Abitare poeticamente




Un discorso sull’abitare non può prescindere da un discorso sull’essere, cioè sull’essenza di colui che abita.
Il concetto di essere è legato al concetto di tempo, nel senso che è l’essere che nel momento in cui pone se stesso istituisce il tempo. Quello suo, e quello degli enti con i quali entra in relazione.
Ma questa è anche la sua condanna: non potere esistere al di fuori del tempo che esso stesso è in quanto da se stesso posto con la sua apparizione. Perché essendo fuori dal tempo l’Essere è Tutto, mentre essendo nel tempo, l’Essere di Tutto si è privato. Se ne è privato per necessità, cioè è stato necessario perdere Tutto per essere Sé, soggetto, individuo.
A questo punto si pone una scelta, che in realtà è una scelta apparente, essendo piuttosto una necessità: continuare sulla strada che va sempre avanti e tutto lascia indietro, dimenticandolo – che sarebbe anche atto di coerenza; oppure scegliere una strada che andando avanti torna indietro, cioè che procede in senso circolare, avvolgendosi in una spirale. Laddove il tornare indietro non è vezzo, né una via di fuga, ma una semplice necessità fisiologica: perché la permanenza del passato esige un suo continuo ri-esperimento, cioè un continuo ri-farne esperienza.
E’ una scelta apparente, e dunque una non-scelta, perché la strada che va sempre avanti e tutto lascia indietro  è la strada imposta dal mondo al cammino dell’uomo. Anche l’altra strada tuttavia è necessaria: è necessaria all’essere per tenere insieme tutto. La permanenza del passato è necessaria, a quest’Essere che di Tutto si è privato, perché questa è l’unica sua possibilità per Tutto tenere insieme: in qualche modo.
Ma dire Essere Tutto è come dire Nero Bianco, perché, come abbiamo visto, o si è Essere o si è Tutto. Tenere insieme tutto nel senso proprio quindi non è nelle possibilità dei mortali. Ma tenerlo insieme col lavoro di una vita: questo sì.

Perché la permanenza del passato ha a che fare con la poesia? Per un aspetto formale e per un aspetto sostanziale.  Per un aspetto formale in quanto al contenuto, perché l’argomento di cui si parla nelle poesie è sempre il passato, vissuto elegiacamente come una mancanza; per un aspetto sostanziale a causa della sua stessa natura, perché è vero che il senso della parola poesia ci viene da poiesis, che significa “fare dal nulla”, dunque creare, o “fare con arte”; ma nel caso specifico l’arte consiste nell’utilizzo del verso, che deriva da versus, vertere, cioè volgere, far tornare indietro.
Nel verso infatti, attraverso la composizione dei toni e la cadenza degli accenti, si stabilisce un ritmo per mezzo e per causa del quale il tempo torna dove era partito. Nel senso che per la sapiente composizione degli accenti il verso si interrompe dove è necessario che si interrompa per andare a capo, e quindi tornare indietro alla tensione armonica da cui era partito, istituendo in questo modo una alternanza armonica che continuamente si ripete, dando luogo ad  una progressione circolare. Questa continua alternanza di toni  produce una tridimensionalità del tempo, che, non potendo tornare indietro al punto di partenza (non potendo il tempo scorrere all’indietro) ma dovendo comunque tornare indietro in direzione del punto di partenza, si deve portare necessariamente oltre, cioè su un piano più avanzato, disegnando in questo modo una spirale. In questo modo aggiungendo un piano temporale sopra all’altro ad ogni giro.
Il pensiero esiste, in quanto atto del pensare, prendendo sempre la forma del tempo in cui si si dà. Il tempo lineare, vissuto come una successione di frazioni indipendenti una dall’altra, produce un pensiero dalla forma lineare, conseguenziale, progettuale, e dunque specifico, ridotto e riduttivo; la forma del suo tempo è una linea. Il pensiero lineare ha la forma del tempo lineare, che è una linea che istituisce una superficie. Su questa superficie e lungo la linea si svolgono le  azioni, cioè la vita. Su questa superficie e lungo la linea esistono il prima e il dopo, ma ogni prima nell’atto di diventare dopo, sparisce, e ogni dopo può apparire in seguito allo sparimento del prima che l’ha preceduto.
Il tempo  circolare ha la forma di una spirale, cioè la forma che un punto disegna nello spazio muovendosi in cerchio, andando sempre avanti in modo da tornare sempre indietro verso il punto di partenza. In tale movimento l’andare avanti è in realtà un movimento derivato, e non il movimento proprio del punto che si muove nello spazio.
Cioè  l’ “avanti” del movimento derivato non corrisponde all’ “avanti” che sta davanti al punto che si muove. L’avanzamento infatti avviene in direzione ortogonale, lungo l’asse della spirale. Questa direzione derivata, non voluta, rappresenta la ineludibilità del destino, cioè di un succedersi delle cose sul quale non abbiamo potere, perché accadenti al di fuori della nostra volontà, benché in qualche modo determinate dalle nostre azioni.
Questo tempo istituisce uno spazio tridimensionale nel quale si svolgono le azioni, cioè la vita. Ma a differenza della vita che si svolge sulla superficie istituita dal tempo lineare, dove esistono il prima e il dopo, ma  ogni prima diventando dopo sparisce, nel tempo tridimensionale il prima diventato dopo ha la possibilità di permanere. Nel compiersi del giro infatti, tutti i prima vengono rivisitati, e vengono rivisitati ad ogni giro,  e dunque permangono, anche se ad ogni giro si allontanano. Ma non spariscono, perché non vengono superati.
Non solo. In questo tempo circolare permangono anche tutti i dopo che sono succeduti a tutti i prima, così ché possiamo sempre sapere, mentre andiamo avanti lungo la strada che si apre davanti a noi,  quale dopo incontreremo. In realtà, come abbiamo visto, ci muoviamo involobtariamente verso l’alto, senza vedere cosa abbiamo davanti, perché il nostro davanti  è lungo il cammino sulla spirale. Per questo non possiamo conoscere ciò verso cui andiamo realmente, ma solo quello che ci sta davanti mentre camminiamo, e che ci starà davanti sulla strada che stiamo percorrendo.

Dunque attraverso l’esecuzione del verso il pensiero, tornando sempre a visitare il luogo da dove era partito, tiene insieme tutto quello che nel suo farsi – cioè nella vita – è accaduto. E allo stesso tempo, avendo già vissuto ogni dopo, diventa sentimento di attesa e di speranza. Questo è quello che voleva dire, forse,  Holderlin, quando diceva che poeticamente abita l’uomo: e cioè che l’uomo abita – e quindi è nella pienezza della sua natura – solo in un tempo ciclico, cioè in un tempo in cui niente passa per sparire, ma tutto ciò che passa permane. L’abitare, cioè non può che essere poetico, altrimenti non è abitare, ma piuttosto alloggiare, avere un riparo.
In questo senso abitare non necessariamente ha a che fare con l’architettura, ma piuttosto con l’educazione: cioè con la formazione culturale dell’individuo. Avrebbe a che fare con l’architettura se l’architettura avesse memoria del suo compito primario, che non è, come comunemente si pensa, quello di arredare i cessi, ma era – come era per ogni forma d’arte – l’elevazione dello spirito.
Ma di questo l’architettura, come ogni altra forma d’arte, ha perso finanche la memoria.
La possibilità di una formazione culturale dell’individuo in senso umanistico, ma anche solamente non specialistico, è compromessa al punto da essere più neanche contemplata come possibilità dalla quasi totalità degli abitanti della terra. Così come  compromessa è la possibilità di abitare, nel senso che l’abitare, come condizione dell’uomo, “non è più praticamente possibile. Le abitazioni tradizionali in cui siamo cresciuti hanno preso qualcosa di intollerabile: ogni tratto di agio e di confort é pagato in esse con il tradimento della conoscenza, ogni traccia di intimità con  la muffosa comunità di interessi della famiglia.  Le abitazioni moderne, che hanno fatto tabula rasa, sono astucci preparati da esperti per  comuni banausi, o impianti di fabbrica capitati per caso nella sfera del consumo, senza il minimo rapporto con gli abitanti: esse contrastano brutalmente ad ogni aspirazione verso un’esistenza indipendente, che del resto non esiste più. L’uomo moderno vuole dormire sul nudo terreno come una bestia, ha decretato con profetico masochismo un settimanale tedesco prima di Hitler, liquidando, col letto, la soglia tra la veglia ed  il sonno. Chi non dorme la notte è sempre disponibile e pronto a qualsiasi cosa senza resistere, vigile ed incosciente nello stesso tempo.
Chi si rifugia in appartamenti genuini, ma messi insieme a forza di acquisti, non fa che imbalsamarsi vivo. Chi cerca di sfuggire alla responsabilità dell’abitazione andando a stabilirsi in un hotel o in un appartamento ammobiliato, fa, per così dire, virtù delle necessità imposte dall’emigrazione. Il peggio capita, come sempre, a quelli che non hanno da scegliere.
Essi abitano, se non in slums, in bungalows, che potranno essere domani capanne di foglie, trailers, auto o campeggi, o addirittura  il cielo aperto.
La casa é tramontata. Le distruzioni delle città europee, come i campi di lavoro e di concentramento, non fanno che eseguire e completare ciò che lo sviluppo immanente della tecnica ha deciso da tempo circa il destino delle case. Le case non esistono più che per essere gettate via come vecchie scatole di conserva.
E ancora:
La tecnicizzazione rende le mosse brutali e precise, e così gli uomini.  Elimina dai gesti ogni esitazione, ogni prudenza, ogni garbo. Li sottopone alle esigenze spietate, vorrei dire astoriche delle cose.  Così si disimpara a chiudere piano, con cautela e pur saldamente una porta. Quelle delle auto e dei frigidaires vanno sbattute con forza, altre hanno la tendenza a scattare da sole e inducono chi entra alla villania di non guardare dietro di sé, di non custodire l’interno che l’accoglie. Non si fa giustizia al nuovo tipo umano senza la coscienza di ciò che subisce continuamente, sin nelle fibre più riposte,  dalle cose del mondo circostante. Che cosa significa per il soggetto che le finestre non hanno più battenti da aprire, ma lastre di vetro da far scattare con violenza, che i pomi girevoli hanno preso il posto delle molli maniglie, che non ci sono più vestiboli, soglie verso la strada, mura intorno al giardino?  Quale chauffeur non sarebbe indotto, dalla forza stessa del suo motore,  a filare a rischio e pericolo delle formiche della strada, passanti, bambini e ciclisti? Nei movimenti che le macchine esigono da coloro che le adoperano c’è già tutta la violenza, la brutalità, la continuità a scatti dei misfatti fascisti. Tra le cause del deperimento dell’esperienza c’è, non ultimo, il fatto che le cose, sottoposte alla legge della loro pura funzionalità, assumono una forma che riduce il contatto con esse alla pura manipolazione,  senza tollerare quel surplus – sia in libertà del contegno che in indipendenza della cosa –  che sopravvive come nocciolo dell’esperienza perché non è consumato dall’istante dell’azione.

Era il 1945 quando Adorno pubblicava queste note, e si rimane sconcertati nel constatare quanto peggio stiamo rispetto ad allora.

Ripercorrere le tappe di questo cammino compiuto dall’uomo verso il nulla è lavoro difficile e complicato, ma inevitabile, se si vuole capire come siamo arrivati dove siamo, e cosa ci aspetta, cioè dove ci porterà tutto quello che, anche inconsapevolmente, abbiamo avviato e non possiamo più interrompere. E’ un lavoro  difficile perché questo cammino, che negli ultimi duecento anni ha assunto più il modo ansioso di una corsa, tuttavia era già cominciato ai tempi di Socrate, e forse anche di Omero, che Eraclito considerava pressappoco un imbroglione, responsabile, insieme a Pitagora, a Esiodo e a della condizione di inebetimento in cui già allora si trovavano gli uomini.
Un altro lavoro, a questo collegato, e come questo difficile e complicato sarà quello di mettere in luce il ruolo che durante questo cammino ha avuto l’arte, ed in particolare l’architettura, laddove sembra un dato ormai acquisito – benchè privo di alcun fondamento – che debba essere l’architettura ad occuparsi della casa, cioè del luogo dell’abitare.

Intanto però alcune considerazioni possono essere fatte.

Ogni casa dovrebbe, per la sua conformazione (spazi fisici dedicati all’inutile, non destinati ad alcuna funzione particolare, cioè metriquadri non redditizi, oggi inconcepibili), e per la sua permeabilità (permanenza del tempo (cioè delle storie) nello sbiadire dei colori dell’intonaco e nei graffi del pavimento, oggi inconcepibili),  consentire quell’accumularsi dei giorni nel loro trascorrere, quell’accatastarsi dei giorni uno sopra l’altro, che, essendo appunto manifestato nel presente sotto forma di trasformazione (ingiallimento, invecchiamento) della materia, e nella presenza fisica di oggetti, tracce, testimonianze, fogli,  che dal passato provengono (e che per questo devono essere conservati e manutenuti) conferisce al presente stesso una diversa consistenza, trasformandolo in quella dimensione sospesa, come in una eterna pausa,  in cui ciò che è passato permane, e dunque è passato solo apparentemente; e quindi, per quello che prima si diceva, anche nella sospensione di chi sta in attesa di ciò che ci si aspetta che giunga.
Bisogna cioè che la casa abbia la possibilità di invecchiare, trattenendo con sé tutte le sue memorie, e questo non è più possibile. Non solo perché non ne esistono più le necessarie condizioni culturali (tutto sia nuovo, lucido e pulito: questa è l’etica del modernismo: sostituire prima che invecchi); ma proprio perché queste condizioni culturali sono prodotte dal  modello sociale della modernità, che è sempre espressione  e strumento del modello produttivo, e nel quale istituzioni come la famiglia e la casa non solo non sono contemplate, ma al contrario sono combattute, perché disfunzionali rispetto alle esigenze di mobilità della manod’opera che sono alla base della produzione capitalistica.
Ancora si consideri che quando riescono ad invecchiare le case moderne invecchiano male, proprio perché volutamente realizzate con materiali che invecchiando si deteriorano al punto da non essere più funzionali.  In questo che si configura a tutti gli effetti come un cambiamento che interessa la natura stessa dell’uomo, l’architettura – giustamente autodefinitasi “moderna” , non cogliendo, per l’ignoranza abissale degli architetti, la tragedia implicita in questa definizione – ha giocato un ruolo fondamentale, al punto che si può affermare senza timore di essere contraddetti che la rovina dell’abitare è iniziata da quando l’architettura ha deciso di doversi occupare dell’abitazione. Ma naturalmente l’architettura non ha deciso nulla. Ha solo eseguito il compito che la “produzione” gli aveva assegnato.
L’abitare poeticamente dunque non è più possibile appunto perché non è più possibile l’abitare, che etimologicamente significa avere un habitus, cioè un abitudine, cioè una abitazione, che è la condizione in cui si ha un’abitudine: un darsi le condizioni per cui si manifesti una abitudine: un avere frequentazione di sé: dunque un “avere se stessi”, perché habitus ha radice in habeo.
L’abitazione è il luogo in cui si ha se stessi, e l’abitare ne è il modo. Cioè non si può essere pienamente, dunque essere  nella pienezza dell’essere, se non si può avere se stessi.
E se non si può avere se stessi non si è di se stessi, ma di qualcun altro. Dunque schiavi.

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