E’ opinione comune tra le classi colte che chiunque abbia il diritto di portare nel mondo i problemi del suo apparato digerente, o del suo apparato riproduttivo. Lo è diventata nel secondo dopoguerra sull’onda di malintese liberazioni, e solo ora qualcuno avanza delle perplessità.
Così intere generazioni di giovani architetti pompati – dalla “generazione degli omogeneizzati” in poi è stato tutto un susseguirsi di pompaggi, ma in realtà già dagli studi sulla percezione della forma dell’inizio del secolo scorso – hanno pensato bene di imporre al mondo i loro gusti (quasi sempre pessimi), le loro idee (trovate a Parco Lambro prima e poi al Drive in), i loro interessi (banalità assurte a tradizione o imperativo etico), le loro idiosincrasie (frutto di malintese appartenenze ad elites di supposti salvati).
Il tutto con le ben note conseguenze.
In questa sarabanda – che dalla metà degli anni sessanta del 900 continua a riempire la scena, anche se adesso con molti meno frizzi e lazzi, si è passati dalla architettura senza progetto (nel nome della partecipazione e del dibattito) al progetto senza architettura, semplice messa in opera delle procedure necessarie, e sufficienti, a garantire il rispetto dei parametri di costo (non dei costi, quelli liberi di lievitare – ma solo dei parametri all’interno dei quali gli stessi trovano giustificazione in base all’ottimizzazione tra aspettative, prestazioni reali e conseguenti rendimenti al ribasso).
Il mito del progetto è il frutto nato marcio del mito dello sviluppo, dell’inganno (perfino autoindotto – sopratutto tra le classi colte) di voler prevedere quello che può accadere per fare in modo, con comportamenti solo apparentemente imprevedibilmente bizzarri, che poi succeda esattamente il contrario.
Esso si fonda da un lato – quello culturale – sull’illusione del geometra-architetto di poter vivisezionare la realtà (cioè la trama minuta e inconoscibile del reale), riducendola a schemi e linee che instaurano misure (distanze) e successioni (tempo addomesticato) inesistenti in vero ma utili- anzi necessarie, a menti oramai disfatte dalla banalità dell’immagine, per gestire operazioni vitali di base – ma solo quelle. (Peccato che la vivisezione trasformi l’atto del conoscere in un autopsia, aggravata dal fatto che l’oggetto della conoscenza – cioè la trama minuta e inconoscibile del reale – viene ucciso involontariamente, perché già averne coscienza lo renderebbe atto quanto meno dignitoso).
E dall’altro – quello pratico – sull’identificazione dell’unico imperativo etico nel rispetto tassativo dei parametri all’interno dei quali può oscillare il budget di spesa.
Partendo da questi presupposti derivano a cascata una pletora di tabelle e relazioni volte a dimostrare che “questo è il massimo che si può fare”, indipendentemente dai desideri ma compatibilmente con le necessità.
Quindi, una volta individuate misure, superfici e tipologie, si selezionano da banche dati oramai omnicomprensive gli schemi distributivi che più si avvicinano alle presunte richieste, con i relativi disegni allegati.
Forse per un sussulto di dignità o un sopraggiunto incontrollato pudore, in tempi recenti si è coniato il termine “servizi di progettazione” o “servizi di ingegneria” per descrivere tutta la sovrastruttura documentale applicata alla costruzione edilizia – considerata, finalmente fuori dall’ipocrisia, esclusivamente fatto produttivo – e comprendendo in detti “servizi” anche la progettazione architettonica.
Ma il progetto di architettura è quanto di più lontano si possa immaginare da un “servizio di ingegneria”.
Esso non è un atto di pre-visione, ma un atto di fondazione.
Non deve descrivere tutte le condizioni necessarie da porre in essere per realizzare un futuro, ma fondare un luogo dove il presente possa permanere e diventare memoria.
Dar modo al tempo di rapprendersi.
La bravura dell’architetto consiste nel sapere che ciò si ottiene progettando il meno possibile, (laddove meno è riferito alla massa costruita e non al metodo), o – per evitare fraintendimenti, ponendo in essere un processo di acquisizione di informazioni e di elaborazione di ipotesi che partendo da una base di dati inevitabilmente complessa giunga attraverso innumerabili prove ed errori alla definizione del punto poetico minimo sufficiente.
Il “risultato finale” semplicemente non ci sarà, perché ad un architetto non si chiede un risultato finale ma una base di partenza. Per questo un progetto di architettura è un non-progetto, cioè è lo svolgimento di un estensione di relazioni senza direzione data (rizoma) laddove invece il progetto è solo la linea retta che ci proietta verso il conseguimento di un obiettivo.
Perché non esistono fini, esistono solo i mezzi che si pongono in essere per raggiungerli.
Il fine è solo un pretesto per vivere il mezzo, cioè nel mezzo (la morte si sconta vivendo).