Bergson, Pensiero e movente, Olschki, p. 12:
“… Essi non sembrano farsi alcuna idea di un’azione che sia interamente nuova e che non preesista in alcun modo alla sua realizzazione, neanche sotto forma del puro possibile.”
Essi sono i filosofi, anche quelli che ammettono il libero arbitrio, ma confinato tra possibilità date. Mentre per Bergson la realtà dell’Essere, cioè ciò che ogni Essere è veramente, è continua creazione di azioni interamente nuove proprio perché è una realtà che deriva, viene prodotta, dal continuo mutamento, dalla continua evoluzione dell’essere, concepito come un flusso continuo di essenza che dal passato plasma il futuro attraverso l’interazione col presente, e le cui fasi continuamente si compenetrano in una crescita interiore.
E tuttavia la faccenda è più complicata; perché mentre Bergson considerava il passato come parte del flusso di qualcosa che comunque era già compiuto e definito, il passato in realtà è sì compiuto, ma non definito, nel senso di concluso; esso permane, sempre in fieri, cioè sempre nel formarsi dell’azione. Qualsiasi cosa fatta nel passato cioè rimane nel suo farsi, proprio come se ancora la stessimo facendo. Questa permanenza comporta una continua rielaborazione e riedizione dello stesso gesto, sempre tuttavia mutato dal mutare delle condizioni di contorno, che ne causano una sempre diversa interpretazione. In questo senso si può dire a ragion veduta che il passato cambia.
Quello che ho fatto in un qualsiasi momento del passato, che già non avevo capito bene cosa fosse nel momento in cui l’ho fatto, col passare del tempo, e col mutare delle condizioni, e quindi col cambiare del pensiero nelle cose pensate e nel modo di pensarle, cambia per conseguenza esso stesso nella sua propria natura, e cioè anche nel suo aspetto materiale, diventando cosa diversa da ciò che era quando è stata compiuta.
Il fatto che il passato cambi esso stesso produce una moltiplicazione di piani di relazione tra le cose, le azioni, i sentimenti, i pensieri, per cui succede che il futuro non è più prodotto, esito, delle infinite possibilità di combinazione di cose accadute nel passato, quanto piuttosto di cose accadute nel passato che cambiano continuamente, instaurando in questo modo diversi piani dimensionali corrispondenti ad ogni cambiamento, in cui le stesse combinazioni producono effetti diversi. Una immanenza di piani dimensionali alternativi, che esistono tutti contemporaneamente e che mutano e continuano a moltiplicarsi senza sosta, al variare di ogni singolo aspetto.
Questo può produrre non soltanto azioni interamente nuove, ma nuove anche oltre ogni nostra possibile previsione, perché non derivanti dalla relazione tra aspetti noti e definiti, ma tra aspetti che mutano in maniera evidentemente per noi non registrabile al livello quantitativo. Ma solo al livello della differenza qualitativa, dello scarto di tono rispetto a ciò che è noto, di cui abbiamo fatto o pensato esperienza. Ponendoci così nella condizione di rilevare la presenza di cose che prima non esistevano; creando quindi le condizioni perché accadano (cioè possiamo cogliere) cose intrinsecamente nuove. Non nuove combinazioni di cose già date, ma cose nuove nella propria natura.
E tuttavia e anche vero che l’Essere in realtà non cambia, non muta mai.
Che i continui cambiamenti di cui facciamo esperienza sono in realtà aspetti diversi dello stesso Essere, cioè aspetti diversi che l’essere mostra di sé in relazione al mutare delle condizioni esterne.
Che il divenire non è che lo strumento di pensiero che abbiamo messo a punto per gestire l’unità e la completezza dell’Essere, che non possiamo cogliere, perché non possiamo concepire il fatto che stati differenti di tensione coesistano, cioè esistano nello stesso Essere nello stesso tempo, cosa che in realtà accade: si pensi al fotone. Abbiamo necessità quindi di istaurare una successione fittizia.
Sembra esistere quindi una contraddizione tra l’essere che continuamente muta, dando vita a forme radicalmente nuove di sé, e l’Essere, lo stesso Essere, che però non cambia mai, essendo tali apparenti cambiamenti solo il nostro modo di rappresentarcene la complessità e la pienezza, l’interezza.
Tale contraddizione può essere risolta ammettendo che ogni forma nuova, pur risultante dalla combinazione di relazioni nuove che si instaurano tra cose nuove, tuttavia deriva sempre da un originario sostrato rappresentato da ciò che l’Essere è, è stato, potrebbe essere, potrebbe essere stato, avrebbe potuto essere, avrebbe potuto essere stato. Cioè comunque da aspetti dello stesso Essere, che quindi, anche cambiando, rimane sempre uguale a se stesso.
Ma la contraddizione in realtà è solo apparente, e deriva dal fatto che la questione è malposta. E’ sbagliato infatti dire che l’Essere è immutabile, perché esso, come abbiamo visto, muta in continuazione, pur non cambiando la sua natura, e questo perché è nella sua natura di mutare, essendo la sua natura di instaurare un tempo esteso, nel quale dunque il mutamento è inevitabile; ma è un mutare che non cambia la sua natura, perché in qualsivoglia modo potrà mutare, non potrà che rimanere comunque all’interno delle sue potenzialità, cioè nell’ambito delle sue necessità. Rimarrà sempre comunque L’Essere che è. Bisogna quindi dire che lo stesso Essere muta in continuazione negli aspetti secondari, secondari in quando nati dalle relazioni di aspetti primi; i quali invece non possono mutare, essendo gli aspetti che ne costituiscono l’essenza.
Ma è vero anche che tali cambiamenti degli aspetti secondari sono cosa differente rispetto ai cambiamenti apparenti di stato. Tali cambiamenti apparenti sono, come prima detto, interfacce differenti dello stesso soggetto, che dunque, in questo senso, cioè a questo livello di relazione, non muta, ma mostra solo parti differenti, visioni parziali di quell’unità che è. I cambiamenti degli aspetti secondari sono invece cambiamenti a tutti gli effetti, prodotti dalle continue, nel senso di permanenti, relazioni in essere tra diversi aspetti dell’Essere, e dalle conbinazioni da queste prodotte. E’ su questo piano che il divenire comunemente inteso esiste, e dispiega le conseguenze del suo esistere. Ed è su questo piano che il divenire è reale. Ma diversamente da come viene comunemente inteso, quello che il divenire dell’Essere produce non è cambiamento, bensì crescita. Il termine infatti è stato usato in maniera impropria. Per Eraclito il divenire è l’esito (che produce un cambiamento) dello scontro tra forze, enti , stati opposti. Ma l’Essere non diviene in quanto esito di uno scontro tra opposti. L’Essere diviene nel senso di una crescita, cioè aggiunge quello che è diventato oggi a quello che era ieri. Non produce in questo modo qualcosa di nuovo, ma accresce, aumenta, quello che già era.
Pensare la complessità dell’Essere dunque significa cominciare a distinguere tra l’aspetto primario che ne costituisce l’Essenza, che è ciò che l’Essere sempre è stato e sempre è; colui che corrisponde al suo nome; aspetti secondari che nascono dalle diverse combinazioni che derivano dalle relazioni tra l’aspetto primario e tutto ciò che esiste e ci circonda così come noi lo percepiamo e lo circoscriviamo, e quindi in buona sostanza
dalla relazione e dalle conseguenze che questa produce, dell’aspetto primario con ogni nostra azione, percezione, interpretazione, con ogni nostro pensiero, dunque con ogni singolo secondo della nostra esistenza; aspetti secondari che quindi mutano in continuazione, costituendo il flusso perenne dell’esistenza; e che quindi possiamo definire ciò che dell’essere muta, nel senso – come dicevamo prima – che si accresce; e infine i mutamenti apparenti, che appunto non sono veri mutamenti, ma semplicemente interfacce diverse che l’Essere mostra, o meglio prodotte dall’incontro tra determinati aspetti dell’Essere e determinate condizioni esterne.
Tutti questi aspetti coesistono, cioè sono sempre presenti. Per questo si può dire che l’Essere sempre diviene, ma mai muta.
L’essere dunque è colui che risponde quando si chiama il suo nome, cioè quando viene nominato; ed è quindi colui che nomina. E’ ciò che si comunica nella sua lingua, cioè ciò che di sé comunica. L’essere comunica nella lingua ciò che di sé può essere comunicato.
Ma il suo aspetto primario non corrisponde a ciò che viene comunicato; perché l’Essere nella sua assoluta interezza è qualcosa di più di quello che si può comunicare, non solo di quello che è comunicabile, ma soprattutto di quello che si vuole comunicare.
L’Essere nel suo aspetto primario è ciò che non vuole essere comunicato, che non vuole essere nomiato e non vuole nominare, perché in questa distanza egli è: egli è questa distanza.
L’Essere nel suo aspetto primario è dunque la distanza che egli con la sua presenza pone rispetto all’altro da sé, a ciò che egli non è.
Egli cioè si manifesta nella distanza che pone tra sé e tutto ciò che è altro da sé, che da sé è fuori.
Perché non vuole comunicare? Perché per comunicare deve portrare fuori una parte di sé, e portandola fuori la perde. Questo è il senso dell’indovinello che i ragazzi posero a Omero e che Omero non seppe risolvere: quello che prendiamo lo perdiamo; quello che non prendiamo lo portiamo con noi.
Per questo egli comunica solo ciò che è secondario, cioè ciò che deriva dall’esperienza, dunque qualcosa che nasce dopo aver portato fuori qualcosa.
Questo voleva dire Platone quando, nella settima lettera, diceva che con la scrittura si trasmette solo ciò che non è importante: quando si vedono cose scritte di qualcuno, si deve concludere che queste non erano per l’autore la cosa più seria; e che queste cose più serie riposano nella sua parte più bella.
Il che va inteso in senso più generale: l’Essere non comunica ciò che per lui è veramente importante.
L’Essere dunque è ciò che non si comunica.