Massimo Cacciari
Interno e esperienza (Note su Loos, Roth e Wittgenstein)
pubblicato su “Nuova Corrente”, n. 79-80, 1979
La
“passeggiata” nel pensiero, che Lou Salomé si propone in Zum Typus Weib, inizia, com’è noto, con il ricordo dei
bottoni.
Essi rappresentano la “quintessenza” di ciò che “non viene dato via ma
raccolto”, dell’inalienabile, del non-equivalente. In questo senso, il bottone
è l’opposto della moneta: alla divisione, alla circolazione, allo scambio che
quest’ultima permette esso oppone il segreto e il nascosto. La moneta consiste
nel rapporto che avviene all’esterno, nel “pubblico”; il bottone è reliquia
materna irraggiungibile, custodita nella parte più interna di una montagna
vergine (l’associazione con la Jungfrau che Lou compie). La moneta si raccoglie
come equi-valente, per essere spesa; il bottone come unicum, per essere
conservato, tesoro non monetizzabile. La moneta è intrinsecamente produttiva:
essa non sta solo “all’aperto”, ma rende-aperto, porta ogni cosa nello spazio dell’acquisibile,
vede e fa vedere. Il bottone custodisce gelosamente la propria im-produttività,
rifugge dal visibile, si cela, finché può, nella “cassetta delle meraviglie”.
E’ facile vedere come alla pro-duttività della moneta Lou associ l’univoca
aggressività del maschile, la infelicità del “passo in fuga dell’uomo”, mentre
quel peculiare “indugio” della donna presso l’originaria comunione di spirito e
di sensi (per quanto questa immagine sia sempre più “oscurata” dal progresso
stesso della spirituale, del Geist sentito in opposizione alla Seele)
dimostra come il bottone non sia mero ricordo, ma, per anticipare
successivi temi, in-fanzia che opera continuamente nella stessa crescita e
nelle stesse trasformazioni del linguaggio.
Ma come
raccogliere i bottoni? e dove raccoglierli? Vi è ancora uno spazio del
“raccolto”, in opposizione al mercato dei visibilia? dove si custodisce la
in-fanzia che rifiuta di pro-dursi, e di “superarsi” così nell’equi-valente che
caratterizza inesorabilmente lo spazio del pro-duttivo? Questo spazio è
un interno; ma non ogni interno è
il luogo del “raccolto”, il luogo dove avviene la “raccolta” di ciò che non
viene dato via, che resiste come in-fanzia.
La difficoltà di definire un tale spazio risulta anche dal fatto che esso deve
apparire in rapporto con la infelicità del produttivo, col sacrificio che esso
comporta. Se questa dimensione venisse semplicemente ignorata o rimossa,
l’infanzia del bottone sarebbe da relegarsi altrettanto semplicemente ad un
passato cronologico, ad un tempo assolutamente perduto.
Se questa infanzia opera, essa deve operare qui, in rapporto
allo spazio della moneta, del mercato in cui essa si divide e si scambia, della
strada per cui essa circola e passa. Lo spazio del “raccolto” deve
esistere nella pro-duttività della Metropoli. Ma come è possibile ciò?
Non ogni interno è il luogo del “raccolto”. Ad esempio, la cattiva poesia della
casa come protezione della Metropoli ne è l’esatto opposto. Questa casa vuole
esporsi come “cassetta delle meraviglie”, vuole manifestarsi come
anti-metropolitana. Ma con ciò stesso esibisce il
proprio interno, lo rende visibile. E ciò che è visibile volendo essere non
equi-valente è una farsa della moneta, non il suo opposto. A sua volta, la casa
metropolitana non ha “interno”. Essa assume pragmaticamente che la struttura
traspaia, sia leggibile nella visione
d’insieme. Tra interno ed esterno deve esservi un indissolubile legame
funzionale. Giustamente, la casa metropolitana (l’edificio) critica la
“cassetta delle meraviglie”- ma non si avvede di esserne l’esatto contrappunto
nella Modernitat. In quella “cassetta” infatti, nulla vi era di oscuro o
segreto: il suo progetto mirava alla stessa “pura visibilità” di quello
dell’edificio metropolitano. Perciò la “cassetta delle meraviglie” è davvero
nient’altro, letteralmente, che un tatuaggio della metropoli. Nulla più della
“cassetta” rende evidente la tendenza intrinseca della Metropoli a liquidare
qualsiasi possibile luogo del “raccolto”.
L’interno che
custodisce i bottoni può esistere soltanto come assoluta differenza rispetto al suo esterno. L’esterno non deve tradire ciò che si
raccoglie all’interno. L’esterno va mantenuto nella direzione e nella
dimensione della moneta. Esso deve essere pura moneta, perfetta moneta – funzionare senza stridore
nell’universo della circolazione e dello scambio.
Questo universo non va abbellito, ma fatto funzionare. Però, questo esterno non
è il tutto. Il linguaggio che exprime e pro-duce non è Tutto. Se vi è autentico
luogo del “raccolto”, esso potrà trovarsi soltanto nell’interno di un tale
linguaggio, rovescio im-producibile della sua perfetta moneta.
Ciò non comporta affatto che l’esterno sia trattato come una sorta di ostacolo
o di corporeo-spirituale impedimento verso la Seele. All’opposto: contro questa
tardo-romanica concezione dello Streben architettonico, è proprio la purezza
reificata dell’esterno ciò che permette un autentico interno. Se
l’esterno “alludesse”, o venisse inteso simbolicamente rispetto a ciò che
cela, o venisse trattato come ostacolo, non-Io, ecc., non soltanto si
ricadrebbe necessariamente nell’ornamento, (che in questa dialettica
trova appunto la sua ragione), ma si concepirebbe l’interno come
imperfetto fino al momento della sua espressione, del suo divenire-linguaggio –
e cioè non si saprebbe concepire rigorosamente alcun interno. Bisogna perciò
mantenere la differenza assoluta – ma con questa decisiva “aggiunta”:
che a priori può darsi interno soltanto laddove l’esterno sia sentito puramente
e perfettamente – studiato, analizzato, realizzato col massimo rigore,
nel suo specifico ritmo e in rapporto a quello metropolitano.
Soltanto
laddove l’esterno sia venerato come Kraus venera il linguaggio – può darsi una
dimensione altra da esso: inalienabile quanto e perché im-produttiva, interna
in-fanzia del linguaggio. Tanto difficile è comprendere questo rapporto
che si è potuto far passare Loos per pioniere del Moderno. Ma la calcolata
perfezione dell’esterno è in lui la pietas krausiana per il linguaggio,
senza l’etica totalizzante krausiana di onni-ridurre alla trasparenza
della dimensione linguistica. L’esterno del possibile luogo della
“raccolta” è puro linguaggio, che ha la sua storia, i suoi difficili snodi,
da affrontare e risolvere, le sue inerzie da muovere con pazienza
accanita – ma non trasparenza. Certo, nulla
dice che si dia un’interno di questo linguaggio. Ma nulla neppure dice
che non si dia, come invece nel caso delle palesi
“cassette delle meraviglie”, o nel caso di esterni allusivamente tesi,
“ornati”, o ancora nel caso di esterni soddisfatti nella Modernitat, che ne
assumono il “ritmo” come certi che ad esso teleologicamente indirizzasse tutta
la storia passata. Quest’esterno non ex-prime (se lo facesse non si darebbe
interno) – non lascia trasparire, non è trasparente, e proprio per questo può (forse) conservarsi un
interno. Esso lascia aperta, per così dire, la possibilità di un interno.
Questo lasciare-aperto a un luogo del “raccolto” nelle condizioni,
riconosciute con completo disincanto, della Metropoli – la “cura” per la
possibilità di un tale luogo, senza nostalgie verso un utopico annullarsi della
spiritualità dell’esterno – questo potrebbe chiamarsi il tratto profondamente
femminile di Loos. Nell’interieur della sua abitazione (ora “visibile” al Museo
della città di Vienna) ciò è anche formalmente ben chiaro. Ma non è questo
l’essenziale. Essenziale è l’ampiezza della differenza tra
interno ed esterno – non le soluzioni particolari dell’interno. E
quest’ampiezza è il segreto compositivo del Rufer Haus, come del Moller Haus,
come del Muller Haus di Praga: la sua misura è la misura della cura loosiana
per i bottoni di Lou, perché essi abbiano (ancora) un luogo.
In una pagina molto bella Eugenie Lemoine-Luccioni parla del “legame intimo che lega la donna ai suoi oggetti”. Senza i suoi oggetti essa appare smarrita, perduta. Ma i suoi oggetti abitano un interno, non possono trasformarsi in monete. I suoi oggetti non sono pro-ducibili. La casa dove si raccolgono è abitabile, non visibile. L’atto di vedere una casa è metafisicamente distinto da quello di abitarla. Definire il possibile abitare per questa differenza, e non astrattamente in sé come si trattasse di uno stile di arredo, è, direi, la femminile grandezza di Loos. Egli ha “cura” di un luogo dova la cosa sia “salva” nel suo intimo legame alla nostra esperienza – dove nella cosa si raccolgano (poiché la cosa è “raccolta”) quegli Extracte des Lebens che hanno formato esperienza. Per continuare nella parafrasi altenberghiana, questa cosa è in-valida a riuscire a “produrre”, ma non diviene perciò letteraria protesta contro la Zivilisation. Anzi, il suo “ritiro” vuole forse significare che il mondo è ormai “semplicemente pieno di cose (al plurale indefinito)” (Luccioni), o, in altri termini, che la cosa è ormai soltanto il perfettamente manipolabile e alienabile, destituito da qualsiasi consistenza, separato dall’Essere. Questa cosa ex-siste soltanto, è in quanto viene vista e parlata. La cosa di cui Lou parla rimanda piuttosto ad una dimensione dimenticata dell’abitare e dell’esperienza che all’abitare si connette. Più che di sua anamnesi, in Loos dobbiamo parlare di consapevole inizio della sua dimenticanza: Loos è l’interno estremo.
2. La “catena di vetro”.
Giorgio
Agamben all’inizio del suo Infanzia e storia,
la cui importanza, per le considerazioni qui svolte, non potrà certo sfuggire,
richiama con forza l’attenzione sullo straordinario breve saggio benjaminiano
del ’33, Esperienza e miseria.
La caduta dell’Esperienza o la sua attuale miseria (di cui, come
Agamben spiega, le diverse filosofie della vita sono conferma e non
confutazione) trova qui il suo exemplum proprio nelle vicende del “movimento
moderno” in architettura. L’architettura funzionale di “vetro e acciaio”
rappresenta la programmatica liquidazione delle stesse condizioni a priori
dell’esperienza. Il suo fine esplicito consiste nel rendere impossibile
“lasciare tracce”, nel pro-durre qualsiasi luogo “segreto”,
nell’onni-visibilizzare la casa, l’edificio – anzi: dalle stesse strutture
fisiche del singolo edificio alla intera organizzazione urbana. Di
questo operari il vetro è il materiale principe. Il
vetro è il principio stesso della trasparenza, e, come diceva Scheerbart,
citato da Benjamin, “noi possiamo ben parlare di una Glaskultur. Il nuovo ambiente di vetro trasformerà
completamente l’uomo. E c’è solo da desiderare che la nuova civiltà del
vetro non trovi troppi oppositori”. Ma il vetro non è soltanto il nemico
di ogni “aura”. Esso porta il suo attacco al principio stesso dell’interno.
Perciò Loos non può essere affatto, e sotto nessun rapporto, confuso con
la Glaskultur scheerbartiana (come invece fa
Benjamin). Solo indirettamente il vetro si oppone al possesso. Propriamente, il
vetro si oppone a che sussista un luogo nel quale questa cosa (questa
“raccolta”) è per me un’esperienza inalienabile. Il vetro si oppone, di fatto,
a qualsiasi possesso inalienabile. Mostrando, pro-ducendo, manifestando ogni
possesso, il vetro vuole che esso ex-sista soltanto sul mercato, come moneta.
La critica del vetro al possesso è perciò condotta unicamente dal punto di
vista della, per così dire, dissacrazione del possesso stesso.
Ma qual’è la
“verità” di questo possesso che la Glaskultur rende
impossibile e, ormai, forse anche inconcepibile? Nel flusso ininterrotto di
stimoli-percezioni che la città vetro-acciaio permette, nell’”arricchimento”
continuo della sua vita “spirituale”, ciò che viene dissacrato non sono tanto
le antiche “aure”, ma la possibilità di esperienza – ciò che viene prodotto è
la miseria di esperienza. Nello scambio e nella trasparenza universale ogni
cosa è sussunta nella generale equivalenza. La trasparenza del vetro denuda e
consegna-tradisce alla equi-valenza del passante. Da qui i nomi senza storia
dei romanzi di Scheerbart, le sue creature “del tutto nuove” – la loro radicale
mancanza di interni. Ma, sappiamo, e da Loos, che interno è lungi da
identificarsi con quei felpati arredi ai quali anche Benjamin sembra invece
richiamarsi. L’interno loosiano esprime un principio qualitativamente diverso
da una nostalgica resistenza sulla soglia di quella virile accettazione
dell’epoca, che sembra contrassegnare tutti i “migliori cervelli”.
Secondo il “segreto proprio di questo interno
è forse possibile, invece, rendere trasparente l’”aura ideologica della “catena
di vetro”.
La Glaskultur “decreta” una morte dell’esperienza già
avvenuta e che essa, per così dire, eredita. Il suo vetro riflette l’attuale miseria. Malgrado il suo gesto
da Avant-garde di rifiutare il linguaggio paterno, di contrapporre alla
sua organicità l’arbitrario e il liberamente costruttivo, la Glaskultur è una
civiltà perfettamente logocentrica. La sua volontà di rendere-trasparente,
denudare, pro-durre esprime una utopia di piena identificazione tra umano e
linguistico (quella identificazione che Agamben illustra per criticare). Ogni
“segreto” va parlato, ogni interno va manifestato, ogni infanzia pro-dotta.
Il linguaggio, il potere del
linguaggio, è qui assoluto. Proprio la sua nuova libera costruttività gli
permette di impossessarsi in pieno del bastone del comando del Soggetto, dell
Ego. Il linguaggio, finalmente liberato dalle “intenzioni” del Soggetto, parla,
cresce, si trasforma – il soggetto è parlato.
L’uomo è
l’animale che il linguaggio possiede. Ma ciò significa portare a compimento la
metafisica del Soggetto che dice: Io penso.
La Glaskultur è uno degli aspetti in cui tale
compimento si rifrange.
Definire i limiti di questo potere, criticarlo,
non esprime l’impotenza di sopportarlo, ma aver saputo attraversarlo – e
manifestarne, ora, il costitutivo legame all’attuale miseria. Proprio questo
legame è ciò che la Glaskultur tende,
in ogni modo, a mistificare. Si prenda un autore così largamente influenzato da
Scheerbart come Bruno Taut. Quando illustra il proprio Glashaus
dell’esposizione di Colonia del ’14, egli sembra parlare di un’architettura
caleidoscopicamente ricca, affascinante, multiforme. Il principio del Vetro è
abbellito e ornato con ogni parola.
Neppure il legame, così ben presente anche a Simmel, tra intensità degli
stimoli nella vita metropolitana e miseria di esperienza viene qui
ricordato – anzi, ogni sforzo è dedicato per armonizzare il prepotente
insorgere della Glaskultur alle nostalgie dell’anima e dell’Erlebnis.
La perdita di esperienza – l’assenza di “possesso” in quanto perdita di
esperienza – è sublimata cosmogonicamente in quella similitudine
straordinariamente ingenua dell’esperimento alchimistico che sono i disegni,
dedicati allo spirito di Scheerbart, di Der Weltbaumeister (1920), dove
attraverso successive operazioni di separatio e coniunctio, sorge, alla luce
del sole estivo (rubedo!), e al canto di bimbi (!), il perfetto
cristallo della Casa (“in wargelbem Licht”): das leuchtende Kristallhaus, ed
essa si spalanca a mostrare le sue meraviglie. Il principio del Vetro,
lungi dall’essere trattato (come Benjamin credeva), con totale mancanza
di illusioni, qui pretende addirittura di aprirsi ad un suo interno. Ma
il Vetro non può possedere un “interno” che per manifestarlo, dunque per
negarlo in quanto tale nella onni-padronanza del proprio Linguaggio. E,
infatti, questo interno stesso che si pro-duce davanti a noi non è ancora
se non “blitzendes Glas”. All’esperienza perduta è sterile surrogato ogni
panico-cosmico cupio dissolvi della forma individuale, finita: questa non è che
una strada traversa per raggiungere lo stesso inizio: la “catena di vetro”.
Sarebbe necessario aggiungere che il vetro ha funzione del tutto diversa in
Mies. La sua trasparenza è qui così totale, perché nasce dall’esatta, davvero
disperata, consapevolezza che più nulla vi è da “raccogliere” e, dunque,
da non far trasparire. Così il vetro non opera più
alcuna “violenza”, ma appare, quasi, ormai quasi come il fantasma di se
stesso. La sua funzione è diventata altrettanto “arcaica” di quel senso della
cosa che ha contribuito a distruggere. Ma questo decreto (finalmente logicamente definito in Mies) vale anche per il
problema che afferra Loos? L’uso del vetro in Loos è assolutamente austero. La sua ricerca per ottenere lastre di
marmo sempre più sottili ci dice chiaramente come egli tendesse alla
sostituzione del principio del Vetro. Laddove il vetro gioca un ruolo
fondamentale nella composizione, ad es. nel Loos-Bar, esso riflette, moltiplica
un interno – non “comunica” – è tanto poco trasparente quanto una levigata e
preziosa lastra di marmo. Esso non dice che in
questo interno hanno luogo esperienze – non enfatizza lo spazio che abbraccia
come fosse una ritrovata “cassetta delle meraviglie”. Ma neppure lo pro-duce nel Linguaggio, neppure no
manifesta – trattiene questo “sviluppo”, questo possibile “sviluppo”;
nella differenza del proprio
esterno. Il vetro che riflette – questo vetro che compone l’interno – fa indugiare a riflettere su
un possibile luogo dell’esperienza. E il
possibile non si proclama, non si grida, non “libera” – ma dà, forse, un
senso al silenzio e raccoglie nell’attesa.
3. Invalid les Todes
Anche Roth
odia la Glaskultur, e dunque anche Roth sa bene l’attuale miseria
dell’esperienza. Lo sdradicamento totale dalla possibilità stessa di un luogo
dell’esperienza è il tema di Roth.
La Heimat di Roth è un vastissimo interno, uno sconfinato spazio della
esperienza dove l’interno asburgico-viennese si distende senza soluzione di
continuità in quelli céchi, sloveni, polacchi e trova il suo alter ego proprio
nello shtetl dell’Ostjudentum. Come l’interno anche Heimat è femminile. La
rinuncia, su cui Magris ha così insistito, è, alla radice, rinuncia del
possibile ritorno (HeimKehr) alla esperienza.
Il suo luogo non è tedesco. Quella tedesca è Glaskultur e
Avant-Garde. “Soltanto i nostri tedeschi, la maggioranza etnica”
hanno tradito, esclama Chojnicki – scimuniti di alpigiani e i Sudeti di
Boemia e nibelunghi cretini. Come Sipolje, essi hanno raso al suolo
impero e shtetl – ogni Heimat. L’anima dell’Austria
sta alla periferia – come il buon Dio, per Loos, abita nei particolari. L’anima
dell’Austria è raccolta presso gli ebrei col caffetano
di Boryslaw, i mercanti di cavallo della Bàcska, i musulmani di Sarajevo,
i caldarrostai di Mostar. Sono i valligiani gozzuti delle Alpi che
cantano La guardia al Reno. Ma essi hanno vinto. L’impero era un immenso
interno, un immenso particolare –
un infinito numero di popoli capaci di “possedere”, legati alla dignità
inalienabile di proprie cose. Ma queste cose
sono andate distrutte.
Così
avvizziscono le notti di Vienna, e lasciano al gioco crudele tra rinuncia e
desiderio inappagato; dopo la vecchia capitale, viene la quintessenza della
Metropoli, che “trasforma questa terra in asfalto, muri e mattoni” e tollera
entro sé la provincia “senza dubbio per divorarla un giorno”. Esistono i luoghi
soltanto dove passano le monete: teatro, arte, borsa, commercio, cinema,
metropolitana. Il mondo vi è già consolidato, (reificato) “al punto che
le terze pagine potevano anche essere rivoluzionarie”. In questo modo
finisce il disperso, il superfluo, colui che è sopravvissuto alla esperienza. Ed
è appunto questo che riscatta la nostalgia a volte prorompente dalle pagine di
Roth. Franz Tunda percorre l’europa, fa molti incontri, parla molti linguaggi;
anche il Trotta della Cripta è carico
di eventi; e Mendel Singer è assalito dalla stessa febbre. Ma il loro mondo
è divenuto la totalità dei casi. Che
essi possano prendervi parte non ne muta la natura di casi. La loro fuga senza fine non è esperienza,
ma l’opposto. L’esperienza sta prima che il racconto inizi. Il
racconto – il narrare – è unicamente il
racconto della sua morte: il racconto dei casi che
afferrano i sopravvissuti all’esperienza, coloro che sono stati giudicati
“inabili alla morte”.
In questo senso la conclusione di Hiob non è
affatto consolatoria, ma rigorosamente disperata. Colui giudicato “non degno”
di morire col proprio interno, e costretto perciò ad aggirarsi tra eventi,
perseguitato dal caso e dalle cose (all’indefinito plurale), solo per la
“grandezza dei miracoli” può riottenere tutto. La conclusione di Hiob è la rigorosa negazione dell’happy end: usciti dallo shtetl,
solo per miracolo è concepibile rincontrare il
proprio figlio, il proprio interno, la propria cosa. E di questo incontro
non può darsi storia, narrazione. La narrazione riguarda la diaspora, l’esilio
– la morte dell’esperienza. Il miracolo che fa di nuovo “esperire” si mostra
soltanto, non è dicibile – è (nel senso di Agamben?) in-fanzia. Perciò la
nostalgia – anche la più dolorosa – non si “tradisce” qui mai in
Linguaggio. Della esperienza non si parla. Essa era prima – e può tornare
alla fine soltanto colpendoci come
un miracolo. Certo, essa può sopraffare soltanto
chi aveva abitato quel prima. Lo svanire di
questi abitanti (già non lo sono più né Tunda, né Trotta, tantomeno Kargan) è
lo svanire anche della possibilità del miracolo.
Ancora legato
all’esperienza sembra Chojnicki, ma dai suoi giovani amici non viene
riconosciuto. Nella esperienza è trascorsa certamente la madre di Trotta,
ma senza in nessun modo poterla comunicare, se non come nostalgia e
rinuncia, al figlio. Quanto doveva aver letto e vissuto, questa madre – pensa
Trotta. Eppure il suo interno non resiste alla trasparenza, e la sua casa
diviene pensione. Tra coloro che vi alloggiano, un esponente tipo della
Glaskultur: Elisabeth. Ella lavora nell’”arte applicata” con una donna il cui
nome la madre di Trotta non sa pronunciare (il suo nome è “disumano”, come
quelli dei personaggi di Scheerbart). L’”arte” della Modernitat, dell’”originale” o della semplicità
“funzionale” che è l’opposto della Klarheit wittgensteiniana,
va occupando inesorabilmente ogni interno. E Loos, come Roth, sono troppo
lontani da Mendel Singer per potersi attendere il miracolo.
Inabili all’esperienza – inabili anche alla sua morte, dispersi a
rifletterne-viverne la fine. E’ questo un cerchio perfettamente chiuso? O anche
il sopravvivere, la sua superfluità può custodire un possibile – in esso può
raccogliersi un senso? e quale? Nel vivere la morte
dell’esperienza senza tradirla, senza volerla ex-primere, a parole, a
ornamenti, a immagini (i nostri esterni sino quelli di Loos) nel ripetere la
radicale differenza di interno e esterno, e impedendo così
all’esterno di valere come unico Logos – nel compiere l’esilio, senza
“consistere” nei diversi paesi e nei diversi linguaggi che si attraversa (alle
anime di quelli che erano stati sgozzati a causa del Vangelo di Dio Viene
data una veste bianca e vien detto di pazientare “fino a tanto che fosse
completo il numero dei loro compagni e dei loro fratelli, che devono
essere messi a morte come loro”) – nel vivere tutto ciò si può forse ascoltare
un silenzio, che può davvero esser detto,
letteralmente, utopia. Un silenzio che non “possiede”,
e non è perciò esperienza ma che può forse avere “cura” di tenerne aperto
il possibile: non esperienza, ma condizione, oggi, di un suo estremo possibile.
Di ciò hanno “cura”, certamente, le ultime pagine di Der Mann ohne Eigenschaften – ma forse anche
quelle, tanto più disincantate all’apparenza, del Tractatus.
4. Esperienza e silenzio
“Che l’uomo
non sia sempre già parlante, che egli sia stato e sia tuttora in-fante, questo
è l’esperienza” scrive Agamben. L’in-fanzia è questo archi-limite del
linguaggio, la cui espropriazione da parte del linguaggio deve incessantemente
ripetersi, non è data una tantum. Il misitco wittgensteiniano sarebbe immagine
di tale archilimite, ed è per tale limite che il linguaggio stesso si può
correttamente definire Ma, per Baget e Benvenuto (La conoscenza di Dio),
l’ineffabile wittgensteiano (che Agamben equipara all’infanzia) viene anch’esso
prodotto linguisticamente, Fa parte del Linguaggio come la pausa della
struttura musicale. L’ineffabile wittgensteiano sarebbe un decreto che, sviluppato, così suona: “io
dico: io (qui) taccio”. Ma non sta nella essenza stessa del decreto la
possibilità di essere trasgredito? E come va pensata la possibilità della
trasgressione?
Proviamoci, ancora una volta, sulle ultime proposizioni del Tractatus. Nulla si può dire se non Satze der
Naturwissenschaft. “dunque, qualcosa che con la filosofia non ha nulla a che
fare”. Il “vero metodo” della filosofia consisterebbe dunque nel farla
svanire, così come il problema della vita si risolve quando svanisce (quando si
comprende, cioè, che non è possibile formularlo, che non è
una domanda). Eppure, noi sentiamo, (wir fuhlen) che
anche quando tutte le possibili domande avessero risposta, i problemi della
nostra vita non sarebbero neppure stati sfiorati. E a questa dimensione
apparterrebbe l’ineffabile. Baget e Benvenuto ritengono “ingenua” questa
concezione dell’ineffabile; Agamben invece, immagine della in-fanzia che
trascendentalmente accompagna il linguaggio (e per cui l’umano è irriducibile
al “cerchio di vetro” domanda-risposta).
In effetti, se Wittgenstein collocasse “il problema della vita” in un “aura”
mostruosa, occulta, al di là dell’”umile quotidiano” questa proposizione, che è
paradossale, sarebbe anche “ingenua”. E se Wittgenstein, in certo modo
all’opposto della precedente interpretazione, concepisse l’ineffabile come “la
stessa origine trascendentale del linguaggio”, si chiarirebbero le ultime
proposizioni e svanirebbe il problema che ancora ci prende leggendole.
Io credo che
entrambe queste interpretazioni vadano tenute presenti e “lavorate” a stretto
contatto con la lettura wittgensteiniana. La quale indubitabilmente
afferma: a) che potendo essere nel linguaggio soltanto ciò che è nel mondo, nei
limiti del linguaggio non si dà enigma; b) che il vero metodo della “filosofia”
consiste nel dimostrare come a certi segni corrispondano certi significati,
e nel far svanire tutto il resto (dunque, “il problema della vita”); c)
che tutto il dicibile non è se non – proposizioni scientifiche sulla natura, ma, nello stesso tempo: ciò non si dispone
affatto in illuministico progresso, abolendo via via l’ineffabile. L’ineffabile
permane. “Es gibt allerdings Unausspraechliches”: l’Allerdings suppone
una avversativa, che manca ma bisogna rendere in traduzione: “ma si dà comunque
davvero l’ineffabile”. L’ineffabile non è dicibile, non è pro-ducibile.
La forma del suo darsi non è quella del linguaggio. Ma si dà. Il Mistico è la forma del suo darsi: il mostrarsi. Il
Mistico è la forma nella quale e per la quale può darsi l’ineffabile – in
radicale differenza rispetto al dicibile, e proprio per tale radicale differenza
non raggiungibile dal dicibile, non pro-ducibile. Questo mostrarsi si
riconosce: per coglierlo si richiede davvero “una intensità di riconoscimento” come affermano Baget e Benvenuto a
proposito di Agostino; ma, va aggiunto, Agostino è forse l’autore di Wittgenstein. Questo
riconoscimento non è spiegabile-comunicabile; è mostrabile. Wittgenstein non
nega affatto che ad alcuni, dopo lungo dubitare, “il problema della vita” sia
divenuto chiaro; egli afferma che non seppero dirlo. Così per Agostino l’ineffabile
è ciò che non puoi esprimere-dire, ma che non devi neppure tacere.
L’unica forma del non tacere l’ineffabile che ci è data è il mostrarlo: questa
è la “trasgressione” implicita al decreto wittgensteiniano, e questo lo
rende del tutto “signore” dei suoi limiti.
In Wittgenstein non ha luogo, dunque, una nozione ingenuo-assoluta del decreto, né il silenzio è meramente costruito sulla
misura del dicibile “per simmetria e negazione” (Baget – Benvenuto). Né
l’ineffabile può essere inteso unicamente come il silenzio che
accompagna-limita trascendentalmente ogni proposizione, per cui infanzia,
verità, linguaggio si costituiscono insieme in una “relazione
originaria”: questa lettura, se liquida ogni “misticismo”, non coglie per
intero la collocazione problematica del silenzio in Wittgenstein. Poiché non vi
è dubbio che il silenzio abbia qui un luogo specifico (uno specifico interno) –
e che in questo luogo prendano forma quelle domande che sentiamo senza poterle
formulare, quei dubbi che sussistono dove non c’è domanda, quell’enigma “al di fuori dello spazio e del tempo”. Le
proposizioni che, come una scala, occorre gettare via dopo essere saliti per
esse, non riguardano soltanto “die richtige Methode der Philosophie”
(della ormai paradossale filosofia wittgensteiniana), ma chiarificano anche
questo luogo interno del silenzio, dibattuto tra decreto e “intensità di
riconoscimento” – davvero esperienza dell’inquietum cor nostrum.
Da estremo rappresentante della perfetta identificazione tra ordo rerum et ordo idearum, della utopia cartesiana del chiaro-distinto, Wittgenstein ammutolisce l’esperienza (de nobis ipsis silemus – silenzio sui problemi della nostra vita), ma questa stessa così rigorosa costruzione dell’esterno porta a mostrare: si dà comunque davvero l’ineffabile. Soltanto che questo ineffabile sta alla fine di quella rigorosa costruzione. Il silenzio non può perciò confondersi all’infanzia. Ma la contraddizione potrebbe anche essere apparente. Se la Klareit del silenzio wittgensteiniano si dà soltanto (può darsi soltanto) dopo aver attraversato tutto il senso delle proposizioni scientifiche, – al compimento dell’”esilio” – e non può apparirci miracolosamente dovunque e su qualsiasi strada – il luogo dell’esperienza non è né “origine” semplicemente, né trascendentale del linguaggio. Il luogo dell’esperienza può essere soltanto questo ritorno dell’in-fanzia nel silenzio che si mostra alla fine del Tractatus. Esso non può essere né in-fanzia soltanto, né silenzio soltanto: ma il silenzio che “eccede” il dicibile e che in tale “eccesso” ricorda (anamnesis-mnemosine) l’in-fanzia come origine-limite. Allora il Mistico sarà il complesso di questo movimento: sentire il mondo come “tutto limitato” – mostrarsi dell’ineffabile – rimemorare l’in-fanzia: questa in-fanzia al culmine del linguaggio, sopravvissuta ad ogni diaspora e ad ogni caso. Così il Mistico è Klareit autentica, poiché attraversa-chiarisce l’intero spazio della morte dell’esperienza, della sua distruzione nell’”esilio”, per farne risultare dal suo stesso interno ciò che le sopravvive, ciò che ne può “eccedere” il limite rigoroso. Né il quando, né il come di questo “eccesso” può dirsi. Nulla è più lontano dell’Expressionismus della Seele, dei Duomi alpini cristallo-luce di Taut, della Kunstgewerbe di Elisabeth. L’eccesso può darsi soltanto come mutuo, intenso riconoscersi, all’interno, di in-fanzia e silenzio. Come in Musil, la sorella dell’infanzia fa ritorno alla fine, si mostra, al culmine del narrare e dell’illuminare saggistico, al culmine dell’ironia dissacrante, riducente alla equivalenza. Ma qui appunto deve darsi anche l’ineffabile. Sentire che l’in-fanzia si è “educata” all’ineffabile-silenzio e che, insieme, il silenzio è memoria dell’infanzia, possibile perché siano in-fanti, questo cerchio è l’”eccesso” dove la possibilità dell’esperienza ha forse fatto ritiro.