(pubblicato per la prima volta in “Gli Anni”, Firenze, Parenti, 1943, edizione di 175 copie numerate; successivamente il Le Meraviglie d’Italia Gli Anni, Einaudi, 1964)

Ricordo che gli uomini camminavano. Prima della bicicletta e motocicletta, e dell’auto dove ci allunghiamo con piacere, se pure con una certa difficoltà: prima dell’aereo, da cui sono state prese queste immagini della campagna e dei tetti di Lombardia.
Camminavano le strade non sempre dritte, ma savie a condurre e discrete ad arrivare il termine: ch’era, dopo mercato e viaggio, il cortile della cascina: popolato dai natali dei suini e degli uomini. Le strade pervenivano al raduno degli uomini, alla chiesa del borgo senza radio, celato fino all’ultimo dalle alberature del piano. Nella chiesa tutti i lavoratori della terra incontravano l’invisibile Dio.
Il contadino dalle scarpe grevi e chiodate percorreva gravemente la strada campestre: taciturno, con un cerchietto d’oro nel lobo dell’orecchio, a sinistra: con la giacca a spalla, e il figlioletto che gli trotterellava tra i piedi. Tra due siepi di spino o due file di salci o d’alti pioppi, quando il fosso adacquatore lunghegiasse, col suo docile filo, il consueto andare della polvere. La chiarità dell’estate s’infarinava di bianche miglia, in cima alle quali erano le cose necessarie e solenni, la compera, la vendita, la pluralità degli esseri addobbata de’ suoi scuri panni, la silente preghiera, la Messa cantata: da tutti. O, dopo lungo pensiero, il disco del sole si tufava negli ori e nei carmini, dietro scheltri d’alberi, come in una pozzanghera di liquefatto metallo. Ma la cimasa delle pioppaie veniva celandone l’estrema dipartita: solo, qualche frustolo d’oro, o una goccia, di quel fuoco lontano, durava a persistere nell’intrico nero delle ramaglie.
D’estate invece, il popolo dei pioppi, unanime, trascolorava nella sera: le raganelle, dai fossi, dalle risaie, sgranavano dentro il silenzio il dolce monile della sera: con un cauto la rana, per più lenti intervalli, salutava lo zaffiro della stella Espero, tacitamente splendida.. S’era affacciata alla ringhiera dei pioppi.
Questo, di certo, anche oggi.
La pianura lavorata persiste, nelle parvenze della natura e delle opere, ad essere la madre cara e necessaria, la base di nostra vita. Dai secoli, ormai remoti al pensiero, quando i Benedettini e poi i Cistercensi di Chiaravalle ebbero ad imprendere le prime livellazioni del terreno, i primi escavi dei canali adacquatori che captavano le polle di risorgiva della cosiddetta “zona dei fontanili” per distribuirne la portata ne’ prativi ad irriguo, ad aumentare il numero e la copia delle fienature: su su fino alle opere maggiori del comune e della “munificenza” viscontea, e ai consorzii e comprensori irrigui della età più recente e addirittura della nostra; quale assiduità paziente, che amorosa tenacia! e una vigile disciplina. La derivazione del Naviglio Grande dal Ticino, il Naviglio di Pavia: poi la Martesana, il Villoresi.
Il tipo della nostra terra è schiettamente rappresentato in queste vedute colte dall’aereo: della terra esse dicono la bontà verso gli uomini, la forma silente, opere allineate per il pane.
La cascina lombarda è il primo nucleo giurisdizionale imposto alla terra lombarda da una “necessità” intrinseca alla gente: il lavoro. Una cascina si distanzia dall’altra in ragionevole misura, quanto comporta cioè la facoltà del lavoro: quanto può adempiere di lavoro una famiglia di contadini, o un un gruppo di più famiglie raccolte nell’unità aziendale del podere. E ogni volta che scorgiamo il fumo e poi i bruni coppi e il tetto remoto d’una cascina, ecco, un sogno è suscitato nell’anima: un’idea di vigore, di saggezza operosa, tenacemente fedele alle opere necessarie. Questa dimora della vita prima e povera, della silente fatica, sorge improvvisa dopo i salici, i pioppi, nella sua ragione e nella sua pace, dal verde tenero della pianura lavorata. Ecco il quadrato che ricorda (e sembra strutturalmente ne derivi) il “praetorium” dell’antico”castrum” romano, dell’accampamento militare che tenne, dopo Annibale, la Gallia insubrica divenuta romana. Su di un lato, o talora su due, le abitazioni dei coloni, quasi sempre a due piani, terreno e primo, raramente e magari soffittate di un terzo. Nel qual caso il sottotetto è adibito a fienile, a granaio: e il tetto comporta, alcune volte, dei capaci abbaini, che si affacciano addirittura in corte, sopravanzando coi loro spioventi la linea della grondaia: la grondaia stessa, in corrispondenza, subisce un’interruzione: cosicché una carrucola agganciata in colmo, sulla bocca vorace dell’abbaino, permette di issare balle di fieno o di paglia, o sacchi, o tronchi, e di stipare la colta in quel granaio altrimenti inaccessibile. Su rimanenti lati del quadrato, o rettangolo, vi vedi le stalle, i fienili veri e propri: fatti d’una pilastrata a portico, questi, verso l’interno: e areati verso il di fuori a mezzo di certe pareti tutte forate, di mattoni rossi collocati a disegno, che fanno un’altra nota rossa, e tipica, fra le tipiche della “cassina”. Nell’area mediana ci è ricavata l’aia, in battuto, l’abbeveratoio per il bestiame: e qualche volta ci noti il pozzo. Talora le concimaie nella corte, quand’è estesa: a fumar nell’inverno; il più spesso di fuori, verso i campi. L’accesso al gran cortile è dato da un portone, e da un andito acciottolato, ove si tratti di un vero cortile cioè di un quadrato tutto chiuso da edifici, per quanto vasto. Altrove è uno stradello, un vicolo, e magari un passaggio sulla campagna, dove la corte risulti essere piuttosto una piazza, sulla quale si affacciano le diverse fabbriche della masseria. Ivi la chiocciola ràzzola nella sua avvedutezza, madre amorosamente contornata di pigolanti batuffoli, e spesso vi grufola il porcello , pieno d’una dignità malinconica; col suo codino a cavaturacciolo, col grifo a lutto.
La “cassina”, qualche volta, è circonfluita d’acque, d’un fossato: e allora un ponte a volto, in mattone, antistà il portale, o l’andito dell’ingresso. L’acqua dell’irrigazione fa ancora un giro tutt’attorno i muri del rusticano castello, dopo tanto aver adacquato le marcite. Concede sé stessa a quella provvidenza e bontà ulteriore ed estrema, dopo l’altre, come a proteggere la pace e il riposo degli uomini dopo aver moltiplicato i ricolti. Le grate delle finestre a terreno – e rade, queste, nel muro un po’ umido – dicono la munizione e la sicurezza. Dentro vi si immagina la famiglia, dopo il giorno e il sudore; e cucchiaiate lente, necessarie, confortatrici.
Nella campagna una ragione profonda, antica. L’ordine geometrico e la dirittura delle opere, il popolo stupefatto dei pioppi, la specchiante adacquatura delle risaie.