruire – la
sua è parola di un morto. E’ silenzio. Socrate e Fedro si sono incontrati sulle
rive di Illisso, nel trasparente regno delle ombre, in un qui che
non esiste – e tutto quanto han detto “oltre che un naturale scherzo del
silenzio di questi inferni, è la
stramberia di un qualche retore dell’altro mondo che ci ha scambiati per
burattini” (25).
Undichterisch wohnet der Mensch… La dimora è un passato, non è (26). L’unità di abitare e costruire, che forma la dimora, è divenuto un niente. La nullificazione della dimora è elemento fondamentale della persuasione propria della metafisica occidentale, che l’ente è niente. La sparazione di alloggio da dimora, per cui l’alloggio è solo nel tempo, non è un’allegoria letteraria della separazione fondamentale di ente ed essere, della separazione attraverso la quale il Soggetto della metafisica si impadronisce dell’ente, ma è questa separazione stessa. La dimora va posta come nulla, o va fatta rimanere soltanto come rudere, ricordo, per dimostrare ancora più nettamente la nullità, l’avvenuta nullificazione. In base ad essa, il Soggetto è “libero”, può andare liberamente, condurre avanti la sua opera e il suo destino di separazione degli enti dal loro essere, di riduzione di ogni ente al tempo – al tempo del proprio andare. Il Soggetto alloggia il tempo – non abita dimore. La differenza tra abitare, costruire e poetare non è reversibile né conciliabile. Questa differenza ha un significato essenziale per la comprensione del fondamentale nihilismo della metafisica-tecnica occidentale. In questa “storia” l’architettura ha perciò un grande rilievo. Essa rappresenta una delle forze decisive che staccano l’ente dalla sua connessione all’essere, che abbattono lo sguardo parmenideo dove ogni ente è eterno e originariamente unito all’essere. Può valere come una di queste forze – come può valere il silenzio, la silenziosa custodia della vuota forma della dimora. Ciò che la condanna alla più spregevole miseria è adornare i nostri deserti di forme tradizionali e arcaici ruderi, è travestire di natura l’artificio e di eternità l’ente, e tatuare poeticamente le funzioni della tecnica e sublimare le dure convenzioni delle diverse politiche che la compongono.
3.
Undichterisch wohnet der Mensch… In nessun modo ciò va inteso in senso morale o “letterario”: si tratta del risultato effettuale dell’analisi intorno alla forma, o alle condizioni a priori di possibilità, del “dichterisch wohnen”. Tale risultato va mantenuto “puro” da ogni forma di nostalgia o di utopico superamento. Qui interessano unicamente le condizioni e la fenomenologia del undichterisch wohnen. Tale è il tema – e il metodo con cui viene
affrontato – nella “storia” di Tafuri e Dal Co.
Questa “storia”
descrive un risultato: il risultato è l’undicherisch wohnen. Ma come si manifesta concretamente questo
non-abitare? Il non-abitare è il
carattere essenziale della vita metropolitana (27). Parlando dell’abitare poetico, né
Heidegger, né Valéry parlano della metropoli: ed è qui invece che
l’abitare va a fondo.
La “storia” dell’architettura contemporanea è perciò una fenomenologia del non-abitare
metropolitano. O tale dovrebbe essere: poichè, invece, l’architettura contemporanea
tende a riorganizzarsi come possibilità di abitare nella metropoli,
nonostante la metropoli. (28).
La predicazione di tale possibilità sta alla base della “urbanistica” come
disciplina nell’ambito della architettura contemporanea. Epperò,
il riconoscimento di questo
diverso terreno implica l’analisi
strutturale delle funzioni
metropolitane. L’ “urbanistica”
avverte, per sua stessa origine e
natura, il mutamento di prospettiva: l’impotenza
dell’abitare “classico” – ma affronta i
molteplici linguaggi delle funzioni metropolitane
(la conseguente distruzione della possibilità stessa dell’abitare) come
linguaggi intrinsecamente “sublimabili” in una logica, nella logica che essa rappresenterebbe o incarnerebbe. Se l’abitare “classico” viene ormai
riconosciuto come impossibile, possibile permane l’idea della città come
organismo: Pianta che si sviluppa dalla
radice del Logos
architettonico-urbanistico.
L’idea di tale Pianta rappresenta il
Sollen dell’organizzazione metropolitana.
Potremmo dire: l’
“urbanistica” si origina dalla pretesa di rappresentare come organismo
l’undichterisch wohnen contemporaneo. Ma
che cosa costituisce il contenuto di tale “impoeticamente abitare” se non la molteplicità e il divenire “senza
dimora”, heimatlos, delle diverse
discipline che compongono la metropoli?
Dunque, allorchè l’ “urbanistica”
avanza la pretesa di una “organizzazione organica” dello “impoeticamente abitare” afferma di potere ridurre ad unità la molteplicità
di questi linguaggi e di queste
funzioni, afferma di poterne rappresentare una sorta di Logica. Ma né l’ “urbanistica” può fondare quella pretesa,
poichè è anch’essa un linguaggio tra gli altri – né può dimostrare la sua Logica come effettuale,
ed è perciò costretta a trasformarla in Sollen,
in imperativo etico, in etica paradossale – oppure ad affermarla come
pura forma, null-altro-che-forma, gioco della ragione nel comporre, scomporre e
ricomporre i segni della metropoli. Logica,
etica gioco si rincorrono in tale modo
nelle formulazioni dell’urbanistica contemporanea, come varianti, più o meno disincantate, di
una fondamentale “miseria”: l’idea della
“armonizzazione” delle funzioni
metropolitane, di una loro
“patria comune” – e del loro reale conflitto come mera apparenza che
nasconde e mistifica una Gemeinschaft “profonda”, “sostanziale”.
Questa “patria” pretende di annuncuare
l’ “urbanistica” – ed è questo “annuncio” che da fondamento alle sue
diverse proposte “compositive”. Che cosa infatti vuol “ricomporre” la
composizione – di che cosa è composizione la composizione se non della
“sostanziale” comunità dell’abitare?
Questo linguaggio dell’ “urbanistica” è altrettanto logicamente infondato, quanto storicamente cieco. L’ “urbanistica” contemporanea, sulla base della sua “logica”, non vede: o meglio, vede “il vampiro della speculazone” laddove si sviluppa la metropoli industriale-capitalistica, vede disgregazione sociale e politica laddove la molteplicità funzionale delle “discipline” metropoltane “libera” finalmente tutte le sue valenze conflittuali, vede solitudini dell’individuo e nostalgie per il “dichterisch wohen laddove si trasformano composizioni di classe e sorgono le diverse organizzazioni politiche della Gesellschaft. Tra questo “vedere” e la metropoli si genera una tensione irrisolvibile – una contraddizione insanabile, sul piano storico effettuale. Questo discorso non muta allorchè la “urbanistica” “cede” alla metropoli, poichè anche questo non è vedere, non è rendere visibile: la metropoli è assunta come quadro naturale ed evidente dell’intervento progettuale-compositivo – le sue combinazioni come leggi – le sue convenzioni come giochi immodificabili. E questa posizione finisce con l’intrecciarsi profondamente con il falso disincanto dell’urbanistica-gioco.
Certo, i valori “compositivo-etici” sono predominanti nelle origini dell’ “urbanistica” contemporanea. “La spersonalizzizone, l’alienazione, la disgregazione nella grande metropoli sembrano superabili mediante l’articolato e organizzato riemergere di nuclei in cui “qualità” e “comunità” siano di nuovo protagonisti”: Parker, Unwin e Howard si muovono in questa prospettiva”(29). Ma ben presto il “modello” tende a trasformarsi da “etico-compositivo” – per usare i termini precedenti: l’ “urbanistica” tende ad affermarsi cme possibile logica dell’organizzazione metropolitana. Questa “svolta” assume diverse configurazioni, senza che però mai venga meno l’idea dell’ “urbanistica” come riequilibrio: razionalizzazione della crescita urbana, riequilibrio territoriale dei fattori produttivi, “armonizzazione” città-campagna – l’idea dell’ “urbanistica” come “di un processo di integrazione apolitica delle contraddizioni storiche, recuperate in un ottimistico evoluzionismo tecnologico” (30). Così l’opera di Olmsted “coinvolge pesantemente il problema delle riforme politiche e istituzionali (… ) il controllo sullo sfruttamento delle risorse a livello territoriale (…) il consumarsi dei vecchi metodi di gestione urbana, evidenziato dal fallimento di Pullman Town”, ed è insieme lotta contro la disgregazione della comunità, utopica alleanza di scienza, tecnica e natura – natura che ridiviene “formidabile fonte di rendita urbana” (31). Così, nella “City Beautiful” si “armonizza” l’ideologia e il linguaggio Beaux-Arts con la riaffermazione della “assoluta priorità dei meccanismi liberistici” (32).
Anche il preteso “realismo” dell’urbanistica tedesca, che “tende a ricostruire una condizione di naturalità per i meccanismi della rendita” attraverso “la eliminazione di ogni artificiosa “distorsione” del mercato fondiario provocato dal monopolio dei “suoli fabbricabili” si accompagna ad una “implicita nostalgia per la “città” pre-metropolitana” (33). La visione liberistica pura rimane ideologia di equilibrio. Non solo: ma all’interno della metropoli, resa “organismo equilibrato”, andrà anche rivendicato il ruolo della forma architettonica come “evento e creazione”, senza il quale mai l’individuo può sentirsi “appaesato”.
I giochi della
ragione, o i poemi della forma (34), dei Maestri – che restano in attesa di
nuovi Colbert disposti a realizzare le loro utopie, politiche nel senso
“classico” del termine o collettivistico-filantropiche, comunque:
antimetropolitane – sono perciò profondamente radicati nella ideologia dell’
“urbanistica” contemporanea (35). Né il
“disincanto” di Grosssstadtarchitektur di Hilberseimer è critica effettuale del
formalismo etico dei Maestri: l’immagine della città-macchina a funzioni
integrate, della città “nuda struttura”, è analoga all’ingenuo
macchinismo, all’ossessione macchinista,
che informa tutta la critica alla metropoli dell’ “urbanistica” conciliatrice
tradizionale. Hilberseimer non vede “alternative” a questa stessa immagine della
metropoli. Il rifiuto dell’utopia
finisce così col riconfermare le ragioni della tensione utopica. E l’idea della
“città alternativa”, dell’ “isola
comunitaria” celebra la sua estrema, e forse più alta stagione, negli Hofe
viennesi: individui orgogliosamente
contrapposti alla realtà metropolitana,
eroi schilleriani a me pare, più ancoca che, come spiegano Tafuri e Dal Co in pagine molto belle, protagonisti del grande romanzo borghese: “ i
miti alto-borghesi informano la più
compiuta “montagna incantata” dell’austromarxismo” (36). L’ “urbanistica” come logica e gioco – in un
intreccio non criticato, attraverso
linguaggi non chiariti, intrinsecamente equivoci riguardo ai loro stessi limiti
– domina la scena successiva al tramonto della sintesi tra forma e contenuto
etico, successiva al tramonto della forma
come espressione della critica etica della metropoli capitalista.
Le utopie dell’ “urbanistica” del secondo dopoguerra sono logica e gioco
soltanto. Ma anche ciò avviene in
termini intrinsecamente contraddittori.
Tali utopie si presentano, infatti, come immagini totalizzanti: non più
Hofe, non più Siedlungen, non più determinate funzioni della metropoli, per quanto
enfatizzate eticamente, costituiscono il loro contenuto, ma la totalità delle funzioni. La consapevolezza del carattere utopico di
questo “disegno” non ne trasforma la infondatezza: gioco esiste soltanto al singolare. Giocare la totalità dei giochi – o
rappresentarli in un gioco – è
intrinsecamente non-senso. Perciò
“l’immagine totalizzante è di nuovo ridotta ad esornativo arricchimento del
caos metropolitano che essa intendeva dominare” (37).
Questa immagine totalizzante è, in realtà, “aura” metropolitana. Lungi dall’essere l’ironico gioco che spesso pretende di rappresentare, questa immagine, che ha superato (e nella misura in cui ha superato) la denuncia etica della metropoli, ne enfatizza “pubblicitariamente” le funzioni, trasponendole in una dimensione auratico-sacrale. “Aura” metropolitana avvolge i grattacieli-monumenti di New York, Chicago, Boston, “sicuri che il fascino per l’eccezionale che aveva abbagliato magnati della Chicago 1890 funzioni ancora” (38). Ma nell’ “aura” di una utopia tecnologica ingenuamente omnicomprensiva – semplicemente apologetica di una metropoli assunta come inarrestabile “natura creatrice” – fiorivano anche i monumenti del “brutismo” e del “neo-espressionismo” degli anni ‘50 e ‘60 (39). Sulla presenza del monumento occorre riflettere: sia nelle sue versioni “tecnologiche” appena indicate, che nelle sue declinazioni di “memoria” (costante segnale della nostalgia dell’abitare, costante lotta per esorcizzare la “perdita del centro” come in Kahn), il suo rifiuto dell’ “oggetto trascurabile” dell’architettura contemporanea “senza qualità” (40) è lotta perchè l’avvenuta desacralizzazione dello tempo non si allarghi finalmente a desacralizzazione dello spazio. Il significato di questa estrema vicenda dell’ “urbanistica” non potrebbe essere narrato che nei termini di Focault (41). Siamo nell’epoca, dice Focault, in cui il mondo si avverte come un reticolato che unisce simultaneamente punti giustapposti e dispersi. Questo spazio spaesa i “pii discendenti del tempo”, per i quali il mondo era come una grande via che si sviluppava attraverso diverse età, diversi “significati”. Né questo spazio somiglia a quello gerarchizzato della città medioevale, dove la giustapposizione dei luoghi rimandava al “valore” delle loro diverse funzioni. Lo spazio attuale della metropoli è caratterizzato dai flussi di informazione non gerarchizzati che connettono discipline e funzioni: flussi discreti, aleatori, i cui movimenti non sono teleologicamente comprensibili, ma soltanto stocasticamente analizzabili.
Ma questa desacralizzazione dello spazio – che è nell’essenza della vita metropolitana – è lungi dall’esser compiuta. Non perchè fioriscano ancora gli edifici “che cantano” di Eupalinos. Non perchè si dia ancora possibilità di abitare. Ma perchè in questo spazio, la cui funzione è ormai perfettamente desacralizzata, trovano luogo ancora edifici reali, eppure come fuori da ogni luogo, effettivi e ab-soluti insieme: eterotopie. Focault parla di queste eterotopie come di “costanti” dell’organizzazione pratica dello spazio. Ma esse divengono interessanti soltanto quando contraddicono l’essenza puramente seriale dell’organizzazione metropolitana, quando esse pretendono di opporsi come nuovi “luoghi di culto” “simboli resistenti alla storia” (42). Come di un nuvo Patheon Wright parlava del suo Guggenheim Museum (43). Eterotopie sono i luoghi dove si “separano” gli individui “devianti” – eterotopie sono i luoghi dei “comportamenti eccezionali”; contro i quali dovrebbe frangersi lo spazio metropolitano. Ma l’eterotopia è spesso inserita all’interno delle funzioni “normali”, delle informazioni “normali” della metropoli: così avviene all’interno “suotato e trasparente” della Ford Foundation, “trattato come una gigantesca serra” (44).
L’eterotopia diviene interessante allorchè svolge nei confronti dello spazio che la circonda una funzione di comprensione e consolazione. Essa vuole apparire come denuncia della desacralizzazione dello spazio circostante, “salvezza” dei valori gerarchici e culturali del “tempo” della città. La Buona Forma cui l’eterotopia tende, dovrebbe accusare il disordine, la cattiva gestione, la perdita di centro della metropoli. Il monumento, “la colonia” perfettamente organizzata, il giardino, non sono disegni utopici, ma luoghi reali, altri, però, rispetto alle informazioni della metropoli. Non c’è problema di organizzazione logica della metropoli, né di gioco della ragione nella combinazione dei suoi segni, né di superamento utopico della alienazione che vi domina – ma v’è spazio, però, per la costruzione di monumenti, anzi: per definire come monumenti, luoghi di culto per inesistenti “popoli”, funzioni e linguaggi della metropoli stessa. L’intrinseca falsità dell’eterotopia non giunge fino a considerarsi nuova dimora – anche se certe memorie, certi “tempi ritrovati” dell’architettura contemporanea, sfiorano tale nostalgia. Ma l’eterotopia è pur sempre Dimora: non per l’individuo, non per l’abitante – ma per i valori della comunità degli individui. Essi permangono viandanti, ma tornano in possesso di luoghi cui tornare, di terre promesse, di chiese in cui consolare la diaspora dei linguaggi e delle discipline. Ma nella “continuità ideologica” dell’ “urbanistica” contemporanea – o dell’architettura che nella metropoli recupera il problema dell’abitare – non trova spazio Mies van de Rohe. L’ultima parola del libro di Tafuri e Dal Co è attorno a Mies – ed è con Mies che “risolviamo” la problematica impostata all’inizio attraverso Heidegger. Cominciamo dal testo del ‘23, Costruire : “vogliamo che costruire significhi veramente e solo costruire”. Dunque, non: abitare. E infatti, nel progetto della casa in mattoni del 23, “la frammentazione delle componenti spaziali è totale: la continuità dei volumi rispetto alla pianta è solo apparente, dato che la disposizione dei setti non crea un percorso, non allude a un ordine: essi sono sì segnati, ma indicano che il labirinto non ha uscite” (45) – e nel padiglione tedesco del 29 a Barcellona: l’edificio è un montaggio di parti, ciascuna delle quali parla una lingua diversa, specifica dei materali usati” (46). Costruire soltanto – montare linguaggi diversi – attendere ai particolari , senza attendersi le “grandi sintesi” della Forma classica, senza pretendere che questo mestiere soddisfi la nostalgia della Dimora. Anche questa nostalgia ha un suo linguaggio, intraducibile in quello delle tecniche dell’architettura. Il segno deve rimanere segno, parlare soltanto della sua rinuncia ad essere valore – e soltanto per mezzo di questa rinuncia esso potrà riconoscere le proprie funzioni e il proprio destino: soltanto il linguaggio illuminato sui propri limiti potrà operare (47). L’uso del vetro manifesta l’antidialettica di Mies. Il vetro è la concreta negazione dell’abitare. Non solo perchè in esso affoga la forma architettonica, ma perchè esso, in quanto tale, rende visibili coloro che vi cercano riparo. Dal progetto per un grattacielo in vetro a Berlino del 1920-21, straordinaria negazione della trascendenza espressionistica, alla Scheerbart, fino al Seagram Building di New York è rintracciabile questa costante ricerca miesiana: suprema indifferenza per l’abitare, segni neutri, “al massimo di strutturalità formale corrisponde la massima assenza di immagini” (48). Il linguaggio dell’assenza testimonia qui dell’assenza dell’abitare – della consumata separazione, che nessuna eterotopia potrà risanare, tra costruire e abitare. I “grandi vetri” sono il nulla, il silenzio dell’abitare (49). Negano l’abitare nel momento stesso in cui riflettono la metropoli. E’ solo il riflesso è lecito a queste forme.