Atlante dell’assenza.

Appunti per una storia dell’Arte.


Perciò gli uomini muoiono, perché non possono connettere il principio e la fine.
(Alcmeone)

Che cosa manca?
Essenzialmente: manca il senso.
(F. Nietzsche, F.P. VIII – III – p. 4)

Non potresti desiderare di essere nata in un epoca migliore di questa, in cui si è perduto tutto.
(S. Weil, Quaderni, I)


Introduzione.

Cos’è arte? Da più di due secoli su questo punto abbiamo fatto chiarezza: Arte è tutto ciò che riesce a ricomporre la scissione tra il soggetto e l’oggetto, che riesce a risolvere la contraddizione che da Kant in poi ha dato forma e sostanza  all’angoscia della modernità, al nostro malessere. Solo l’opera che riesce in questo è Arte, èd è arte perché solo l’Arte può risolvere questa contraddizione. Non il pensiero, e dunque non la filosofia.

Se si vuole andare incontro al senso dell’essere, nella speranza di avvicinarsi il più possibile al limite che separa l’uomo dagli dei (che rimangono fino a prova contraria gli unici depositari del senso –  cosa che nulla ha a che fare con la religione), non c’è altra strada che quella dell’Arte. Questa considerazione, come un raggio di sole, apre uno squarcio nella spessa coltre di nebbia che avvolge la cultura contemporanea (e nella quale la cultura contemporanea sguazza): ora possiamo distinguere quello che è importante da quello che non lo è; quello che è Arte da quello che, anche se viene identificato con questo nome (nel frattempo diventato generico!) tuttavia altro non è che semplice espressione culturale: di disagio, di protesta, di testimonianza, di ricerca, di diletto, di godimento, più o meno valida, più o meno interessante;  mai Arte.
E’ dunque necessario azzerare tutto (tutto l’infinitouniversodellaproduzioneculturalelegataall’arte) e ricominciare a cercare, a catalogare, a scrivere. Anzi, come sempre accade, e come sempre deve accadere, a ri-scrivere.


Sul perché – poi –  per più di due secoli, a partire dallo Hegel, questa semplice considerazione sia stata tenuta in nessun conto, quando non schernita; chi o cosa aveva interesse a che tale rimanesse e chi o cosa ha tratto giovamento da questa situazione, e dunque sostanzialmente: sull’arte in quanto strumento ideologico, al servizio di più o meno presentabili Signori, su questo già tanti hanno detto, ma non sarà mai abbastanza.


(L’Atlante dell’Assenza è un lavoro senza fine, cominciato solo pochi anni fa, e dunque già troppo tardi. Evidentemente altre cose dovevano compiersi, e non c’è mai tempo più giusto di quello nel quale le cose accadono. Così ad oggi ho potuto completare solo il primo capitolo; altri tre o quattro sono già impostati, e spero già nel 2025 di completarli. Poi si vedrà. Intanto di seguito si pubblica il primo capitolo.)


Il senso del cammino (una presentazione).

La morte, scrive Marco Aurelio, non può toglierci il passato, perché il passato è qualcosa che non abbiamo. Può toglierci solo il presente, e il presente è uguale per tutti, qualunque sia il tempo in cui ognuno si trova: giovane, adulto, vecchio *1).
Dunque possiamo perdere solo  il presente, perché il passato non l’abbiamo, in quanto già perduto. Ma questo è un modo di dire che altera la natura delle cose, espressione di un atteggiamento (parlare attribuendo all’oggetto di cui si parla significati o qualità che non gli appartengono) che da tanto tempo dà forma e (conseguentemente) contenuto al pensiero e all’opinione degli uomini e che ne condiziona irreparabilmente il modo di stare nel mondo, perché ognuno è quello che pensa, nel modo in cui lo pensa.
Vero è infatti che non abbiamo il passato, ma solo perché esso è ciò che siamo. Cioè: il passato non lo abbiamo, lo siamo, dunque morendo lo perdiamo molto di più che se l’avessimo soltanto.
Il fatto tragico – la morte che tutto toglie – dunque rimane, con la sua inaccettabile contraddizione.
Ma è una contraddizione solo apparente, frutto e conseguenza di una inversione di senso causata da un pensiero distorto che non può che alterare tutto quello con cui entra in relazione, essendo alterata in origine la relazione stessa: perché il vero fatto tragico non è la morte, bensì la vita. Vediamo perché.

Quello che prendiamo lo lasciamo. Quello che non prendiamo lo portiamo con noi. Questo era l’indovinello che i pescatori rivolsero a Omero, e Omero, per il fatto di non riuscire a risolverlo, ne morì.
I pescatori si riferivano ai pidocchi, che prendevano e lasciavano, mentre quelli che non vedevano e prendevano continuavano a portare con sé. L’episodio è stato interpretato con sfumature differenti da diversi autori a partire da Eraclito e fino a Giorgio Colli, ma il senso non sembra poter essere altro che quello che lo stesso Colli gli attribuisce *2).
La nostra essenza, cioè la nostra più autentica natura, quella originaria, ancora indenne, non alterata dal logos falsato (e perciò falsante), e dunque ormai di nuovo inaudita (e inaudibile), è di non prendere, in quanto già aventi. E siccome si ha ciò che si è, dunque in quanto già essenti. *3)
E’ il fatto di prendere che segnala una mancanza, perché si cerca di prendere quello che non si ha, e se non lo si ha è perché lo si è perduto, altrimenti non se ne sentirebbe la mancanza.
Conoscere infatti significa non soltanto cercare di prendere ciò che non si sa, ma anche ciò che non si sa più, cioè cercare di sapere quello che un tempo evidentemente si sapeva.
Sono due differenti oggetti del desiderio, che producono differenti consapevolezze e differenti stati d’animo: desiderare di conoscere ciò che non si sa è un’esigenza di tipo pratico che produce una nuova consapevolezza rispetto a ciò che è oggettivo; desiderare di conoscere ciò che non si sa più è un movimento interiore che conduce verso stato contemplativo di elevazione.
E non sappiamo più perché quello che eravamo (cioè la nostra natura autentica) ci è diventato estraneo, esterno, altro: l’Io, nel momento in cui pone se stesso, pone il non-io, altrimenti non potrebbe darsi come Io *4).  Il porre se stesso da parte dell’Io è dunque un atto di distacco, un costituisi come differenza, che determina la realtà in quanto “altro da sé”, la quale pertanto, da quel preciso istante, diventa inconoscibile.
Diventiamo amici della sapienza, cioè aspiranti sapienti, e quindi filosofi, solo perché e in quanto l’abbiamo perduta *5). E in quanto amici della Sapienza, cioè di quella conoscenza che era dei Sapienti e di cui già Platone parlava come di qualcosa andata perduta, in questo senso il filosofo è colui che aspira non tanto alla conoscenza (questo è lo scienziato) ma alla conoscenza perduta. Questo è il motivo per il quale scienza e filosofia non possono essere confuse, e ne  la scienza può essere considerata una evoluzione della filosofia, che in quanto tale l’avrebbe soppiantata; come da tante parti viene ancora certificato. E in questo senso la filosofia è – come Nietzsche sapeva bene – l’evoluzione della filologia.
Questo atto (l’Io che pone se stesso) è possibile grazie allo strumento del linguaggio, del logos falsato e falsante, del discorso che cambia significato e invece di strumento per  unire (colui che parla a ciò che viene parlato), come era in origine,  diventa strumento per identificare e dunque limitare, differenziare e distinguere, e in questo modo alterare la reale natura dell’oggetto (che è tale solo in quanto esso mantiene di relazione con l’altro), e che nella sua continua evoluzione conduce l’uomo verso il superamento di se stesso.
Ogni tentativo “romantico” (da Orfeo e Dioniso a Holderlin) di recuperare tale sapere, cioè il sapere dell’ essente,  – di colui che è in quanto parte del Tutto, laddove “parte” indica la particolarità (una parte) dell’ente e la contemporanea comunione (il far parte) con il Tutto – altro non è stato se non un tentativo di superamento del linguaggio; cioè è stato il tentativo di giungere alla conoscenza attraverso altri strumenti, nella consapevolezza, in vario modo acquisita, del fatto che tale Sapienza non è esperibile attraverso il Logos, così come è divenuto, come si è trasformato.
Ma dal linguaggio non possiamo “uscire”, proprio perché sarebbe come “uscire” da noi stessi: per tornare nel Tutto dovremmo regredire sulla scala dell’evoluzione fino a perdere la posizione eretta e l’uso libero della mano, che hanno portato a una modificazione della struttura della  mandibola e alla conseguente possibilità di modulare il suono prodotto dalla voce, come già Gregorio di Nissa, nel suo Trattato sulla creazione dell’uomo, del 379, aveva scritto:

…Così grazie a questa organizzazione, la mente, come un musico,  produce in noi il linguaggio e noi diventiamo capaci di parlare. Non avremmo certo mai goduto di questo privilegio, se le nostre labbra avessero dovuto assolvere, per i bisogni del corpo, il compito pesante e faticoso del nutrimento. Ma le mani si sono assunto questo compito, e hanno lasciata libera la bocca perché provvedessa alla parola.
… Tuttavia la natura ha aggiunto le mani al nostro  corpo prima di tutto per il linguaggio. Se l’uomo ne fosse sprovvisto,  le parti del viso sarebbero state formate in lui, come quelle dei quadrupedi, per consentirgli di nutrirsi: il suo viso avrebbe una forma allungata,  assottigliata nella regione delle narici,  con labbra prominenti, callose,  dure e spesse, adatte a strappare l’erba;  ci sarebbe tra i denti una lingua completamente diversa da quella che c’è, carnosa, resistente e ruvida,  per impastare insieme ai denti gli alimenti; sarebbe umida,  in grado di far passare il cibo sui lati,  come quella dei cani o degli altri carnivori, che lo fanno scivolare tra gli interstizi dei denti. Se il corpo non avesse le mani, in che modo si formerebbe in lui la voce articolata? Le parti che circondano la bocca non sarebbero conformi ai bisogni del linguaggio. L’uomo, in tal caso, sarebbe costretto a belare, a lanciare gridi, ad abbaiare, a nitrire, a muggire come i buoi o ragliare come gli asini o far sentire degli ululi come le bestie selvagge.”. *6)

Dal momento che la liberazione della mano è stata conseguenza  di una precisa evoluzione posturale, che non solo ha condotto alla bipedia, liberando la mano dalla funzione della locomozione e sollevando il campo anteriore del cranio dalla necessità di svolgere la funzione della prensione e della preparazione del cibo, ma che, modificando la spina dorsale e la connessione della stessa con il cranio, ha “liberato” spazio al suo interno per  uno sviluppo ulteriore del cervello 7),  cioè: dal momento che la liberazione della mano – e il conseguente sviluppo della capacità di modulare il suono – grazie alle modificazioni della mandibola non più utilizzata come strumento di prensione e lavorazione “grossolana” della materia –  creando codici sonori collegabili a ogni tipo di azione o intuizione, rendendo quindi possibile la “rappresentazione”, e liberando in questo modo la facoltà immaginativa e progettuale – è stato un processo naturale, per conseguenza ne deriva che anche la facoltà di creare mondi (e modi di vivere) alternativi a quello reale (cioè in realtà inesistenti),  fa parte della nostra natura autentica.
Il che significa che la nostra natura è di superare la nostra natura, andando oltre noi stessi. Diventare Io, contro lo sfondo del non-Io da cui proveniamo, del non-Io per differenza del quale diventiamo ciò che siamo. E contemporaneamente dare vita a un non-Io (tutto ciò che è al di fuori) che altro non è che uno specchio che riflette la nostra immagine al contrario.
Ma quello che prendiamo (nominiamo) lo lasciamo (lo perdiamo).
Questa è l’origine dell’ineludibile dissidio, ed è anche l’origine dell’errore che sta a fondamento del problema, della prima, fondamentale inversione di senso: perché in realtà abbiamo perso anche l’illusione di poter recuperare lo “stato di natura”, essendo la nostra condizione attuale conseguenza della nostra natura. Di una natura che ha superato la sua misura.
E l’angoscia che ci coglie una volta persa di vista la riva, davanti al mare senza confini, deriva dalla sopraggiunta consapevolezza di non essere in grado di governare questo processo, e, soprattutto, di essere sul punto di dimenticare la nostra natura arcana,  quella parte di noi rimasta sulla riva:

Abbiamo lasciato la terra e ci siamo imbarcati sulla nave! Abbiamo tagliato i ponti alle nostre spalle – e non è tutto: abbiamo tagliato la terra dietro di noi. Ebbene, navicella!  Guardati innanzi!  Ai tuoi fianchi c’è l’oceano: è vero, non sempre muggisce, talvolta la sua distesa è come seta e oro e trasognamento della bontà. Ma verranno momenti in cui saprai che è infinito,  e che non c’è niente di più spaventevole dell’infinito. Oh, quel misero uccello che si è sentito libero e urta ora nelle pareti di questa gabbia!
Guai se ti coglie la nostalgia della terra, come se là ci fosse stata più libertà – e non esiste più “terra” alcuna!  *
8) .

Questo – vedremo – è il senso di ogni opera d’arte: non perdere la memoria di noi, e l’esperienza del mondo, cioè l’esperienza del Tutto.
Risulta chiaro ora il senso del detto di Anassimandro, di quell’ unico frammento che costituisce la più antica testimonianza di pensiero filosofico dell’Occidente:

…inizio e elemento primordiale delle cose è l’illimitato, e donde viene agli esseri la nascita là avviene anche la loro dissoluzione secondo necessità;  poiché essi pagano l’un l’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo.*9).

La morte nulla può toglierci, perché quello che avevamo, cioè quello che eravamo, l’abbiamo perso da soli; ma non è questo il suo senso, non è questo il suo lavoro, ciò per cui è necessaria.
Essa in realtà non toglie la vita, ma le ridà il senso che aveva. La riporta all’origine, alla sua natura arcana, quella per noi inaudibile: di avere una fine; e di averla là dove aveva avuto l’origine: nell’illimitato, ovverossia nel Tutto, e dunque nel nulla, perché solo non-essendo, cioè essendo a-soggettivamente, e dunque concretamente nulla,  si può far parte del Tutto. In questo modo le “cose”, tornando nel nulla, possono espiare la loro ingiustizia, cioè l’ingiustizia che hanno commesso esistendo. In questo modo la morte, cioè il tornare nel nulla, riporta la natura stessa (e noi con essa) dentro ai suoi vincoli.
Per questo è l’unica vera giustizia: ridà alle cose del mondo la loro giusta misura, e a noi la possibilità di rimediare il nostro destino, di risolvere la nostra tragedia.
La Sapienza dell’essente è in-sipienza, è non-sapere, laddove a noi non è dato sapere – non più – quale altra forma di conoscenza può essere propria dell’essente a prescindere dal linguaggio,  cioe a prescindere dal “sapere”. E dunque insipienza non indica una condizione di ignoranza, ma solo il limite del sapere, cioè il limite della conoscenza fondata sull’uso dei concetti e del ragionamento, rispetto ai quali la Sapienza presuppone un grado diverso e superiore di conoscenza.
Metterci in guardia contro la falsificazione operata dalla natura che supera se stessa, ma che allora, e da allora e per due interi millenni, venne scambiata con l’idea romantica dell’uomo che va contro la sua natura, che non ascolta né capisce più quello che la natura dice (quando invece abbiamo visto che è appunto la natura stessa, attraverso l’uomo – ad andare oltre se stessa), questa fu la preoccupazione principale di Eraclito e di Parmenide.
Il  libro di Eraclito, comunque si ordinino i frammenti, sembra tutto ruotare su questo motivo di fondo:

Non intendono gli uomini questo Logos, che è sempre, né prima di udirlo, né quando una volta lo hanno udito, e per quanto le cose si producano tutte seguendo questo Logos, è come se non ne avessero alcuna esperienza, essi che di parole e di opere fanno pure esperienza, identiche a quelle che io espongo distinguendo secondo la sua natura ogni cosa e mostrando com’è: ma agli uomini sfugge quello che fanno da svegli, e di quando fanno dormendo non hanno il ricordo. *10)

Non a me, ma dando ascolto al Logos, è saggio dire con esso che tutte le cose sono una./Perciò bisogna seguire ciò che è comune: il Logos è comune, ma i più vivono come avendo ciascuno una loro mente.

Chi vuole che la sua parola abbia senso, deve farsi forte di ciò che a tutti è comune e ha senso, come la città si fa forte della legge, e assai più che la città:  le leggi umane traggono tutte nutrimento da un’unica legge che è la legge divina, e tanto può quanto vuole, e a ogni cosa è bastante e a tutte sopravanza./Per i desti il mondo è uno e comune, ma quando prendono sonno si volgono ciascuno al prioprio.

Una è la sapienza: conoscere la mente che per il mare del Tutto ha segnato la rotta del Tutto./Questo cosmo né alcuno degli dei lo fece, né alcuno degli uomini, ma fù sempre ed è e sarà, fuoco di eterna vita, che si accende con misura e si spegne con misura.

lI Sole non andrà oltre le sua misura:  se lo farà, le Erinni, ministre della Giustizia, lo scopriranno./Massima virtù è avere senno, e sapienza è dire il vero e operarlo da uomo che conosce e segue la natura delle cose./A tutti gli uomini è dato conoscere sé stessi e non andare oltre il limite./Il sapere molte cose non insegna ad avere intelletto: lo avrebbe insegnato ad Esiodo e a Pitagora, e così a Senofane e a Ecateo./Di moltissimi è maestro Esiodo, e vi sanno anche dire che egli sapeva moltissimo, quando non conosceva è la notte né il giorno, che pure fanno uno (sono una cosa sola)./Esiodo che distingue i giorni fasti e infausti, e non sa che la natura di ogni giorno è sempre una e la stessa./Pitagora di Mnesarco attese alla ricerca più di ogni altro uomo, e fatta raccolta dei libri ad essa dedicati, trasse da quelli la sua sapienza, il suo sapere molte cose e la sua arte di frode./Pitagora inventore primo di raggiri.

Giustizia condannerà gli artefici e i testimoni di menzogna./Bisogna spegnere la dismisura più che le fiamme di un incendio./Bisogno e sazietà è il fuoco: il fuoco verrà e giudicherà tutte le cose.

E’ il fulmine che è al timone dell’universo.

E che fosse la natura stessa, di cui l’uomo non è che espressione concreta e compiuta, a superare se stessa, anche di questa consapevolezza Eraclito ci lascia una traccia:
56P: propria dell’anima è una natura che accresce se stessa. *11)

Per Parmenide l’errore (e dunque il superamento del limite) commesso dai mortali consiste nel dare nome alle cose, creando in questo modo opposizioni e contrasti che non possono esistere, in quanto necessariamente Uno è l’essere. Anche nominando una cosa sola si istituisce una opposizione, perché ogni cosa presuppone il suo opposto, come l’essere il non- essere. Dunque è nell’atto del nominare (l’Io che pone se stesso ponendo l’altro da sé – direbbe Fichte), che il Logos viene snaturato, perché da ciò che unisce, tiene insieme, collega (legein) diventa, rimanendo la stessa parola, ciò che crea opposizione. Questa è la insuperata lezione di Parmenide: aver individuato il modo in cui il Logos si traforma nell’opposto di quello che era:  parlandole infatti esso altera il significato delle parole, cioè delle cose.
Dice la Dea a Parmenide *12) che due sono le vie di ricerca che son da pensare: l’una che è e che non è possibile che non sia, e l’altra, che  è una via inaccessibile, che dice che non è, e che è necessario che non sia. Questo è un sentiero inaccessibile ad ogni ricerca, perché il non-essere non puoi né conoscerlo né esprimerlo, poiche lo stesso è pensare ed essere, e dunque il non-essere è non-pensiero, cioè non può essere pensato (e non potendo essere pensato non esiste).
Quindi l’opposizione con cui la stessa Dea apre la frase non esiste, perché l’unica cosa che può essere pensata è cio che è.
Continua la Dea: Per la parola e il pensiero bisogna che l’essere sia: solo esso infatti è possibile che sia, e il nulla non è: su questo ti esorto a riflettere. Poiché da questa prima via ti tengo lontano, ma anche da quella su cui errano i mortali che niente sanno, uomini a due teste: poiché è l’incertezza (dovuta all’opposizione creata dall’azione del nominare) che dirige nei loro petti l’oscillante mente. Ed essi vengono portati avanti, muti e ciechi ad un tempo, attoniti, gente indecisa, per cui l’essere e il non-essere è lo stesso e non è lo stesso e per cui d’ogni cosa v’è una strada che può esser percorsa in due sensi.
La Dea tiene Parmenide lontano da tutt’e due le vie, perché è nel pensare che esistano due vie che consiste l’errore.
Continua quindi elencando le qualità dell’essere, che altro non sono se non necessità logiche: non è mai stato e non sarà mai perché è ora, tutto insieme, uno, continuo. E infatti quale origine vorresti cercare per esso? Come sarebbe nato? E di dove? Dal non essere non è possibile, perché non è possibile che l’essere non sia. E quale necessità dovrebbe poi averlo spinto a nascere, dopo o prima, se comincia dal nulla? Così è necessario che sia in assoluto, o che non sia affatto. E per questo né il nascere né il perire gli concesse Dike allentando i legami, ma ben stretto lo tiene.
E come potrebbe l’essere esistere in futuro? E come potrebbe esser stato in passato? Perché se fu non è, e così non è se dovrà essere in futuro. Così si estingue la nascita e la morte scompare…
La Dea continua l’elenco delle necessità fino a quando non arriva a parlare delle opinioni dei mortali:
i mortali hanno dato nome a due forme, delle quali neppur una si deve nominare – e in questo è il loro errore – e opponendole ne distinsero la figura, e vi apposero segni assolutamente diversi l’uno dall’altro: qui la fiamma del fuoco etereo, dolce e lieve al più alto grado, e dappertutto uguale  a se stesso, ma non uguale all’altro; ed anche quello per sé, come il suo contrario: la notte senza luce, massa densa e pesante. Questa disposizione del mondo, puramente apparente, ti espongo in ogni particolare, così che non potrà mai convincerti qualsiasi opinione dei mortali…

Illuminante è la nota del Pasquinelli a commento di questo passaggio fondamentale:

“… La Dea passa ora a parlare del mondo dell’uomo. La forma in cui si esprime il mondo dell’uomo, la conoscenza dei mortali è l’onoma, il nome, che cristallizza la realtà in un aspetto che non è il suo, la traduce in schemi (per es. nascita, morte) che non si radicano in essa e quindi la svisano. Scostandosi dal sentiero della verità si cade necessariamente nel mondo dell’onoma,  e per spiegare ciò che appare agli occhi dei mortali si deve “nominarlo”. In Parmenide questa funzione dell’onomazein viene ancor più approfondita. L’essere è: ed abbiamo visto tutto il significato di tale formula nel poema parmenideo.  L’assoluta presenza dell’essere nell “ora” (per cui ogni cosa è essere e non è più una “cosa” distinta e lontana dalle altre, e per cui si escludono dalla sua rappresentazione passato e futuro, perché l’essere è un continuo, “tutto” nel limite tra passato e futuro  e cioè al di fuori del tempo) si esprimeva, al culmine del frammento 8, nell’immagine della sfera nella cui perfezione si oggettivava la compiutezza dell eon. L’immagine della sfera ci dice già chiaramente che tra l’essere ( cioè il mondo nella sua vera essenza) e la molteplicità cristallizata nella sua distinzione e nella sua contraddittorietà non vi è passaggio. Ogni passaggio ad altro è mancanza, differenza, non-essere. E l’unica strada è quella che dice che è; ogni determinazione porta in sé la distinzione e la contraddizione. Ora onomazein è appunto far nome, determinare, fissare; e Parmenide dice che la spiegazione del mondo della molteplicità, in quanto molteplicità, equivale alla rinuncia all’assolutezza dell’aletheia: “è”.
Se si vuol parlare delle cose, non “vedendole saldamente unite per opera della mente” ma “distanti tra loro”, se si vuol sapere la “nascita” e la “morte”  delle cose, si cade di necessità nella via che dice che è e che non è.  E questo è il significato dell’onomazein: si “dà nome” a un principio, la luce, ma questo dar nome implica l’ammissione di un principio opposto, la tenebra, e la loro contrapposizione e distinzione.
Accanto all’essere nasce il non-essere (…). Parmenide non rinuncia ad una spiegazione del mondo fisico, ma la sua novità, rispetto per esempio ad Anassimandro,  è proprio questa separazione dei due mondi. Quando si esce dal mondo della verità comincia l’errore. I mortali hanno dato nome a due forme, e il loro errore – l’errore della conoscenza umana, che vede le cose nella loro distinzione e nei limiti della nascita e della morte – non è l’ammissione di una dualità, ma già il fatto di aver dato nome anche ad una sola forma: la dualità, l’opposizione, la costraddizione ne derivano di conseguenza.
Quindi non dovrebbero “nominarne” nessuna,  e attenersi all’assolutezza dell’ “è”.
Così il rigore dell’aletheia è salvo, e il fenomeno spiegato in quanto fenomeno, con la chiara consapevolezza dell’errore (tanto che tale spiegazione è superiore ad ogni altra) – errore che è appunto quello della conoscenza umana” *13)

Dunque l’inversione di senso che già allora condizionava la vita degli uomini, che già allora si costituiva come il vulnus della vita sociale, e che è riconducibile ad una alterazione del significato autentico delle cose conseguente alla diffusione e alla affermazione di un Logos falsato e falsante (e vedremo il ruolo fondamentale che in questo ha avuto la diffusione della scrittura e la conseguente perdita dell’esperienza) – si può ripristinare, come Anassimandro, Eraclito e Parmenide auspicavano, dando alle cose il loro significato autentico: essere in comune con il comune Logos della natura. E dunque non è la morte che leva il senso alla vita, ma è la vita stessa nella forma della natura fuori misura ( o dell’uomo che va contro la “sua natura”) che lo perde andando oltre il suo limite, e in questo modo portandosi oltre se stessa e non avendo più niente in comune col Tutto: dentro al quale limite la morte la riconduce, ridandole il senso originario.
Questo è un passaggio di fondamentale importanza: Eraclito e Parmenide (e probabilmente anche Anassimandro, ma non abbiamo testimonianze o frammenti che lo confermino) pensavano che si potesse invertire il cammino, cioè che l’uomo potesse in un certo senso “rinsavire”, e tornando sui propri passi, tornare a vivere, cioè a pensare, in comunione con il Tutto. Ma questo per loro era possibile perché essi pensavano che fosse stato l’uomo, con le sue forze, e cioè soprattutto con le sue parole alterate, a portarsi fuori dalla natura, ad andare contro la sua natura. Cioè essi pensavano (ancora) che l’uomo fosse artefice del proprio destino (potendo tornare entro i limiti della propria natura), e non un suo strumento, una sua necessità – una sua forma.
Il passaggio successivo è già iscritto in questa forma, e svela l’inversione di senso più grave e importante,  quella che i Sapienti non potevano immaginare, e che ancora oggi non viene detta.
Che il cammino dell’Essere (della Natura) Senza Misura conduca verso il superamento della morte è infatti ormai fuor di dubbio: è solo questione di tempo. E se per qualche accidente non riusciremo a compierlo noi, ci riuscirà qualcun’altro, o (com’è probabile) qualcun’altro c’è già riuscito. Quando la morte non potrà più svolgere il suo compito di Giustizia, quale altra forma di giustizia potrà salvare l’equilibrio dell’universo? Quella dell’uomo che, oltrepassando i limiti della sua natura stessa (come è nella sua natura di fare!) e impedendo a quella stessa natura di porvi rimedio, si è posto al di sopra di essa, diventando  in questo modo un dio – ma un dio diventato tale per soddisfare la sua inesauribile ambizione?
Ecco dunque l’inversione in atto, ma ancora indicibile: perché Dio (il dio che noi già siamo)  non è il creatore dell’Universo, ma colui che vi porrà termine. E tutta la nostra storia alla fine dell’Età della Cultura si potrà raccontare parlando del passaggio dal Dio che eravamo, di cui Nietzsche certificò la morte, avvenuta però già ai tempi di Socrate, al Dio che saremo. E da sempre, infatti  il destino dell’universo viene risolto nelle lotte tra Dei, da quando Zeus uccise suo padre Urano.
E così aveva ragione Marco Aurelio, ma per motivi diversi e anzi opposti a quelli che lui considerava: non è la morte che tutto toglie, e non è la causa della assenza di ciò la cui presenza ci renderebbe felici. E’, al contrario, ciò che costituendosi come limite, dà senso a quello che contiene. Cioè: la morte contiene la vita, e in questo modo le dà senso e dà senso alla contraddizione: perché la morte ci toglie il prsente, e il presente è l’atto della vita; ma nel contenerla essa la con-tiene (tiene insieme) cioè contiene tutto il succedersi dei giorni. Che altrimenti si perderebbero nel nulla.
Rimane, per noi, esseri che seguendo la propria natura aspirano a superarla, laddove nel caso specifico dell’Io che pone se stesso e nello stesso tempo pone il suo opposto, superarsi significa voler essere soggetto e oggetto nello stesso tempo –  il fatto tragico della vita, che è la concretazione, l’esperimento di questa contraddizione. Alla quale non possiamo sfuggire, perché la nostra natura (fuori misura) è di costituirci come Io in opposizione all’universo del non-Io, cioè di costituirci come opposizione, e non come comunione.
E tutta la nostra vita, se siamo esseri consapevoli, altro non è che una preparazione a quello che è rimasto l’unico autentico evento di cui possiamo fare esperienza:

Dico, prego: sia grazia essere qui,
grazia anche l’implorare a mani giunte,
stare a labbra serrate, ad occhi bassi,
come chi aspetta la sentenza.
Sia grazia essere qui,
nel giusto della vita,
nell’opera del mondo, sia così.
*14)

E ancora:

O vento che commemori passate
moltitudini e fasti inceneriti,
o tempo contro cui non c’è riparo:
mi riduco al silenzio, nell’attesa
purissima dell’ombra che già stende
sui vivi un lembo della notte eterna.
Forse è quest’ombra tragica sospesa
sul ciglio della notte che fa illusi
gli uomini di conoscersi e di amarsi,
naufraghi nel silenzio dei millenni.
*15)

L’Atlante che qui si presenta e che (per sua stessa natura) non può che rimenere progetto, e dunque mai realizzarsi in quanto oggetto concluso, serve a tracciare i confini del territorio dell’assenza, che attraverso la poesia viene sempre evocata: l’assenza di tutto quello che abbiamo perduto, e che ogni giorno nuovamente perdiamo, perché di ogni giorno perduto è fatto il nostro presente.
E’ attraverso questo gioco di vocali: essenza/assenza,  che la contraddizione radicale si palesa, svelando l’unicità dell’essere che solo in una lieve differenza di tono assume la sua tragicità: l’essenza “è” assenza. Cioè la nostra essenza è l’esperimento della mancanza: siamo il desiderio di ciò che abbiano perso e che non “è” più, neanche in potenza, ma che, in quanto desiderio, in quanto memoria, eterno permane; siamo cioè, letteralmente,  la morte di ciò che era e che poteva essere, dunque la morte della possibilità del Tutto, e insieme la sua testimonianza.
In questo modo trasformiamo la vita in una metafora della morte: viviamo morendo, perché nel vivere ci separiamo dal Tutto, ma vivendone la morte lo manteniamo vivo.
E in questo senso, forse, diceva Eraclito *16), che vita e morte sono la stessa cosa: non perché sono uguali, ma perché sono compresenti: essere vivi qui e ora significa essere nello stesso tempo, cioè nello stesso esperimento della vita, morti per tutto il resto e per sempre. Ma in quanto tali, cioè in quanto morti per esso, di esso, cioè di tutto il resto, e del sempre, pure consapevoli.

Ed è la morte
un verde campo di pioggia
effuso nella sera.
*17)


Il senso del cammino (una presentazione)


Abstract

La morte ci toglie tutto, perché ci toglie, col presente, ciò che siamo, cioè il passato. Dunque errato sembrerebbe il detto di Marco Aurelio che la morte può toglierci solo il presente. Ma non è la morte il fatto tragico, al contrario: essa ridà alla vita il suo senso originario, quello cioè perduto nella fondazione del soggetto. Questa, cioè la vita, è la contraddizione che nessun processo dialettico può risolvere, e dunque, configurandosi come una necessità (cioè la necessità della contraddizione) si rivela come la vera tragedia, di cui solo i poeti possono fare esperienza.


NOTE

*1) Marco Aurelio
I ricordi
Einaudi 1958
Libro secondo, XIV.

Ancorché  ti restasse da vivere tremila anni, ed altrettante diecine di migliaia di anni, ricordati nondimeno che nessuno può perdere altra vita oltre quella che vive; né vive altra vita, se non quella che perde. Confluisce quindi ad uno stesso punto e la vita più lunga e la vita più breve, ché il presente è uguale per tutti, se pure il passato non lo è, e questo rende palese come ciò che l’uomo perde è immensamente piccolo.
Nessuno perderà giammai né il passato né l’avvenire. Infatti, in qual modo sarà possibile levargli quello che non ha? Tu devi quindi rammentarti di queste due cose: la prima, che tutte le cose fin dall’eternità sono uguali, e procedono nella stessa maniera come se fossero chiuse in un cerchio, e che perciò colui il quale le mirasse percento o per duecento anni o per l’eternità, non scorgerebbe nessuna differenza; la seconda, che tanto perde colui il quale muore vecchissimo che colui il quale muore giovanissimo,  perché è soltanto il presente che ci può esser tolto, dato che non viviamo che in questo e che a nessuno è possibile perdere quel che non possiede.

*2)
Seguo l’interpretazione di G.Colli  nel capitolo V del libro La nascita della filosofia,  Adelphi, che appresso si riporta.

Capitolo V, pag. 61
Un racconto antichissimo, testimoniato da più fonti, è il documento fondamentale sul nesso tra sapienza ed enigma. Si tratta di un filone sulla letteratura biografica di Omero, ripreso nel seguente frammento di Aristotele: “… Omero interrogò l’oracolo per sapere chi fossero i suoi genitori e quale la sua patria; e il dio così rispose: “L’isola di Io è patria di tua madre, ed essa ti accoglierà morto; ma tu guardati dall’enigma di giovani uomini”.  Non molto dopo… giunse ad Io. Qui, seduto su uno scoglio, vide dei pescatori che si avvicinavano alla spiaggia e chiese loro se avevano qualcosa. Quelli, poiché non avevano pescato nulla,  ma si spidocchiavano, per la mancanza di pesca, dissero: “Quanto abbiamo preso l’abbiamo lasciato, quanto non abbiamo preso lo portiamo” , alludendo con un enigma al fatto che i pidocchi che avevano preso li avevano uccisi e lasciati cadere, e quelli che non avevano preso li portavano nelle vesti. Omero, non essendo capace di risolvere l’enigma, morì per lo scoramento”.
… La formulazione dell’enigma proposto a Omero è chiaramente contraddittoria, ossia, per usare un’espressione più precisa, due coppie di determinazioni contraddittorie, “abbiamo preso – non abbiamo preso”  e “abbiamo lasciato-portiamo”, vengono congiunte inversamente a quanto la ragione si attenderebbe, cioè inversamente alla formulazione: “quanto abbiamo preso lo portiamo, quanto non abbiamo preso l’abbiamo lasciato”. Ci si ricordi della definizione aristotelica: l’enigma è la formulazione di una impossibilità razionale che esprime tuttavia un oggetto reale. Il sapiente, che domina la ragione, deve sciogliere questo nodo. Perciò l’enigma, quando entra nell’agonismo della sapienza, deve assumere una forma contraddittoria.
Il racconto sulla morte di Omero ci aiuta ad affrontare l’interpretazione di uno dei più oscuri frammenti di Eraclito. Qui è un sapiente che allude all’enigma di cui è stato vittima un altro sapiente. Dice Eraclito: “Rispetto alla conoscenza delle cose manifeste gli uomini vengono ingannati similmente a Omero, che fu più sapiente di tutti quanti i Greci. Lo ingannarono infatti quei giovani che avevano schiacciato pidocchi, quando gli dissero: “Quello che abbiamo visto e preso, lo lasciamo; quello che non abbiamo visto né preso, lo portiamo”. Qui Eraclito tace le premesse e il quadro dell’episodio riguardante Omero, probabilmente perché si trattava di una tradizione assai nota; del pari è passato sotto silenzio il fatto che lo scacco di Omero di fronte all’enigma sia stato la causa della sua morte. Il tono del frammento è sprezzante nei confronti di Omero:  il sapiente sconfitto in una sfida all’intelligenza cessa di essere sapiente.  (…) Ma in questo frammento c’è qualcosa di più che un’allusione a un celebre enigma della tradizione: Eraclito accetta lui stesso il terreno dell’enigma come agonismo, e lancia con le sue parole una nuova sfida alla capacità di comprendere degli uomini. Assumendo come supporto l’enigma omerico, Eraclito enuncia lui stesso un enigma sull’enigma, ossia richiede un’altra soluzione, un’altra chiave, che non consista nei pidocchi, più profonda, più radicale, cui possa alludere quella stessa formulazione dei pescatori.
… Si può supporre anzitutto un collegamento tra le due espressioni “rispetto alla conoscenza delle cose manifeste” e “quello che abbiamo visto e preso”: come Omero  fu ingannato rispetto alle cose viste e prese, cioè ai pidocchi, in quanto non sapeva di che si trattava, così gli uomini sono ingannati rispetto alla conoscenza delle cose manifeste, in quanto non sanno di che si tratta, per esempio perché le credono reali mentre non lo sono. In tal caso la prima parte della formulazione dell’enigma, nell’estensione universale del riferimento eracliteo, suonerebbe come: “le cose manifeste che abbiamo preso, le lasciamo”. Che cosa può significare una tale espressione? Bisogna tener presenti i passi di Eraclito che negano qualsiasi realtà esterna agli oggetti del mondo sensibile: sembrerebbe che appunto di questi si tratti, quando si parla di “cose manifeste”. Ricordiamo i frammenti: “il sole ha la larghezza di un piede umano”,  dove sembra inevitabile pensare a un rifiuto di ogni realtà oggettiva,  alla riduzione di tale oggetto alla semplice apparenza sensoriale; e inoltre: “morte è tutto ciò che vediamo da svegli”.
“Le cose manifeste che abbiamo preso” potrebbe significare allora la loro semplice apprensione sensibile, ciò in cui consiste l’illusoria realtà del mondo che ci circonda, nient’altro che una  serie di sensazioni. Ma perché queste cose manifeste che abbiamo preso, le lasciamo? Forse Eraclito vuol significare che le cose manifeste, corpose, ci traggono in inganno e suscitano l’illusione di esistere fuori di noi e di essere reali, viventi, soprattutto perché noi le immaginiamo come permanenti. Non è che Eraclito critichi le sensazioni. Egli loda anzi la vista e l’udito, ma ciò che condanna è il trasformare l’apprensione sensoriale in qualcosa di stabile, esistente fuori di noi. L’esperienza dei sensi noi l’afferriamo istantaneamente e poi la lasciamo cadere; se vogliamo fissarla, inchiodarla, la falsifichiamo. Questo è il significato dei frammenti che tradizionalmente vengono interpretati a sostegno di una presunta dottrina eraclitea del divenire. Eraclito non crede che il divenire sia più reale dell’essere; crede semplicemente che ogni “opinione è una malattia sacra”, ossia che  ogni elaborazione delle  impressioni sensoriali in un mondo di oggetti permanenti sia illusionistica.  Per questo egli dice per esempio: “nello stesso fiume non è possibile entrare due volte”. Non c’è un fiume fuori di noi,  ma soltanto una figgevole sensazione in noi cui noi diamo il nome di fiume, di uno stesso fiume, quando più volte si presenta a noi una sensazione simile alla prima: ma ogni volta non c’è altro di concreto se non appunto una sensazione istantanea, cui non corrispoinde nulla di oggettivo. Soprattutto, tali sensazioni non documentano nulla di permanente, sebbene siano simili; se vogliamo designare ciascuna di esse con il nome di fiume, possiamo farlo, ma ogni volta si tratterà di un fiume nuovo.
Ritorniamo ora al frammento sull’enigma omerico. Se quello che si è detto può interpretare la prima parte della formulazione dell’enigma, la seconda parte significherà allora nella trasposizione eraclitea, applicando un’antitesi parallela a quella dell’episodio omerico: “le cose nascoste che non abbiamo visto né preso, le portiamo”. Quale può essere lo scioglimento di questa seconda parte? Si può tentare di chiarire  quell’espressione richiamando due temi essenziali del pensiero di Eraclito. Il primo si potrebbe chiamare il “pathos” del nascosto, la tendenza cioè a considerare il fondamento ultimo del mondo come qualcosa di celato. Tale è il concetto della divinità in Eraclito: “l’unità, l’unica sapienza vuole e non vuole essere chiamata con il nome di Zeus”. Il nome di Zeus è accettabile come simbolo, come designazione umana del dio supremo, ma non è accettabile come designazione adeguata, proprio perché il dio supremo è qualcosa di nascosto, inaccessibile.
Ancora più esplicitamente, altri due frammenti dichiarano la superiorità di ciò che è nascosto: “la natura primordiale ama nascondersi”, e “l’armonia nascosta è più forte di quella manifesta”.
Il secondo tema è la rivendicazione mistica di una preminenza dell’interiorità rispetto all’illusoria corposità del mondo esterno. In parecchi frammenti Eraclito sembra addirittura porre l’anima come principio supremo del mondo, e Aristotele conferma questa interpretazione. Tale sembra essere l’allusione del celebre frammento “ho indagato me stesso”; più esplicitamente dice Eraclito: “i confini dell’anima, camminando, non potrai trovarli, pur percorrendo ogni strada: così profonda è la sua espressione”, e inoltre: all’anima appartiene un’espressione che accresce se stessa”.
I due temi suddetti sembrano anzi unificarsi, convergere in un’unica visione fondamentale, per la prospettiva abissale,  nella direzione del nascosto, in cui è posta l’anima. Se ora applichiamo questa tematica alla seconda parte della formulazione dell’enigma omerico, sembra aprirsi la possibilità di uno scioglimento. L’anima, il nascosto, l’unità, la sapienza, sono ciò che non vediamo né prendiamo, ma portiamo entro di noi. Solo la nascosta interiorità è permanente, anzi, nel manifestarsi “accresce se stessa”.

*3) Sul significato di Logos si rimanda alla nota 1 pag. 89 di C. Diano, Eraclito, I frammenti e le testimonianze, Fondazione  Lorenzo Valla/Mondadori, 1980.
Il Logos falsato, cioè “alterato” nella sua forma e dunque “alterante” ciò con cui entra in relazione, rispetto alla sua natura e al suo significato, e quindi il Logos come modo di pensare che altera la realtà, è uno dei temi centrali di questa ricerca, del quale si trova traccia in ogni passo.

* 4) Il venire in presenza dell’Io come opposizione al non-Io, ed il successivo  porre il non-Io da parte dell’Io come sfondo rispetto al quale esistere, questo, che è un processo unico e indivisibile, è stato messo in luce da Fichte, nelle sue celebri lezioni del 1775 a Jena, e costituisce il fondamento dell’idealismo moderno, che da oltre due secoli e con diverse sfumeture informa il pensiero dell’Occidente. Di questo momento fondante sono possibili infatti diverse interpretazioni: in particolare sul ruolo dell’Io nel porre il non-Io rispetto quindi alla natura stessa del non-Io; e viceversa sull’azione svolta dal non-Io nella auto-determinazione dell’Io.
La vicenda culturale di quegli anni è un punto di svolta, uno di quei punti del tempo che assumono quasi consistenza fisica, nei quali la storia prende una direzione piuttosto che l’altra. La discussione e l’approfondimento di questi temi percorre come un fiume l’intero territorio dell’assenza che l’Atlante vuole tracciare.
Qui si dà l’esposizione della dottrina fichtiana fatta dal De Ruggiero nel 1943.
Fichte, De Ruggiero, L’Età del Romanticismo
Laterza, prima edizione Gennaio 1943.

“ 3. Dottrina della scienza, p.
… Il principio del sapere è, per la filosofia tradizionale, quello di identità: A=A. Ma lo si può forse considerare come assolutamente primario? Esso afferma che, se A è dato, deve essere eguale a se stesso, per una intrinseca necessità del pensiero; ma assume ipoteticamente che A sia dato senza darne la prova.
Ora la validità che A sia posto dipende dall’io che lo pone; senza l’identità dell’Io (Io = Io) l’identità logica non si giustifica.
L’una è un’identità data, l’altra è una identità che si pone, e che ponendosi pone anche quella.
Noi  non abbiamo bisogno di risalire a qualche altra cosa per convalidare il porsi dell’Io; esso si convalida da sé.
… Il porsi dell’Io non è dunque un dato inesplicabile,  ma un atto che si compie e si leggittima in quanto si compie: l’Io si pone, ed esiste in virtù di questo suo porsi.  Esso è insieme l’agente e il prodotto dell’azione.
… Le implicazioni di questo fondamentale principio sono immense. Si può dire che tutto l’idealismo post kantiano, anzi, tutto lo spiritualismo moderno, vi sono racchiusi in embrione. Esso sostituisce a una metafisica dell’essere una metafisica dell’azione, che ha in sé la sua norma e la sua misura, mentre l’altra è incapace di giustificare il suo assunto. Porre al principio l’essere significa affermare che tutto è dato e che anche noi stessi siamo dati a noi stessi. Scaturisce di qui una filosofia statica, che si esplica in un continuo regresso da un fatto all’altro più fondamentale su cui riposi, fino a toccare un essere supremo che sia il sostegno comune di tutti. Ed anche giunto ad esso, il bisogno esplicativo del pensiero non si appaga:  ma sente più pungente l’assillo di chiedersi il come e il perché di quell’essere.
… Nella ricerca del fondamento dell’essere noi immaginiamo di apoggiarci, arrestandoci all’essere supremo, a Dio; ma in realtà, più di un ragionato appagamento, il nostro è una rinunzia a pensare.  Se invece persistiamo nel riflettere, la difficoltà ci si ripresenta identica, e vien rimossa solo se riusciamo a realizzare (con Spinoza) che Dio è in quanto si fa da se medesimo, cioè a porre all’inizio non un fatto, ma un atto.
La metafisica dell’atto porta invece in sé la propria giustificazione: l’atto si leggittima producendosi, e ogni spiegazione, in quanto è un’attività che si spiega da esso, è un incremento, un arricchimento dell’atto iniziale.
… Noi abbiamo già, in questa differenza, un primo criterio distintivo tra lo spirito e le cose, o gli esseri nella loro natura definita e irrevocabilmente data.  Le cose sono quel che sono, e noi non possiamo pensarle come modificabili e trasformabili, se non sopravvenga ad esse un’azione; lo spirito invece è ciò che si fa da se stesso, in quanto è un’attività che non trova limite in una cosa o in una natura preesistente, ma, come vedremo, pone da sé il proprio limite e continuamente lo sorpassa.
Tuttavia… secondo la  tradizione scolastica, operari sequitur esse. Ma ponendo che l’attività dipenda dall’essere, la si fa limitata, accidentale, precaria. Pensate le due formule: io sono quel che mi fo,  e io mi fo quel che sono; nella seconda, il farsi, l’attività, è neutralizzata e annullata. Solo la prima formula dà alla mia attività  un campo di esplicazione illimitato. Certo, è difficile pensare a un’attività senza sostegno, e l’ingenita pigrizia della nostra natura cercherà sempre appoggi e puntelli su cui riposare.
Ma la filosofia dello spirito richiede uno sforzo  per capovolgere il comune modo di pensare e per sostituire all’inerte formula: io agisco perche sono, la formula dinamica: io sono perché agisco.
Questo primo atto, dice Fichte, è una scelta; “e la scelta di una filosofia dipende da quel che si è come uomo, perché un sistema filosofico non è  un’inerte suppellettile che si può usare e disusare, ma è animato dallo spirito dell’uomo che l’ha.
Per l’idealismo, l’essere non è che una determinazione dell’atto, il suo estrinsecarsi e fissarsi un una posizione rigida: anzi, poiché l’atto è progressivo e non si esaurisce in una sola determinazione, ma crea una serie di determinazioni e continuamente le sorpassa, non si dà un unico essere, ma una serie di esseri connessi tra loro secondo la legge dell’azione, e formanti un sistema. Le cose del mondo naturale sorgono appunto da un tale agire conforme a legge; esse non sono, come meglio vefdremo, che la sintesi immaginaria dei rapporti necessari immanenti all’agire.
Questa impostazione fichitiana del problema speculativo fondamentale non è una novità senza precenti nella storia del pensiero; essa è l’epilogo e il coronamento di uno sforzo mentale ininterrotto.
L’atto di auto-posizione dell’Io testè illustrato costituisce la prima proposizione fondamentele della Dottrina della Scienza; il suo significato più pieno  può risultare solo in seguito all’esame, che ora intraprtendiamo, della seconda e della terza.
L’Io dunque si pone; se la sua attività si esaurisse in questo porsi, essa sarebbe qualcosa di statico, d’inarticolato, d’immobile, in contraddizione con la sua natura. In realtà, non può esservi attività, né movimento, senza un’opposizione o un urto.  Pertanto l’efficacia del porre è condizionata dall’opporre, l’efficacia dell’affermare dal negare. Di qui la seconda proposizione fondamentale: L’io si oppone un non-Io, perché nient’altro che un non-Io può formare l’opposto dell’Io.
E’ strana  la natura di questa opposizione:  essa scaturisce da un’esaigenza razionale, perché la sua presenza è necessaria per articolare l’attività dell’Io; e nondimeno questa presenza è qualcosa di irrazionale, perché non si lascia dedurre dalla posizione dell’Io, ma sta di fronte ad essa come un urto inesplicabile.
Noi possiamo con egual diritto considerare la filosofia fichtiana come irrazionalistica e come razionalistica; però le due  qualifiche non stanno sullo stesso piano, ma l’irrazionalità è inclusa in una razionalità superiore. Infatti l’opposto non si pone da sé, ma è posto dall’Io come momento necessario nello spiegamento della propria vita. “Esso dunque è possibile solo sotto la condizione  dell’unità del ponente e dell’opponente. Se la coscienza della seconda azione non fosse connessa a quella della prima, il secondo porre non sarebbe un opporre, ma un semplice porre. Invece, solo in riferimento a un porre diviene un opporre”.
Di fronte alla positività del porre, l’opporre è una negatività, cioè, una esigenza dell’Io a ripiegarsi, a riflettersi, a invertire il suo moto espansivo.
Questa funzione è della più grande importanza, perché da essa ha inizio la coscienza,  che non è concepibile se non come coscienza  di qualche cosa, cioè come una distinzione di un altro da sé e insieme come un ritorno a sé.
Lo sdoppiamento dell’ideale e del reale, del conoscere e dell’essere, dipende da questa opposizione che distoglie l’Io dall’irriflessività della sua affermazione immediata e con la sua forza negativa lo definisce e lo limita. Se il primo momento è quello della libertà, cioè dell’autonimi del soggetto che si pone, il secondo è quello della necessità, cioè dell’urto che lo arresta e lo circoscrive, o anche della riflessione, che lo costringe a ritornare su se stesso.
Senza libertà mancherebbe ogni impulso al movimento
senza riflessione il movimento si disperderebbe, come una corrente che ristagna in una sconfinata pianura. La riflessione è appunto l’argine che, contenendo le acque, ne avvia il moto.
La terza proposizione fondamentale è la sintesi delle due precedenti, cioè l’unità della posizione e dell’opposizione, della tesi e dell’antitesi: è il limite dell’Io per mezzo del non-Io o del non-Io per mezzo dell’Io.  La funzione dialettica del secondo momento è intellegibile solo nel terzo: “nessuna antitesi è possibile senza sintesi; infatti l’antitesi consiste in ciò, che nell’identico vien cercando l’opposto; ma gli identici non sarebbero tali senza una azione sintetica che li identifica”.
Ecco dedotta così la prima triade dialettica: posizione, opposizione, limite; io, non-io, definizione o limitazione  dell’uno per l’altro.
…questa dialettica esprime il tema dominante dell’idealismo post-kantiano, e insieme l’spirazione più profonda dello spiritualismo moderno.

*5) Giorgio Colli, Nascita della Filosofia, Adelphi
p.  109
(Le parti in corsivo sono di commento)


9. Filosofia come letteratura
Attraverso l’intrecciarsi della sfera retorica con quella dialettica, e soprattutto attraverso il graduale imporsi della scrittura in senso letterario, va modificandosi, parallelamente, la struttura della ragione, del “logos”.
Con i discorsi pubblici, di cui la scrittura è un aspetto, si mette in moto una falsificazione radicale, perché viene trasformato in spettacolo ciò che non potrebbe essere staccato dai soggetti che l’hanno costituito. Nella discussione dialettica, non solo le astrazioni, ma anche le parole stesse del logos autentico alludono a vicende dell’animo, che si afferrano solo col parteciparvi, in una mescolanza che non si può dividere (cioè in una esperienza).
Nello scritto l’esperienza,  (Colli dice “l’interiorità” ma secondo me “l’esperienza” è più esatto) va perduta.
Si è visto che in Gorgia la dialettica accenna, almeno parzialmente,  a diventare letteratura. Ma è solo con Platone che il fenomeno si dichiara apertamente. Questo è un grande evento, e non soltanto nell’ambito del pensiero greco. Platone inventò il dialogo come letteratura, come un particolare tipo di dialettica scritta, di retorica scritta,  che presenta in un quadro narrativo i contenuti di discussioni immaginarie a un pubblico indifferenziato. Questo nuovo genere letterario viene da Platone stesso chiamato con il nome nuovo di “filosofia”. Dopo Platone questa forma scritta resterà acquisita, e anche se il genere letterario del dialogo si trasformerà nel genere del trattato, in ogni caso continuerà a chiamarsi filosofia l’esposizione scritta di temi astratti  e razionali, magari estesi, dopo la confluenza con la retorica, a contenuti  morali e politici. E così sino ai nostri giorni, al punto che oggi, quando si ricerca l’origine della filosofia, è estremamente difficile immaginare le condizioni “preletterarie” del pensiero, valide in una sfera di comunicazione soltanto orale, quelle condizioni che ci hanno indotto a distinguere un’età della sapienza come origine della filosofia.
D’altra parte è lo stesso Platone che ci rende possibile il tentativo di una tale ricostruzione. Senza di lui, che pure è stato l’autore di un rivolgimento così fatale e defnitivo, sarebbe assai difficile avvertire il distacco da quell’età dei sapienti e attribuire al pensiero arcaico dei Greci un importanza maggiore di quella di una balbettante anticipazione. I moderni si sono di solito accontentati di quest’ultima prospettiva, nonostante la significativa e limpida anticipazione di  Platone quando chiama la propria letteratura “filosofia”, contrapponendola alla precedente “sofia”. Su questo punto non ci sono dubbi: a più riprese Platone designa l’epoca di Eraclito, di Parmenide e di Empedocle come l’ “età dei sapienti” , di fronte a cui egli presenta se stesso soltanto come un filosofo, cioè come un amante della sapienza, uno cioè che la sapienza non la possiede.
Oltre a ciò, e in riferimento preciso  al valore della scrittura, ci sono due passi fondamentali in Platone, la cui importanza è decisiva ai fini di una interpretazione generale del suo pensiero e della sua posizione nella cultura greca.
Il primo è il mito raccontato nel Fedro sull’invenzione della scittura da parte del dio egizianoTheuth, e sul dono di essa, destinatio agli uomini, che Theuth fa al faraone Thamus. Theuth magnifica i pregi della sua invenzione, ma il faraone ribatte che la scrittura è sì uno strumento di rammemorazione, ma puramente estrinseco,  e che persino rispetto alla memoria, intesa come capacità interiore, la scrittura risulterà dannosa. Quanto alla sapienza, la scrittura la fornirà apparente, non già veritiera. E Platone commenta il mito accusando di ingenuità chiunque pensi di tramandare per iscritto una conoscenza e un’arte, quasi che i caratteri della scrittura avessero la capacità di produrre qualcosa di solido.
Si può credere che gli scritti siano animati dal pensiero: ma se qualcuno rivolge loro la parola per chiarire il loro significato, essi esprimeranno sempre una cosa sola, sempre la stessa.

(Si può intuire da questo passaggio di che natura doveva essere il pensiero preletterario. Quello che per noi rappresenta il luogo della verità incontestabile, perché scritta appunto, per il preletterario Platone è pretesa assurda di immobilizzare  il pensiero – entità vivente – in una forma bloccata e non suscettibile di evoluzioni. Che non può riuscire a rendere l’esperienza che ha sucitato lo scritto e dunque a trasmetterne la conoscenza, perché dalle parole non può venire “qualcosa di solido”. Noi riusciamo a costruire una catena consequenziale di pensieri attraverso il lavoro sul testo, cioè riusciamo a conseguire degli avanzamenti logici solo grazie alla possibilità di fissare le varie evoluzioni del pensiero con la scrittura, e da queste muovere per i successivi avanzamenti. In una fase preletteraria evidentemente tale capacità era tutta mentale. Coloro che non conoscevano la scrittura avevano cioè la capacità di tenere in mente ogni singolo passaggio del ragionamento, che utilizzavano per conseguire  dei progressi nel discorso. Si pensi ai dialoghi di Platone. Nessuno sarebbe oggi in grado di svolgere un ragionamento come quelli per esempio svolti da Socrate nel Teeteto o nel Sofista, senza almeno una traccia scritta. Una mente che aveva la capacità di tenere accese e vive tante e così complesse connessioni, quali alte e per noi inimmaginabili capacita di percezione, di sentire doveva avere?)

Il secondo passo è contenuto nella Settima Lettera. Parlando della propria vita e delle esperienze dolorose vissute alla corte del tiranno di Siracusa, Platone racconta che Dioniso II aveva preteso di divulgare in un suo scritto la presunta dottrina segreta platonica. Sulla base di questo episodio, Platone contesta in linea generale alla scrittura la possibilità di esprimere un pensiero serio, e dice letteralmente:  “nessun uomo di senno oserà affidare i suoi pensieri filosofici ai discorsi, e per di più a discorsi immobili, come è il caso di quelli scritti con lettere”. Ancora più solennemente ribadisce poco oltre, ricorrendo a una citazione omerica: “Perciò appunto ogni persona seria si guarda bene dallo scrivere di cose serie per non esporle alla malevolenza e alla incomprensione degli uomini.
In una parola, dopo quanto si è detto, quando si vedono opere scritte di qualcuno, siano le leggi di un legislatore,  o scritti di altro genere, si deve concludere che queste cose scritte non erano per l’autore la cosa più seria,  se questi è veramente serio,  e che queste cose più serie riposano nella sua parte più bella; ma se veramente costui pone per iscritto ciò che è frutto delle sue riflessioni, allora “è certo che” non gli dei, ma i mortali “gli hanno tolto il senno”.Gli interpreti moderni non hanno tenuto nel dovuto conto questi due passi platonici. Si tratta di dichiarazioni stupefacenti e sembra inevitabile trarne la conclusione che tutto il Platone a noi noto, cioè il complesso di opere scritte che sono i suoi dialoghi, e su cui si sono basati sinora ogni interpretazione di questo filosofo e tutto l’enorme influsso da lui esercitato sul pensiero occidentale, tutto ciò insomma non era nulla di serio, secondo il giudizio di chi l’aveva scritto. Ma allora tutta la filosofia posteriore, a cominciare da Aristotele, in quanto presuppone più o meno direttamente una conoscenza e una discussione degli scritti platonici, sarebbe anchessa qualcosa di non serio? Questo almeno è il giudizio anticipato su di essa da parte di Platone,  dato che tutta la filosofia posteriore sarà qualcosa di scritto.

(Platone in realtà vuole esprimere il suo giudizio sulla rovina del suo tempo, la dialettica sofistica, riaffermando il valore dell’esperienza contro a quello della realtà virtuale inventata dai sofisti per mezzo delle parole, dette o scritte che siano. Nel senso che dal momento in cui l’esperienza diventa rappresentazione, racconto, e non più appunto esperimento, che sia detta o scritta cambia poco: rimane comunque cosa altra, di cui non si può fare conoscenza).

Per il nostro presente scopo restano comunque due cose da osservare: anzitutto che una interpretazione generale di Platone non può prescindere da quanto si è detto,  e in secodno luogo che l’età dei sapienti va contrapposta, e in qualche modo merita di essere messa più in alto, rispetto all’età dei filosofi.
Nel periodo ateniese che segna il passaggio dall’una all’altra epoca, il personaggio di Socrate appartiene più al passato che al futuro. Nietzsche ha considerato Socrate come l’iniziatore della decadenza greca. Ma bisogna obiettargli che tale decadenza aveva già preso inizio prima di Socrate, e inoltre che costui è un decadente non a causa della sua dialettica, ma al contrario perché nella sua dialettica l’elemento morale va affermandosi a scapito di quello puramente teoretico. Socrate è invece  ancora un sapiente per la sua vita, per il suo atteggiamento di fronte alla conscenza. Il fatto che non abbia lasciato nulla di scritto non è qualcosa di eccezionale, di consono alla stranezza e all’anomalia del suo personaggio, come si pensa tradizionalmente, ma è per contro proprio quello che ci ci può attendere da un sapiente greco.
Platone dal canto suo è dominato dal demone letterario, legato al filone retorico,  e da una disposizione artistica che si sovrappone all’ideale del sapiente. Egli critica la scrittura, critica l’arte,  ma il suo istinto più forte è stato quello del letterato, del drammaturgo. La tradizione dialettica gli offre semplicemente il materiale da plasmare. E neppure vanno dimenticate le sue ambizioni politiche, qualcosa che i sapienti non avevano conosciuto.
Dall’impasto di queste doti e di questi istinti sorge la creatura nuova, la filosofia. L’istinto drammatico di Platone gli fa attraversare,  come personaggi con cui di volta in volta egli si immedesima, molte intuizioni totali, esclusive, talora addirittura antitetiche tra loro, della vita, del mondo, del comportamento dell’uomo.
La filosofia sorge da una disposizione retorica accoppiata ad un addestramento dialettico, da uno stimolo agonistico incerto sulla direzione da prendere, dal primo presentarsi di una frattura interiore nell’uomo di pensiero, in cui si insinua l’ambizione velleitaria alla potenza mondana, e infine da un talento artistico di grande livello, che si scarica deviando tumultuoso e tracotante nell’invenzione di un nuovo genere letterario.
… Così nasce la filosofia, creatura troppo composita e mediata per racchiudere in se nuove possibilità di vita ascendente. Le spegne la scrittura, essenziale a questa nascita. E l’emozionalità, a un tempo dialettica e retorica, che ancora vibra in Platone, è destinata a disseccarsi in un breve volgere di tempo,  a sedimentarsi e cristallizzarsi nello spirito sistematico.
Abbiamo inteso  in senso stretto di dare un quadro della nascita della filosofia. Nel momento stesso in cui la filosofia nasce, noi qui l’abbandoniamo. Ma quello che ci premeva di suggerire è che quanto precede la filosofia,  il tronco per cui la tradizione usa il nome di “sapienza” e da cui esce questo virgulto presto intristito, è  per noi,  remotissimi discendenti –  secondo una paradossale inversione dei tempi –  più vitale della filosofia stessa.

*6) Andrè Leroi Gourhan, Il gesto e la parola, Einaudi, 1977,.
Vol. I, pp. 32-44

*7) Andrè Leroi Gourhan citato, capitolo II
Il testo del Leroi Gourhan è costituito da due volumi, Tecnica e linguaggio e  La memoria e i ritmi, pubblicati rispettivamente nel ‘64 e ’65, e in Italia da Einaudi nel 1977. Rimane uno strumento imprescindibile per qualsiasi studio umanistico che abbia pretesa di essere fondato, nel senso che serve a riportare letteralmente a terra ogni tentativo del pensiero di trovare/costruire un senso al proprio esistere.
Sul sito
www.camillolentini.it è possibile leggere ampi stralci del secondo capitolo.  La considerazione che si può trarre dalla loro lettura, invero faticosa anche a causa di una traduzione non sempre all’altezza, è, semplificando, la seguente: lo sviluppo del cervello umano è l’esito di una serie di modificazioni succedutesi nel corso di diverse decine di milioni di anni. L’Io che pone se stesso è un risultato. Non può essere, dunque, un inizio. Questo è uno degli errori fondamentali del pensiero: considerare l’uomo come “appena arrivato”, come un inizio. E’ vero che è appena arrivato, ma dopo aver compiuto un cammino di 150 milioni di anni. E in tutto questo tempo, non solo la realtà (physis) esisteva prima che l’io ponesse se stesso, e dunque la “creasse” per opposizione; ma al contrario era la realtà stessa, cioè la natura, attraverso millimetriche modificazioni del tal osso della mandibola o della posizione del cranio nell’attacco con la spina dorsale, acquisite attraverso migliaia e migliaia di generazioni, a creare l’uomo.


*8) F. Nietzsche, La gaia scienza, Adelphi, Libro terzo, frammento 124,  Nell’orizzonte dell’infinito.

Nietzsche ritorna su questo argomento nella Gaia scienza innumerevoli volte; ma invero questo è uno dei temi che percorrono la sua intera opera, già dagli inizi, a cominciare dal Dramma musicale greco, laddove parlava della nostra incapacità di concepire e cogliere un’arte totale, come era la tragedia greca, in cui cioè le diverse antenne dei sensi ci portano informazioni diverse contemporaneamente. La perdita del vecchio mondo, che corrisponde alla “morte del vecchio Dio”,  lascia l’uomo senza alcun appiglio possibile, Dio essendo appunto questo: un rimedio contro la perdità del tutto, cioè contro la perdita di sé. E, soprattutto, l’illusione di poterci tornare, nel mondo com’era prima, e di potersi ritrovare. Tale consapevolezza, e la malinconia soffusa che ne deriva, e che anch’essa pervade l’intera opera di Nietzsche, non impedisce però all’autore di essere categorico rispetto alle origini e alle responsabilità di tale perdita: a cominciare dai sofisti e da Socrate.

*9) Angelo Pasquinelli, I presocratici, Frammenti e testimonianze, Einaudi, 1958,  pag. 44.
Si riporta parzialmente la nota di commento al frammento (n.19):

“Malgrado l’esiguità e l’incertezza dei framenti del filosofo e la vaghezza della tradizione dossografica, non si deve sottovalutare l’importanza di questa prima testimonianza di una rilevante personalità filosofica nel mondo della civiltà occidentale. E’ nota la suggestione profonda che le parole di Anassimandro hanno esercitato sugli interpreti moderni, primo fra tutti Nietzsche. L’allelois mancante nell’edizione aldina aveva fatto cadere l’accento sul riassorbimento nell’apeiron degli esseri, come pena dell’ingiustizia da essi commessa individuandosi, e la sua restituzione ha decisamente mutato le prospettive interpretative, volgendole sui problemi, spesso posti con troppa insistenza,  dell’applicazione dei concetti giuridici ai fenomeni cosmici. Vediamo ora  di precisare il significato del fr. con l’aiuto delle notizie dei dossografi. Sappiamo che l’apeiron non è per Anassimandro solo un inizio, uno stadio originario della realtà: oltre a costituire il dato primordiale da cui si origina tutto il resto, esso continua ad essere l’elemento divino (theion) che guida e regge il tutto, e nel cui seno ha luogo il processo della formazione e della distruzione dei mondi.  E’ quindi la realtà più vera, inattingibile dai processi  di generazione e corruzione, che sprigiona anzi da se stessa la forza vitale che crea i mondi e gli esseri, stretti tra i due termini ineluttabili di nascita e morte. Esso non ha limite, e cioè niente che lo preceda nel tempo, che lo determini o lo costringa in uno spazio limitato, ma contiene tutto in sé. Ed è al di fuori del tempo,  di quella legge necessaria per cui nascita significa anche invecchiamento e morte. La necessità anzi trae la sua ragion d’essere nell’apeiron. La ragione per cui tra le molte interpretazioni della “natura” dell’apeiron non ce n’è nessuna di cui si possa oggettivamente dire abbia risolto in modo soddisfacente la questione (l’apeiron come materia indeterminata, come sostanza intermedia ecc.) è che l’impostazione stessa di tale problema è errata. Da Aristotele in poi ci si domanda quale “sostanza” Anassimandro intendesse indicare col suoi apeiron, o meglio quale “sostanza” si possa indicare con il principio anassimandreo.
Ora, per quel che ci è dato di sapere o di supporre, il problema filosofico si presentava in modo del tutto diverso agli occhi di quei primi pensatori. E’ noto che la loro sistemazione dell’universo (indagini e conoscenze astronimiche e geografiche, spiegazioni di fenomeni, intuizioni della realtà del mondo, della sua formazione, della forza che l’ha prodotta) rispondeva anche ad esigenze di carattere pratico, o meglio si sviluppava in una sfera del dominio della realtà che non conosceva ancora distinzioni nette tra interessi pratici e interessi teorici, per cui ogni ricerca concreta era già nell’atto stesso anche ricerca dell’essenziale. Per questo in  un certo senso anche le loro spiegazioni di  fenomeni particolari hanno un valore “filosofico”, un intento metafisico; appunto perché cercano di penetrare l’essenza del molteplice fenomeno della vita, pur essendo questo tentativo, nello stesso tempo, la ricerca di una “chiave” per dominare la realtà, anche nel significato più ristretto. Alcuni di tali fenomeni assumono ai loro occhi un senso più essenziale, introducono nei segreti più intimi dell’essere, ad afferrarne il nucleo vitale, divino, origine e fondamento di tutta quanta la realtà. Talete credeva essenziale l’acqua (e nella sua fluidità si celava forse quel carattere di indeterminatezza decisamente espresso nell’apeiron); per Anassimandro essa era già un derivato dell’essere assoluto. Ma evidentemente non perché si fosse domandato quale elemento, meglio dell’acqua, potesse servirgli come base per l’unificazione dei  dati molteplici della realtà; ma piuttosto perché nella sua intuizione del mondo l’acqua non rispondeva più a quel carattere di essenza delle cose e faceva già parte di quel regno del limite che presupponeva appunto un “illimitato” che lo contenesse. L’apeiron racchiude nel suo seno tutta la realtà in virtù della sua indeterminatezza (“dell’illimitato non vi è principio, altrimenti avrebbe un limite…” A12  – Aristotele, Phis. ): questo è il carattere che Anassimandro è riuscito a fissare della sua  intuizione della realtà, escludendo la rappresentazione del limite anche dal nome stesso del suo principio, a-peiron. Non dobbiamo tuttavia pensare ad un procedimento simile a quello della “teologia negativa”, ad una specie di purificazione progressiva dell’essere da tutti gli attributi di determinazione. Il carattere di superiorità dell’illimitato rispetto a tutti gli oggetti determinati (cfr. a questo proposito Gigon, op. cit. 61 sgg), la sua costante presenza divina, limite e fonte di ogni processo,  è un’intuizione originaria,  nata da quest’intento di racchiudere la realtà in un’unica visione organica. Sarebbe falso voler porre l’accento sul carattere monistico di quest’interpretazione della realtà: in virtù della sua indeterminatezza, l’apeiron si sottrae alle categorie  dell’unità e della molteplicità – anche se Anassimandro non si rappresentava la cosa in questa forma astratta. Esso è la realtà una e molteplice allo stesso tempo: è tipica per questo l’insistenza delle fonti dossografiche sul fatto che i contrari sono già “esistenti”  nell’apeiron, che esso, eterno generatore del caldo e del freddo, si scinde nei due contrari, e nello stesso tempo la difficoltà a far rientrare in categorie astratte questa indifferenziazione tra uno e molti colta dal filosofo per un processo intuitivo.
Malgrado la forza di astrazione in esso racchiusa, l’apeiron anassimandreo manifesta la propria natura intuitiva: esso guida e sostiene il tutto, è il grembo fecondo in cui le cose nascono e in cui tornano a espiare la loro pena una volta compiuto il loro corso. Esso rientra in una concezione religiosa del mondo e ne è l’espressione: anche se le fonti non ci attestassero per l’apeiron gli attributi della divinità (in maggior misura e con maggior insistenza che per l’acqua di Talete), ciò risulterebbe evidente dall’innegabile tono escatologico del nostro frammento. E’ da notare a questo proposito come in Anassimandro non vi sia ancora alcuna distinzione, almeno consapevole, tra mondo della doxa e mondo dell’aletheia, tanto che tutti i fenomeni sono visti in rapporto continuo alla loro essenza. L’apeiron, abbiamo visto,  si scinde nei due contrari, caldo e freddo, e da questa scissione derivano i mondi e gli esseri, che tornano poi a dissolversi in esso, rendendo giustizia l’un l’altro dell’ingiustizia commessa.  La nascita di una cosa è intimamente legata alla morte, ogni essere ha in sé il destino della distruzione dell’altro e di se stesso, segno e condanna dell’ingiustizia insita nel processo della generazione (“Una volta nati vogliono vivere ed aver destino di morte, e lasciano figli perché nuove morti si generino” dice Eraclito). La transitorietà delle cose è vista qui come una vicenda cosmica di ingiustizia e di riparazione, in contrasto con la perfezione dell’illimitato, fonte e giudice inesorabile di questo processo.”

*10) Riporto l’ordine e la traduzione di Carlo Diano (Eraclito, I Frammenti e le Testimonianze, Fondazione Valla/Mondadori, 1980). I frammenti citati sono i seguenti: 1, 6, 7, 8, 9, 13, 37, 45, 66, 75, 76, 82, 86, 87, 88, 89, 105, 108, 116, 117.
Diano  traduce “Logos” con “Discorso”, e in nota si dà ampia ed  esaustiva lezione della fondatezza di tale lettura. Qui tuttavia mantengo il termine greco perché in esso è contenuto il senso del tenere unito, tenere insieme, collegare, che la parola greca anche esprime , ma che nella parola  “Discorso” non risuona.

*11) Pasquinelli (citato) p. 56.
Scrive lo stesso in nota: “Traduco qui Logos con “natura” nel senso di intima struttura”.

*12) Pasquinelli (citato) p. 228

*13) La “conoscenza come errore” è un altro dei dei temi fondamentali del pensiero e del lavoro di Nietzsche, che lo accompagnerà per l’intero suo cammino, da Umano troppo umano alla Gaia Scienza e a Zarathustra. Qui si riportano quattro aforismi importanti che segnano l’inizio del Terzo libro della Gaia Scienza, che inseme al Quarto Libro costituisce il cuore non solo del libro ma dell’intera sua opera.

109. Stiamo all’erta!
Guardiamoci dal pensare che il mondo sia un essere vivente. In che senso dovrebbe svilupparsi? Di che si nutrirebbe? Come potrebbe crescere e aumentare? Sappiamo già a stento che cos’è l’organico: e dovremmo reinterpretare quel che è indicibilmente derivato, tardivo, raro, casuale, percepito da noi soltanto sulla crosta terrestre, come un essere sostanziale, universale, eterno,  come fanno coloro che chiamano l’universo un organismo? Di fronte a ciò sento disgusto.
Guardiamoci bene dal credere che l’universo sia una macchina: non è certo costruito per un fine: gli rendiamo un onore troppo alto con la parola “macchina”. Guardiamoci dal supporre esistente universalmente e in ogni luogo qualcosa di così formalmente compiuto come i movimenti ciclici delle stelle nostre vicine: basta uno sguardo alla via lattea per domandarci se non esistano movimenti molto più imperfetti e contrastanti, come pure stelle con eterne traiettorie rettilinee di caduta o altre cose del genere. L’ordine astrale in cui viviamo è un’eccezione; quest’ordine,  e la considerevole durata, di cui è la condizione, hanno reso a loro volta possibile l’eccezione delle eccezioni: la formazione dell’organico. Il carattere complessivo del mondo è invece caos per tutta l’eternità, non nel senso di un difetto di necessità, ma di un difetto di ordine, articolazione, forma, bellezza, sapienza, e di tutto quanto sia espressione delle nostre estetiche nature umane.
A giudicare dal punto di vista della nostra ragione, i colpi mancati sono di gran lunga la regola, le eccezioni non sono i fini segreti e l’intero congegno sonoro ripete eternamente il suo motivo che non potrà mai dirsi una melodia – e, infine, anche la stessa espressione “colpo mancato” è un’umanizzazione che include in sé un biasaimo. Ma come potremmo biasimare o lodare il tutto? Guardiamoci dall’attribuirgli assenza di sensibilità e di ragione, ovvero il loro opposto: l’universo non è perfetto, né bello, né nobile e non vuol diventare nulla di tutto questo, non mira assolutamente ad imitare l’uomo! Non è assolutamente toccato da nessuno dei nostri giudizi estetici e morali!Non ha neppure un istinto di autoconservazione e tanto meno istinti in generale: non conosce neppure leggi. Guardiamoci dal dire che esistono leggi della natura. Non vi sono che necessità: e allora non c’è nessuno che comanda, nessuno che presta obbedienza, nessuno che trasgredisce. Se sapete che non esistono scopi, sapete anche che non esiste il caso: perché soltanto accanto ad un mondo di scopi la parola “caso” ha senso. Guardiamoci dal dire che morte sarebbe quel che si contrappone alla vita. Il vivente è soltanto una varietà dell’inanimato e una varietà alquanto rara. – Guardiamoci dal pensare che il mondo crei eternamente qualcosa di nuovo. Non esistono sostanze eternamente durature: la materia è un errore, né più né meno del dio degli Eleati. Ma quando la finiremo di star corcospetti e in guardia! Quando sarà che tutte queste ombre di dio non ci offuscheranno più? Quando avremo del tutto sdivinizzato la natura! Quando potremo iniziare a naturalizzare noi uomini, insieme alla pura natura, nuovamente rutrovata, nuovamente redenta!

110. Origine della conoscenza.
Per immensi periodi di tempo, l’intelletto non ha prodotto altro che errori: alcuni di questi si dimostrarono utili e atti alla conservazione della specie: chi s’imbattè in essi, o li ricevette in eredità, combattè con maggior fortuna la sua battaglia per se stesso e per la sua prole.
Tali articoli di fede, che furono sempre ulteriormente tramandati e divennero infine quasi il contenuto specificoo e basilare dell’umanità, sono per esempio questi: che esistano cose durevoli,  che esistano cose uguali,  che esistano cose, materie, corpi,  che una cosa sia quel che appare, che il nostro volere sia libero,  che quanto è per me bene lo sia anche in sé e per sé. Solo molto tardi apparve chi negò e mise in dubbio tali proprosizioni – solo molto tardi si fece innanzi la verità, come la forma più depotenziata della conoscenza.
Pare che con essa non si fosse più in grado di vivere, il nostro organismo era strutturato per il suo opposto; tutte le sue più elevate funzioni, le percezioni dei sensi e in generale ogni specie di sensazione collaboravano con quei primordiali errori di fondo che erano stai incorporati. Non solo: quelle proposizioni divennero, anche all’interno della conoscenza, norme secondo le quali si misurava il “vero” e il “non vero” – fin nelle più lontane regioni della logica pura. Cosicché la forza delle conoscenze non sta nel loro grado di verità, bensì nella loro età,  nel loro essere incorporate,  nel loro carattere di condizione di vita.
Laddove vita e conoscenza sembravano venire in contraddizione l’una con l’altra, non si dette mai seriamente battaglia; a quel punto negazione e dubbio erano ritenuti assurdità. Quei pensatori d’eccezione, come gli Eleati, che tuttavia perseveravano nel sostenere i principi opposti agli errori naturali, credettero che fossa anche possiblie vivere quest’opposto: così inventarono il saggio, l’uomo dall’intuizione immutabile, impersonale, unversale, uno e tutto al tempo stesso, con una facoltà sua particolare

per quella conoscenza rovesciata; erano indotti a credere che la loro conoscenza fosse insieme il principio della vita.  Per poter asserire tutto questo dovettero illudersi sul loro proprio stato: dovettero erroneamente attribuirsi l’impersonalità e la permanenza senza variazioni, fraintendere la natura dell’uomo della conoscenza, negare il potere degli istinti nella conoscenza,  e concepire in generale la ragione come attività pienamente libera scaturita da se stessa; non vollero  vedere che già loro erano giunti alle loro formulazioni sia contraddiccendo quel che è valido sia per desiderio di quiete o di possesso esclusivo, o di dominio.
La più raffinata evoluzione della rettitudine e della scepsi rese infini impossibile anche l’esistenza di questi uomini; anche la loro vita e i loro giudizi mostrarono la loro dipendenza dagli istinti primordiali e dai basilari errori di ogni esistenza sensibile. – Quella più raffinata rettitudine e scepsi trovava la sua origine ovunque due opposti principi apparivano applicabili alla vita, poiché l’uno e l’altro si armonizzavano con gli errori di fondo; cioè ovunque si poteva disputare sul grado più o meno elevato della loro utilità  per la vita;  e similmente ovunque nuovi princìpi, ancge se effettivamente non utili alla vita, non si mostravano d’altro canto meno nocivi, essendo estrinsecazioni di un intellettuale istinto del gioco, innocenti e felici come tutti i giochi. Gradatamente il cervello umano fu zeppo di siffatti giudizi e convincimenti: così nacque, in questo groviglio, fermento, lotta e brama di potere. Non soltanto utilità e piacere, ma istinti d’ogni specie si schierarono nella battaglia per “le verità”; la battaglia intelletuale divenne un’occupazione, un’attrattiva, una vocazione, un dovere, un merito – la conoscenza e l’aspirazione al vero trovarono finalmente il loro posto nel sistema, come un bisogno tra gli altri bisogni. Da quel momento non solo la credenza e il convincimento, ma anche l’esperimento, la negazione la diffidenza, la contraddizione furono una potenza, tutti gli istinti “malvagi” furono subordinati al conoscere e posti al suo servizio e s’ebbero lo splendore di quel che è permesso, onorato, utile e, in definitiva lo sguardo e l’innocenza del bene. La conoscenza divenne dunque un frammento della vita stessa, e come vita si trasformò in una potenza sempre crescente: finché da ultimo ogni conoscenza e ogni originario errore do fondo vennero in urto tra di loro, entrambi come vita, entrambi come potenza, entrambi nello stesso uomo. Il pensatore: questo è ora l’essere in cui l’istinto della verità e quegli errori utili alla conservazione dell’esistenza si scontrano nella prima battaglia, essendosi dimostrato che anche l’istinto di verità è una potenza intesa alla conservazione della vita.
In rapporto all’importanza di questa battaglia tutto il resto è indifferente: qui si pone il problema ultimo della condizione della vita e si fa il primo tentativo di rispondere con l’esperimento a questo problema. Fino a che punto la verità sopporta di venire assimilata? – questo è il  problema, questo l’esperimento.

111. Origine del logico.
Donde è nata la logica nella testa dell’uomo? Indubbiamente dalla non logica, il regno della quale, originariamente, deve essere stato immenso. Tuttavia innumerevoli esseri che argomentavano in maniera diversa da come oggi argomentiamo noi, perirono: ciò potrebbe essere stato ancora più vero! Chi, per esempio, non ruisciva a trovare abbastanza spesso l’ “uguale”, relativamente alla nutrizione o agli animali a lui ostili, colui che quindi procedeva troppo lento, troppo cauto nella sussunzione,  aveva più scarsa possibilità di sopravvivere di chi invece, in tutto quanto era simile, trovava subito l’uguaglianza. Ma l’inclinazione prevalente a trattare il simile come uguale, unìinclinazione illogica – dato che in sé nulla di uguale esiste – ha creato in principio tutti i fondamenti della logica. Similmente, perché nascesse il concetto di sostanza – che è indispensabile per la logica, anche se ad esso, a rigor di termini, non corrisponde nulla di reale –, non si dovette per lungo tempo né vedere né sentire il permutarsi della cose; gli esseri che non vedevano con precisione avevano  un vantaggio rispetto a coloro che vedevano tutto “allo stato fluido”. In sé e per sé, già ogni grado elevato di cautela nell’argomentare, ogni inclinazione scettica è un grande pericolo per la vita.  Non si sarebbe conservato alcun essere vivente, se non fosse stata coltivata, in modo estremamente vigoroso, l’opposta inclinazione, diretta ad affermare piuttosto che a sospendere il giudizio, a errare e a immaginare piuttosto che a restare in posizione di attesa, ad assentire invece che a negare, a esprimere la propria opinione opinione invece che a essere giusti. – Il decorso dei pensieri e delle deduzioni logiche nel nostro cervello di oggi corrisponde a un processo e a un conflitto di istinti che presi per sé, nella loro singolarità, sono tutti molto illogici e ingiusti; noi esperimentiamo di consueto solo il risultato della lotta, tanto rapido e nascosto si svolge oggi il funzionamento di questo meccanismo primordiale.

112. Causa ed effetto.
Lo chiamiamo “spiegazione”, ma è “descrizione” quello che ci contraddistingue dai gradi più antichi della conoscenza e della scienza. Noi descriviamo meglio; ma spieghiamo tanto poco quanto tutti i nostri predecessori.  Abbiamo  scoperto una molteplice successione, laddove l’uomo ingenuo e il ricercatore delle civiltà più antiche vedevano soltanto due cose: “causa” ed “effetto”, come si diceva;  abbiamo reso perfetta l’immagine del divenire,  ma non siamo approdati oltre l’immagine, dietro l’immagine. 
La serie delle  “cause” ci sta in ogni caso dinnanzi molto più completa; ne deduciamo che questo e quello devono precedere perchè segua quell’altro,  ma con ciò non abbiamo compreso nulla. La qualità, per esempio, in ogni divenire chimico, appare,  sia dopo che prima,  un “miracolo”; allo stesso modo ogni propulsione; nessuno ha “spiegato” l’urto. Come potremmo mai giungere ad una spiegazione! Operiamo, nè più nè meno,  con cose che non esistono, con linee, superfici, corpi, atomi, tempi divisibili, spazi divisibili – come potrebbe anche soltanto essere posssibile una spiegazione, se di tutto noi facciamo per prima cosa una immagine, la nostra immagine! E’ sufficiente considerare la scienza come la più fedele possibile umanizzazione delle cose; impariamo a descrivere sempre più esattamente noi stessi, descrivendo le cose e la loro successione.
Causa ed effetto: probabilmente non è mai esistita una tale dualità – in verità davanti a noi c’è un continuum,  di cui isoliamo un paio di frammenti;  così come percepiamo un movimento sempre soltanto come una serie di punti isolati, quindi, propriamente,  non vediamo, bensì deduciamo.
La repentinità, con cui si mettono in evidenza molti effetti, ci induce in errore: ma è soltanto una repentinità per noi. In questa repentinità dello spazio d’un secondo c’è un’infinita accozzaglia di processi che ci sfuggono. Un intelletto che vedesse causa ed effetto come un continuum, – non, al modo nostro,  come il risultato arbitrario di una divisone e di uno smembramento,  che vedesse il flusso dell’accadere – rigetterebbe il concetto di causa ed effetto e ogni condizionamento.

*14) Mario Luzi,  “Augurio”, Dal fondo delle campagne. Einaudi 1965.
Le note sono tratte dall’apparato critico di Stefano Verdino in Luzi, L’opera poetica,  Mondadori 1998.

E’ il ricordo della madre del poeta, ed è legata alle due poesie immediatamente seguenti: Erba, e Il duro Filamento.
Scrive Luzi nella presentazione del volumetto Einaudi:

“I versi che  raccolgo in questa plaquette  li ho scritti tra il 1956 e il 1960 e sono dunque, per chi avesse interesse a questa  così poco “storica” ricostruzione, da collocarsi tra Onore del vero e Nel magma.
Il tema insistente, in virtù del quale sono stato indotto a isolarli, è dei più elementari. Il confronto, il rapporto, la “questione” tra morte e vita sono infatti connaturali con il poetare stesso, tautologici in qualche modo. Ma in quegli anni mi si riproponevano concitati da trapassi violenti di forme civili,  si associavano alla consapevolezza di trovarsi a una discriminante dei tempi, a un salto della civiltà prodigo di lacerazioni. La morte di mia madre, nel 1959, dette come un crisma di religioso dolore a quell’ordine di pensieri…”
Da Luzi. Leggere e scrivere, M. Luzi e M. Specchio, Nardi, Firenze, 1993:
“Questo titolo, Dal fondo delle campagne, non riuscirei a isolarlo dall’altro titolo che è De profundis, la preghiera che si recita per i morti; il titolo Dal fondo viene da De profundis, ha significato una specie di recessione alla profondità dell’origine ed è appunto legato alla morte di mia madre; quindi è un paesaggio oggettivo, ma è prima ancora un paesaggio umano, morale”.
Da La porta del cielo, conversazioni sul Cristianesimo, Piemme, 1997:
“Io ho sentito la sua morte (della madre) come una seconda nascita. La sua agonia, lunga e dolorosa, fu per me una sorta di incubazione. Fu una esperienza di separazione e lacerazione, ma poi di ritrovamento totale, perché c’è una sorta di riflusso della nostra storia, domestica e familiare, in un momento. Tu senti che questa persona non sarà più distinta da te. E’ il momento in cui tu interiorizzi la persona assente. Non ci sono più due persone distinte e due mondi, ma c’è una compenetrazione interiore.”


AUGURIO

Camera dopo camera la donna
inseguita dalla mattina canta,
quanto dura la lena
strofina i pavimenti,
spande cera. Si leva, canto tumido
di nuova maritata
che genra e governa,
e interrotto da colpi
di spazzole, di panni
penetra tutto l’alveare, introna
l’aria già di primavera.

Ora che tutt’intorno, a ogni balcone,
la donna compie riti
di fecondità e di morte,
versa acqua nei vasi, immerge fiori,
ravvia le lunghe foglie, schianta
i seccumi, libera i buttoni
per il meglio della pioggia,
per il più caldo del sole,
o miei giovani e forti,
miei vecchi un po’ svaniti,
dico, prego: sia grazia essere qui,
grazia anche l’implorare a mani giunte,
stare a labbra serrate, ad occhi bassi
come chi aspetta la sentenza.
Sia grazia essere qui,
nel giusto della vita,
nell’opera del mondo. Sia così.


ERBA

Erba a ciuffi sui cumuli
di terra di riporto
cresciuti in tempi nuovi,
lampi d’erba per tutta la spianata
fin sotto i vecchi casamenti, luce
d’erba all’interno degli androni
dove intrecciano ancora paglia o cucioni
né più né meno come un tempo, suono
d’erba fin nella tromba delle scale.

Se ritorno quaggiù è che ti seguo
dove il filo d’arianna d’una vita
fitta e umile, fitta ed amorevole
come poche, gugliata su gugliata
mi fa toccare molte soglie povere
e ad una di esse trattenere il fiato.

Nel punto in cui più gonfio il mare d’erba
si rompe contro gli steccati, freme,
estua, copre la voce da uscio a uscio
da crocchio a crocchio di lavoratrici
del tuo mancare a questa vita, madre,
oso, guardo tra lampo e lampo d’erba
la casupola che ci tenne uniti
anni e anni che sembrano uno solo.

Case come questa sono ricoveri
o poco più per gente di passaggio,
ma se la madre di famiglia nutre
il fuorco, aggiunge rovere sottile,
la casa di fortuna non più alta
del noce che le dà un po’ d’ombra, scarsa
a contenere il poco che contengono
di più destini quattro mura, basta
a fonderli in uno quanto è lunga
questa vita, quanto spazia la speranza di un’altra.

Unità ed alterità
sofferte anima e corpo.

Mentre son qui nell’ora che sul viottolo
vanno e vengono i ferrovieri, prima
o dopo il loro turno, quasi ora
di cena che la casa è anche più casa,
so che non vuoi lamento ma preghiera
e vita che perduri nella vita,
fuoco nel fuoco sempre acceso. Tanto
è ancora opera tua, tu devi compierlo.

Non lasciare il governo della casa,
apri le sue finestre dall’interno,
da’ che esali ed inali in questo vento
l’eternità che tu respiri. Dove
non è molto eravamo ancora tutti,
poni ciascuno al proprio posto, spezza
il pane, partisci il cibo eterno.
Tra lampo e lampo, flutto e flutto d’erba.


IL DURO FILAMENTO

“Passa sotto la nostra casa qualche volta,
volgi un pensiero al tempo c’eravamo ancora tutti.
Ma non ti soffermare troppo a lungo.”

La voce di colei che come serva fedele
chiamata si dispose alla partenza,
pianse ma preparò l’ultima cena
poi ascoltò la sentenza nuda e cruda
così come fu detta, quella voce
con un tremito appena più profondo,
appena più toccante ora che viene
di là dalla frontiera d’ombra e lacera
come può la cortina d’anni e fora
la coltre di fatica e d’abiezione,
cerca il filo del vento, vi s’affida
finchè il vento la lascia a sé, s’aggira
ospite dove fu di casa, timida
e spersa in queste prime albe dell’anno.

L’ora è quella cruda appena giorno
che il freddo mette a nudo la città
livida nelle sue pietre, tagliente
nei suoi spigoli e, dentro, nell’opaco
versano il latte nelle tazze, tostano
pane, il bambino mezzo desto biascica
mentre appunta sul diario il nuovo giorno.4

Nel grumo di calore che è più suo,
nella bolla di vita ch’è più tenera
per lei cresciuta alla pazienza in terre
povere, pie, l’ascolto, voce fievole,
tendersi a questa ancora grevi, ancora
appannate dal lungo sonno, chiedere
asilo volersi mescolare.
Dico: abbi pace, abbi silenzio. Dico…

Udire voci trapassate insidia
il giusto, lusinga il troppo debole,
il troppo umano dell’amore. Solo
la parola  all’unisono di vivi
e morti, la vivente comunione
di tempo e eternità vale a recidere
il duro filamento d’elegia.
E’ arduo. Tutto l’altro è troppo ottuso.

“Passa sotto la nostra casa qualche volta,
volgi un pensiero al tempo che eravamo ancora tutti.
Ma non ti soffermare troppo a lungo.”


*15) Giovanna Bemporad,  Epilogo, da Esercizi, Garzanti, 1980
Questa poesia conclude la prima  sezione del libro, costituita da 19 poesie raccolte sotto il titolo “Diari”.
Tutta la raccolta è pervasa da uno struggente senso della perdita, dell’assenza, della mancanza,  che la morte pone come condizione al nostro vivere. Le diciannove poesie, tutte senza titolo tranne l’ultima,  si costituiscono come frammenti di un unico poema sulla morte, che  la poetessa scrisse quand’era giovane, e quindi, come lei stessa disse in un’intervista televisiva,  quando la morte era ancora un evento considerato lontano. Essa tuttavia ci appare così vicina da essere quasi familiare, da essere parte della vita stessa: essere cioè ciò che rende la vita quello che è.

*16) Eraclito, in Pasquinelli , I presocratici (citato),
Fr. 17(Plutarco)
La stessa cosa è il vivente e il morto, il desto e il dormiente, il giovane e il vecchio: questi infatti trasformandosi son quelli, e quelli a loro volta, trasformandosi, son  questi.

Nota del Pasquinelli:
“… i contrari sono una cosa sola, non solo nel senso che si condizionano reciprocamente, ma perché costituiscono per cosi dire gli estremi della tensione interna di ogni cosa, i suoi due aspetti”.

Si tratta, qui,  di una interpretazione poetica, se così si può dire: non me ne vorranno i filologi. E’ una interpretazione che deriva da quello che resta sospeso dopo la lettura di tutti i frammenti, tutti più o meno collegati tra loro,  a formare diverse linee di pensiero, anch’esse costituenti una trama, un tessuto che, secondo lo spirito della filosofia ad esso sottesa, non può costituirsi come fondamento, come terreno di fondazione di una cosa piuttosto che dell’altra, bensì soltanto come temporaneo punto di appoggio, di sosta, breve – in quanto per sua costitituzione evanescente,  durante il cammino.
E’ l’interpretazione acquisita che Eralito si riferisse all’unità che deriva dall’unione degli opposti; tuttavia un senso ulteriore che rimane sospeso ma che queste parole lasciano trapelare,  potrebbe essere questo: che vivere la propria vita, in qualche modo significa vivere anche la morte di qualcos’altro. Ancora Eraclito:
95 (Ippolito):
Immortali mortali, mortali immortali, vivono la morte di quelli, muoiono la vita di quelli.
126 (Clemente):
L’uomo accende a se stesso una luce nella notte, quando i suoi occhi son spenti; da vivo tocca il morto, con gli occhi spenti, da sveglio tocca il dormiente.


*17). Sono le ultime parole della poesia Poveri, scritta da Alfonso Gatto  tra il ’40 e il ’41, ma eliminati dal poeta nella riedizione del 1961 delle “Poesie”, per Mondadori,  insieme a tutti gli ultimi sei versi.
Questa versione primitiva è tratta da Edoardo Sanguineti, Poesia Italiana del Novecento, Einaudi, 1971.

Poveri

I poveri hanno il freddo della terra.
Nella città spiovente, ai tetti, al fumo
tranquillo delle case, il giorno migra
nel colore d’oriente: così calma
la sera agli occhi mesti si fa lume.
Io li ricordo contro un cielo d’aria,
i poveri stupiti, come l’agro
verde dei prati sfiora nella pioggia
una velata eternità di sole.
Nella dolce memoria a lungo il giorno
passa spoglio d’un albero, del treno
curvo per sempre al litorale, oblìa
ad uno ad uno i poveri nel freddo
bacio dell’aria, ed è la morte un verde
campo di pioggia effusa nella sera.


Scrisse Gatto (citato da Ferrata nella prefazione a Poesie, 1961):  “Sono nato nel 1909 a Salerno: ricordo tutto dei miei primi anni… Posso dire che sono divenato scrittore, o più propriamente poeta,  per avere sempre sentito dietro di me, dalla nascita, altre stanze, altri luoghi,  altre stagioni in cui ero vissuto”.
Questo è, a ben vedere, il manifesto di ogni poeta: cioè la necessità di dire quello che esiste “dietro”, “oltre”, eppure nello stesso tempo e nello stesso luogo. Che altro non è che una particolare disposizione dell’animo: di colui che non sa vivere nel presente – e invero il presente è davvero poca cosa, se guardato nella sua forma esteriore.
Il presente, e dunque la vita, ha senso, quando diventa il momento in cui il passato  si manifesta.
A questo “sentimento del tempo”  Gatto aggiunge il sentimento del Tutto, cioè la sua sensibilità verso il paesaggio nel quale vorrebbe “effondersi”, come fa un “campo di pioggia” nella sera.

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