Martin Heidegger, Poeticamente abita l’uomo.

Conferenza tenuta il 6 Ottobre alla “Buhlerhohe”

(in Saggi e Discorsi, Mursia, 1976, trad. di G. Vattimo)

Questa parola viene da una tarda poesia di Holderlin,  trasmessaci in modo singolare. Essa comincia:

In lieblicher Blaue bluhet mit dem metallenen Dache der Kirckturm...”
(Nel soave azzurro brilla con il suo tetto metallico il campanile…)

(Stuttgarter Ausgabe, 2, 1, p. 372 ss.; Hellingrath VI, p. 24 ss.). 
Per capire bene la parola  “poeticamente abita l’uomo…”  dobbiamo riportarla con precauzione alla poesia. Per questo la prendiamo in attenta considerazione. Chiariamo la perplessità che essa  immediatamente suscita. Perchè  altrimenti ci mancherà la libera disponibilità a rispondere a questo detto in modo da seguire ciò che esso dice.

“…poeticamente  abita l’uomo…”.  Che i poeti talvolta  abitino poeticamente è cosa che si può anche, eventualmente, capire. Ma che cosa si deve intendere quando si dice che “l’uomo”,  e cioè ogni uomo e  permanentemente, abita poeticamente?  Non c’è forse una insuperabile incompatibilità tra ogni  abitare e ciò che è poetico?  Il nostro abitare è assillato dalla crisi delle abitazioni.  Anche se così non fosse, resterebbe sempre il fatto che il nostro abitare odierno è ossessionato dal lavoro,  reso instabile dalla ricerca del vantaggio e del successo, succube dell’industria del tempo libero e dei divertimenti. D’altra parte, là dove nel nostro abitare odierno c’è ancora spazio e tempo disponibile per la poesia, nel caso migliore accade che ci si dedica, come a un’occupazione, alla letteratura, sia essa scritta o trasmessa in altri modi. 
La poesia viene o negata come un inutile sentimentalismo e come un perdersi nell’irreale, o respinta come una fuga nell’idillio, oppure catalogata nell’ambito della letteratura. Il valore di questa è stabilito sulla base della mutevole attualità del momento. L’attualità, a sua volta, è prodotta e guidata dagli organi che formano l’opinione pubblica della società  “civilizzata”. L’attività della produzione letteraria è uno degli agenti, insieme attivo e a sua volta determinato, di questa organizzazione. La poesia non può dunque  apparire altrimenti che come letteratura. Anche quando questa è presa in considerazione in una prospettiva culturale o scientifica, diventa oggetto della storiografia  letteraria. La poesia dell’occidente va sotto il nome complessivo di “letteratura europea”.

   Ora, però, se è  accettato fin da principio che la poesia abbia la sua unica forma di esistenza nella letteratura, come sarà possibile vedere l’abitare umano fondato sulla poesia?  Il detto secondo cui l’uomo abita poeticamente, del resto, viene  solo da un poeta, e per di più da un poeta di cui  si sa che non è stato capace di venire a capo della propria vita.
La natura dei poeti è di non vedere il reale. Invece di agire, essi sognano. Ciò che fanno è semplicemente immaginato. Le cose immaginarie hanno la loro unica esistenza in questo fare. L’atto di fare si dice in greco poiesis. L’abitare dell’uomo dovrebbe essere qualcosa di poetico, poesia (Poesie)?
Una cosa  simile può ammetterla solo chi vive fuori della realtà e si rifiuta di vedere in quale condizione si trovi oggi la vita storico-sociale degli uomini, ciò che i sociologi chiamano la collettività (das Kollektiv).
Tuttavia, prima di dichiarare così senz’altro inconciliabili  l’abitare e il poetare, è forse bene che cerchiamo di considerare con ponderazione il detto del poeta.  Esso parla dell’abitare dell’uomo. Non descrive condizioni effettive dell’abitare odierno.  Soprattutto,  non afferma che abitare significhi possedere un’abitazione.  E nemmeno dice, d’altra parte, che la poesia si esaurisca nel gioco irreale dell’immaginazione poetica. Quale persona  riflessiva si  azzarderebbe dunque a dichiarare senza esitazione, dall’alto di una superiorità abbastanza dubbia, che  abitare e poetare sono due cose incompatibili (unvertraglich)?  Può darsi che invece vadano d’accordo (vertragen); o, ancor più,  può darsi che l’una delle due regga (tragt) l’altra, nel senso che l’una, l’abitare, si fonda  nell’altra, nella poesia.  Se avanziamo questa ipotesi,  allora diviene necessario che pensiamo l’abitare e il poetare a partire dalla loro essenza.  Se non ci ritraiamo davanti a questo compito,  penseremo ciò che altrimenti si chiama esistenza (Exsistens) dell’uomo a partire dall’abitare.  In tal modo, senza dubbio, lasciamo da parte la rappresentazione usuale dell’abitare. Secondo essa, l’abitare è soltanto un comportamento dell’uomo  accanto a tanti altri. Lavoriamo in città e  abitiamo fuori.  Siamo in viaggio e abitiamo ora in un posto ora  in un altro.  L’abitare così inteso è sempre solo avere un’alloggio.

   Quando Holderlin parla dell’abitare, guarda al tratto fondamentale dell’esserci dell’uomo. E  la “poesia”,  per converso,  la considera  a partire dal rapporto con questo abitare inteso in maniera essenziale.
   Questo non vuol certo dire che la poesia sia solo un ornamento aggiunto all’abitare. Il carattere poetico dell’abitare non significa nemmeno soltanto che  la  poesia si  incontri in qualche maniera in ogni modo di abitare. Il detto suona invece:  “…poeticamente abita l’uomo…”:  é il poetare (das Dichten) che,  in primissimo luogo,  rende l’abitare un abitare.
   Poetare è l’autentico far abitare (Wohnenlassen). Ma con quale mezzo noi perveniamo ad una abitazione?  Mediante il costruire (Bauen).  Poetare, in quanto far  abitare, è un costruire.
   Ci troviamo così di fronte a una duplice esigenza: da un lato, di pensare ciò che si usa chiamare l’esistenza dell’uomo a partire dall’essenza dell’abitare;  in secondo luogo, di pensare l’essenza del poetare  come far abitare,  come un costruire, e forse, anzi, il costruire per eccellenza. Se ci poniamo a cercare l’essenza della poesia nella prospettiva ora indicata,  perveniamo all’essenza dell’abitare.
   Tuttavia, donde possiamo noi uomini avere notizia dell’essenza dell’abitare e del poetare?  Donde, in generale, l’uomo deriva  la pretesa di pervenire all’essenza di una cosa (Sache)? L’uomo può derivare tale pretesa (anspruch) solo di là donde la riceve in quanto appello.  E tale appello lo riceve dalla parola che il linguaggio gli rivolge (aus dem Zuspruch der Sprache). Ciò, però, solo se e  finché fa già  attenzione  all’essenza propria del linguaggio.
Intanto però, in modo insieme caotico e abile,  tutto un infuriare di discorsi, di  scritti, di parole teletrasmesse  avviluppa la terra.  L’uomo si comporta come se fosse il creatore e il padrone del linguaggio, mentre invece è il linguaggio che rimane il signore dell’uomo. Quando questo rapporto di sovranità si rovescia, l’uomo si inventa  strane macchinazioni.  Il linguaggio diventa mezzo dell’espressione. Come espressione (Ausdruck), il linguaggio può scadere a puro strumento di pressione (Druck).  Il fatto che anche in questo modo di utilizzare il linguaggio si tenga  all’accuratezza del parlare è un fatto positivo.  Ma,  da solo, non ci aiuterà mai ad uscire dalla situazione in cui il corretto rapporto di sovranità  tra il linguaggio e l’uomo è rovesciato.  Perché, nel senso autentico, è il  linguaggio che parla. L’uomo parla soltanto nella misura in cui risponde (entspricht)  al linguaggio, in quanto ascolta la parola che questo gli rivolge.  Di tutti gli appelli  (Zuspruche) che noi uomini possiamo con la nostra iniziativa contribuire a far risuonare (zur Sprache bringen), il linguaggio è  il più alto e il primo fra tutti.
Il linguaggio, per primo e ultimo, ci indica (Winkt uns zu) l’essenza di una cosa. Questo non significa però mai che il linguaggio, in qualunque situazione verbale  afferrata  a casaccio, ci fornisca già l’essenza trasparente della cosa, in modo diretto e definitivo come se si trattasse di un oggetto pronto all’uso. Il rispondere in cui l’uomo propriamente  ascolta la parola rivoltagli dal linguaggio è invece quel dire (Sagen) che parla nell’elemento del poetare. Quanto più un poeta e poetante, tanto più il suo dire è libero,  cioè aperto e pronto per l’imprevisto; tanto più  puramente egli rimette  il suo detto al sempre più attento ascoltare, è tanto più remoto è il suo dire dal puro e semplice enunciare (Aussage), del quale si discute soltanto in riferimento  al suo essere esatto o inesatto.

“…poeticamente abita l’uomo…”

dice il poeta. Udiamo il detto di Holderlin in modo più chiaro se lo  intendiamo  riportandolo alla poesia da cui proviene. Per cominciare,  ascoltiamo soltanto i due versi da cui abbiamo tratto, come un taglio, queste parole.   Essi dicono:

       “Voll  Verdienst, doch dichterisch, wohnet
Der Mensch auf dieser Erde”.

(Pieno di merito, ma poeticamente, abita
L’uomo su questa terra)

Il tono fondamentale del verso è dato dalla parola  “poeticamente”. Questa è rilevata dal duplice riferimento a  ciò che precede e a ciò che la segue.
Prima vengono le parole:  “Pieno di merito, ma…”.  Ciò suona quasi come se  il “poeticamente” che segue portasse una limitazione  nell’abitare pieno di merito dell’uomo. In vero è il contrario.  La limitazione è indicata dall’espressione “pieno di merito”,  a cui dobbiamo mentalmente  aggiungere un “certamente”.  L’uomo con il suo abitare si rende certo in molti sensi meritevole.  Egli infatti si prende cura delle cose che crescono sulla terra e custodisce ciò che per lui è cresciuto. Curare e proteggere (colere, cultura) sono un modo del coltivare-costruire (bauen).  L’uomo tuttavia non  coltiva (bebaut) soltanto ciò che  si sviluppa da sé con una propria crescita, ma costruisce (baut)  anche nel senso dello aedificare,  in quanto erige cose che non potrebbero nascere e  sussistere per una crescita propria. Costruzioni e fabbricati, in questo senso, non  sono soltanto gli edifici,  ma tutte le opere prodotte dalla mano dell’uomo e eseguite da lui. Tuttavia, i meriti di questo molteplice coltivare-costruire non compiono esaurientemente l’essenza dell’abitare.  Anzi, essi  impediscono addirittura che l’abitare  acceda alla sua essenza,  non appena vengano perseguiti e procacciati solamente per se stessi. In tal caso, proprio con la loro abbondanza, i meriti costringono l’abitare entro i confini del coltivare-costruire ora descritto. Quest’ultimo cerca di soddisfare i bisogni dell’abitare. Il coltivare-costruire del contadino che si prende cura del campo, oppure quello che costruisce  edifici e  fabbriche, o quello che prepara  utensili e strumenti,  è già una conseguenza  essenziale dell’abitare, ma non il suo fondamento o addirittura la sua fondazione. Quest’ultima deve accedere in altro modo del coltivare-costruire.  Il coltivare-costruire che si pratica generalmente e spesso esclusivamente, e che perciò è il  solo conosciuto, porta bensì la pienezza dei meriti dell’abitare. Tuttavia, l’uomo è capace di abitare solo se già in un altro modo ha costruito, costruisce e  rimane  intenzionato a costruire.

    “Pieno di merito (certo), ma poeticamente, abita l’uomo…”. Nel testo seguono poi le parole: “su questa terra”.  Si sarebbe tentati di considerare superflua questa aggiunta; giacché per l’appunto  abitare  significa: soggiorno dell’uomo sulla terra,  su “questa”,  alla quale ogni mortale si  sa  affidato e dato in balìa.   Però, quando Holderlin osa dire che l’abitare dei mortali è poetico, questa  parola, appena  pronunciata,  suscita l’impressione che l’abitare  “poetico”  strappi  proprio gli uomini dalla terra.  Ciò che è  “poetico”, infatti,  in quanto viene riferito alla “poesia” (das Poetische), appartiene appunto al regno della fantasia. L’abitare poetico trasvola fantasticamente oltre il reale.  A questo timore viene incontro il poeta quando dice  esplicitamente  che l’abitare poetico è un abitare  “su questa terra”. In tal modo, Holderlin non solo difende  la  “poesia”  da un probabile fraintendimento, ma, con l’aggiunta  delle parole “su questa terra” indica specificamente in direzione dell’essenza del poetare. Il poetare non  trasvola oltre la terra  né va al di là di essa per abbandonarla e librarsi sopra di essa. Proprio il poetare porta invece l’uomo sulla terra, lo porta ad essa, e lo porta così nell’abitare.

“Pieno di merito, ma poeticamente, abita
l’uomo su questa terra.”

   Possiamo dire ora di sapere come l’uomo abita poeticamente?  Non lo sappiamo ancora.  Corriamo anzi il rischio di prestare alla parola poetica di Holderlin significati estranei escogitati da noi. Holderlin, infatti, nomina bensì l’abitare dell’uomo e il suo merito,  ma non mette l’abitare in rapporto con il coltivare-costruire,  come noi abbiamo ora fatto. Egli  non parla di coltivare-costruire, né  nel senso del custodire, del curare e dell’edificare,  né  nel senso di presentare il poetare come una specie del coltivare-costruire. Holderlin, dunque, non parla dell’abitare poetico come  ne parla  il nostro pensiero. Tuttavia, noi pensiamo il medesimo (das Selbe) che Holderlin dice poeticamente. Certo, è necessario che qui  teniamo presente un punto essenziale. Occorre introdurre una breve osservazione. Poetare e pensare si incontrano nel medesimo solo se e fino a che rimangono nettamente nella differenza della loro essenza. Il medesimo (das Selbe) non si identifica mai con l’uguale (das gleiche), e neppure con la vuota uniformità del  puramente identico. L’uguale si volge sempre verso il senza-differenze (das Unteschiedlose), affinché tutto si accordi in esso. Il medesimo, invece è  la reciproca appartenenza del differente, a partire dalla  riunione operata dalla differenza.  Il medesimo si lascia dire  solo quando è pensata la differenza.  Nel determinarsi (Austrag) del differente viene in luce l’essenza riunente (versam-melnde) del medesimo. Il medesimo esclude ogni  ansia di risolvere il differente sempre solo nell’uguale. Il medesimo riunisce il differente in una unione (Einigkeit) originaria.  L’uguale, per contro,  disperde nell’insipida unità dell’uno  unicamente uniforme. Holderlin, a suo modo, era ben consapevole di queste situazioni. In un  epigramma, che si intitola  Wurzel  alles Uebels (La radice di ogni male), egli dice:

Einig zu seyn, ist gottlich und gut;  woher ist die Sucht denn
Under den Menches, dass  nur Einer und Eines nur sei?”

(Stuttg. Ausg.I,1,p. 305).

(E’ cosa divina e buona essere uniti; donde viene dunque il morboso bisogno/Tra gli uomini, che solo una persona,  solo una cosa sia?)

Se  riflettiamo su ciò che Holderlin dice poeticamente sull’abitare poetico dell’uomo, intravediamo una via mediante la quale,  attraverso la diversità di ciò che è pensato,  potremo avviarci a quel Medesimo che  il poeta dice  poeticamente. Ma che cosa dice Holderlin circa l’abitare poetico dell’uomo? Cercheremo la risposta a questa domanda ascoltando i versi 24-38 della poesia a cui ci siamo riferiti. Nell’ambito da essi  definito parlano infatti i versi che da principio abbiamo commentato. Holderlin dice:

“Darf, wenn lauter Muhe das Leben, ein Mensch
Aufschauen und sagen: so
Will ich auch seyn? Ja. So lange die Freundlichkeit noch
Am Herzen, die Reine, dauert, misset
Nicht unglucklich der Mensch sich
Mit der Gottheit. Ist unbekannt Gott?
Ist er offenbar wie der Himmel? Dieses
Glaub’ich eher. Des Menschen Maas ist’s.
Voll Verdienst, doch dichterisch, wohen
Der Mensch auf dieser Erde. Doch reiner
Ist nicht der schatten der Nacht mit  den Sternen,
Wenn ich so sagen konnte, als
Der Mensch, der heisset ein Bild der Gottheit.

Giebt es auf Erden ein Maass? Es giebt
Keines”.

(Può un uomo, quando la sua vita non è che pena
guardare il cielo e dire: così
Anch’io voglio essere. Si. Fino a che l’amicizia
L’Amicizia schietta ancora dura nel cuore
Non fa male l’uomo a misurarsi
con la divinità. Dio è sconosciuto?
E’ egli manifesto e aperto come il cielo? Questo
piuttosto io credo. Questa è la misura dell’uomo.
Pieno di merito, ma poeticamente, abita
l’uomo su questa terra. Ma l’ombra
della notte con le stelle non è
Se così posso osar di parlare, più pura
Dell’uomo, che si chiama immagine della divinità.


C’è sulla terra una misura? No.
Non ce n’è alcuna.)

   Consideriamo solo poche cosa di questi versi, con l’unico proposito di ascoltare più chiaramente quel che Holderlin intende dire quando chiama l’abitare dell’uomo un abitare “poetico”.
I primi due dei versi riportati (26-28) ci danno un’indicazione. Essi hanno la forma di una domanda a cui il poeta risponde affermativamente con fiduciosa sicurezza. La domanda dice con una perifrasi ciò che i versi già commentati esprimono in modo diretto: “Pieno di merito, ma poeticamente, abita l’uomo su questa terra”.  Holderlin domanda:

“Può un uomo, quando la sua vita non è che pena,
Guardare il cielo e dire: così
Anch’io voglio essere? Si.

Solo nella sfera della pura pena (Muhe)  l’uomo si sforza  (bemuht) per procurarsi  “merito”. Quivi egli se lo procura in abbondanza.  Ma all’uomo è anche concesso, entro questa sfera, a partire da essa e attraverso di essa, di guardare in alto verso i celesti.
Il guardare in alto supera la distanza che sta fra noi e il cielo, e  rimane tuttavia quaggiù sulla terra. Il guardare in alto  misura tutto il  “frammezzo” (das Zwischen) che sta fra cielo e terra. Questo “frammezzo”  è  assegnato come sua porzione all’abitare dell’uomo. Questa misura diametrale così assegnata e in virtù della quale il  “frammezzo”  di cielo e terra è aperto, la chiameremo ora la  “dimensione” (Dimension).  Essa non è originata dal fatto che la terra e il cielo sono volti l’una verso l’altro.  Anzi, il loro essere rivolti  l’una verso l’altro si fonda a sua volta nella dimensione. Questa non è da  intendersi, poi,  come una estensione dello spazio quale generalmente lo si rappresenta;  tutto ciò ch’è spaziale, infatti, in quanto è disposto in uno spazio sgombro, ha già bisogno a sua volta della dimensione, ossia di ciò entro cui è ammesso.    L’essenza della dimensione è  la aperta-illuminata, e perciò diametralmente misurabile, assegnazione (Zumessung) del “frammezzo”:  il verso-l’alto del cielo e il verso-il-basso della terra.  Non diamo un nome all’essenza della dimensione. Secondo  le parole di Holderlin, l’uomo misura da un capo all’altro la dimensione  in quanto si misura con i celesti. Questo misurare diametralmente la dimensione non è qualcosa che l’uomo intraprende accidentalmente;  in esso soltanto l’uomo è, in generale e anzitutto, uomo. Perciò egli può bensì ostacolare questa misurazione, sminuirla o falsarla, ma non può sottrarvisi.  L’uomo, in quanto è uomo,  si è già sempre misurato rispetto a qualcosa di celeste e con qualcosa di celeste.  Anche Lucifero viene dal cielo. Per questo, nei versi successivi (28-29) è detto che  “l’uomo” si misura  “con la divinità”.  Essa  è  “la misura”  con cui l’uomo fissa le misure del suo abitare, del suo soggiorno sulla terra sotto il cielo.  Solo in quanto l’uomo misura e dispone (ver-misst) in tal modo il suo abitare sulla terra,  egli è capace di essere in modo commisurato (gemass) alla sua essenza.
L’abitare dell’uomo sta in questo misurare-disporre la dimensione guardando verso l’alto;  nella dimensione il cielo e la terra hanno parimenti il loro posto.
La  misurazione-disposizione (Vermessung) non misura soltanto la terra, (ge), e perciò non è pura geo-metria. Né, d’altra parte,  essa misura il cielo, ouranos, per se stesso.  La misurazione -disposizione non è una scienza.  Il misurare misura in tutta la sua estensione il  “frammezzo”, che porta l’uno verso l’altro il cielo e la terra. Questo misurare ha un suo specifico metron, e perciò la sua  metrica  specifica. La misurazione-disposizione dell’essenza umana in relazione alla dimensione che le è assegnata porta l’abitare nella sua fisionomia essenziale.  Il misurare-disporre della dimensione è  l’elemento in cui l’abitare umano trova la sua garanzia (Gewahr), in base alla quale dura (wart). Il misurare disporre è la poeticità dell’abitare. Poetare è un misurare. Ma che significa  misurare (Messen)?   Se pensiamo il poetare come un misurare, e chiaro che non possiamo sussumerlo sotto una  rappresentazione  qualsiasi del misurare e della misura.

   Il poetare è probabilmente un modo eminente del misurare. Meglio ancora: forse l’affermazione: “Poetare è misurare”  va pronunciata con l’accentuazione opposta: “Poetare è misurare”.  Nel poetare accade (ereignet sich) ciò che ogni misurare, nel fondamento della sua essenza, è.  Perciò è importante fare attenzione  all’atto fondamentale del misurare. Questo atto fondamentale si compie nel momento in cui in  generale si prende una misura in base alla quale, di volta in volta, si misurerà. Nel poetare accade la presa-di-misura (das Nehmen des Masses).  Il poetare è  il prender misure (die Mass-Nahme) inteso nel senso rigoroso del termine, nel quale anzitutto l’uomo  riceve la misura per l’estensione (Weite) della sua essenza.
(L’uomo è (West) come il mortale.  Egli si chiama così perché  può morire. Poter-morire  significa: essere capaci della morte in quanto morte.  Solo l’uomo muore, e ciò continuamente,  fino a che dimora su questa terra,  fino a che abita. Ma il suo abitare consiste nella poeticità.  Holderlin vede l’essenza del “poetico” nella  “presa-di-misura”,  mediante la quale si compie la misurazione-disposizione dell’essenza umana. Ma come si può dimostrare che Holderlin pensa l’essenza del poetare come un prender-misure?  Qui non ci è necessario dimostrare nulla.  Ogni dimostrazione è sempre soltanto un’operazione che, in un secondo momento, vuol mettere in luce quel che consegue da certi presupposti.  Secondo il modo in cui essi sono posti, tutto  si può dimostrare.
Invece, poche sono le cose a cui possiamo davvero fare attenzione. Così, basterà che prendiamo in considerazione attenta la parola stessa del poeta. Nei versi che seguono Holderlin pone  anzitutto e propriamente soltanto la questione della misura.  Questa misura è la divinità, con la quale l’uomo si misura.  Il domandare comincia con il verso 29 nelle parole:  “Dio è sconosciuto?”.  Evidentemente no. Se lo fosse, come potrebbe mai,  in quanto sconosciuto, essere la misura?  Tuttavia – e questo importa qui  ascoltare e mantener fermo – Dio, nell’essere che egli è, è  per Holderlin sconosciuto, e proprio in quanto è questo sconosciuto egli è la misura per il poeta.  Perciò il poeta è turbato dalla sconcertante domanda: come può, ciò che rimane nella sua essenza di  sconosciuto, diventare  la misura?  Ciò con cui l’uomo si misura, infatti, deve pur  parte-ciparsi (sich mit-teilen), apparire.  Ma se appare, allora è conosciuto. Eppure il Dio è sconosciuto ed  è tuttavia la misura.  Non solo: il Dio che rimane sconosciuto deve apparire come quello che rimane sconosciuto, in quanto si mostra come colui che Egli è.  E’ la  manifestazione (Offenbarkeit) di Dio, e non anzitutto  Lui stesso, quella che è misteriosa.  Perciò il poeta pone subito la domanda successiva:  “Egli è manifesto come il cielo?”. Holderlin risponde:  “Questo io credo piuttosto”.
  Perché, domandiamo ora noi,  il poeta inclina piuttosto a questa supposizione?   La risposta è nelle parole immediatamente successive.  Sono parole assai concise: “Questa è la misura dell’uomo”.  Qual’ è  la misura per il misurare umano?  Dio?  No. Il Cielo?  No.  La manifestazione del cielo? No.  La misura consiste nel modo in cui il Dio che rimane nascosto proprio come tale è manifesto mediante  il cielo. L’apparire del Dio attraverso il cielo consiste in un disvelamento che lascia vedere quello che si nasconde,  ma lo lascia vedere non  in  quanto cerchi di strappare ciò che è nascosto al suo nascondimento, bensì  solo in quanto custodisce il nascosto nel  suo nascondersi. Così il Dio sconosciuto appare in quanto sconosciuto nella manifesta apertura del cielo. Questo apparire è  la misura  sulla quale si misura. Una misura strana, apparentemente sconcertante per il modo di pensare abituale dei mortali, scomoda per la sbrigatività  superficiale del sapere  di tutti i giorni che pretende di valere come base di ogni pensiero e di ogni riflessione.
Una  misura strana  per il modo di pensare corrente e anche in particolare per ogni modo di pensare  soltanto scientifico, e in nessun caso un metro che si possa semplicemente prendere in mano e adoperare;  ma, in verità, misura ancora più semplice  da maneggiare, solo che le nostre mani non vogliano afferrare,  ma si lascino guidare da gesti che corrispondono alla misura che qui c’è da prendere e assumere. Ciò accade in un “prendere” che non tira mai a  se la misura,  ma la  prende (nimmt) in quel percepire raccolto (im gesammelten Vernehmen)  che rimane  un udire (Horen).
Ma perché questa misura, così estranea  a noi uomini d’oggi,  deve essere  annunciata (zugesprochen)  all’uomo ed  essergli partecipata attraverso il  prender-misura del poetare?  Perché solo questa misura attinge, misurandola,  tutta l’essenza dell’uomo. L’uomo infatti abita in quanto misura diametralmente il  “sulla terra” e il  “sotto il cielo”. Questo “su” e questo “sotto”  sono inscindibili.  La loro compenetrazione reciproca è quella misura  diametrale che l’uomo in ogni momento percorre,  in quanto è come terrestre.  In un frammento (Stuttg. Ausgabe, 2,1, p.334) Holderlin dice:

“Immer, Liebes! gehet
die Erd und der Himmel Halt”.

(Sempre, o caro, va
La terra, e il cielo sta fermo.)

  Poiché  l’uomo è in quanto regge, percorrendola (aussteht),  la dimensione,  la sua essenza deve essere ogni volta misurata. Per questo occorre una misura che colga in una sola  volta tutta quanta la dimensione.  Scorgere questa misura,  misurarla in tutta la  sua ampiezza come misura e assumerla come  misura, questo significa per  il poeta poetare. Il poetare è questo prender-misure, e ciò per l’abitare dell’uomo. Immediatamente  dopo l’espressione:  “Questa è la misura dell’uomo”  vengono,  nella poesia, i versi: “Pieno di merito, ma poeticamente,  abita l’uomo su questa terra”. Sappiamo ora che cosa sia per Holderlin  il  “poetico”? Si e no.  Si, in quanto abbiamo un’indicazione  della prospettiva in cui il poetare va pensato, cioè  come  una forma eminente del misurare.  No, in quanto il poetare,  inteso come il misurare che attinge quella così singolare misura, diventa sempre più misterioso. E misterioso deve restare,  se per altro noi siamo disposti a rimanere, mantenendoci aperti,  nell’ambito dell’essenza della poesia.   Appare tuttavia sorprendete che  Holderlin pensi il poetare come un  misurare.  Ciò è giustificato, almeno fino a che noi ci  rappresentiamo  il misurare nel senso che è familiare a noi. C’è qualcosa di sconosciuto che, con l’impiego di qualcosa  di conosciuto, cioè strumenti di misura e numeri, viene graduato, in tal modo reso conosciuto e quindi delimitato entro un numero e un ordine verificabili in ogni momento. Questo misurare può variare di volta in volta, secondo il tipo degli  apparecchi  impiegati.  Ma chi garantisce che questo modo abituale del misurare, solo e perché è abituale, colga l’essenza del misurare stesso? Quando sentiamo parlare di misura pensiamo immediatamente al numero, e ci  rappresentiamo entrambi, misura e numero, come qualcosa di quantitativo.  Ma l’essenza della misura non è un quantum, come non  lo è l’essenza del numero. Possiamo bensì contare con i numeri,  ma non con l’essenza del numero.  Quando Holderlin vede il poetare come un misurare e soprattutto lo attua egli stesso come un prender-misure, noi dobbiamo anzitutto, per pensare il poetare, considerare  sempre di  nuovo la misura che viene  presa nella poesia;  dobbiamo fare attenzione al modo di questo “prendere”, che non consiste in un afferramento, né in generale in un metter  le  mani su qualcosa, ma in un lasciar-venire  la misura che ci è  assegnata (das Zu-Gemessene). Che cos’è la misura per il  poetare?  La divinità;  dunque Dio? Chi è il Dio?  Forse questa domanda è troppo difficile per l’uomo e troppo prematura.  Domandiamoci dunque  anzitutto che cosa  si debba dire di Dio.  Domandiamo prima soltanto: che cosa è Dio?
Per fortuna, ci vengono in  aiuto dei versi di Holderlin che sono stati  conservati, e che per  argomento ed epoca di composizione appartengono all’ambito della  poesia  “ In lieblicher Blaue bluhet…”.  Essi cominciano così  (Stuttg.  Ausgabe, 2,1, p. 210):

“Was is Gott? unbekaunt, dennoch
Voll Eigenscaften ist das Angesicht
Des Himmels von ihm. Die Blize nemlich
Der Zorn sind eines Gottes. Jemehr ist eins
Unsichtbar, schiKet es sich in Fremdes…”


(Che cos’è Dio? sconosciuto, eppure
Pieno di qualità l’aspetto
Del cielo è da lui. I lampi invero
Sono la collera di un Dio. Tanto più invisibile
E’ uno, se si trasmette in ciò che gli è estraneo.)

   Ciò che resta estraneo a Dio, gli aspetti del cielo,  è ciò che è familiare all’uomo. Che cos’è precisamente?   Tutto ciò che, nel cielo e quindi  sotto il cielo e sulla terra, splende e fiorisce, risuona e olezza,  sale  e si avvicina,  ma anche ciò che  si  allontana e cade,  che si lamenta e tace, che impallidisce e si oscura.  In tutto questo che all’uomo è familiare ma estraneo al Dio, si trasmette lo sconosciuto, per rimanere quivi custodito e albergato come lo sconosciuto.  Il poeta, tuttavia,  chiama al canto della sua parola, tutta la chiarità degli  aspetti del cielo, tutti i suoni dei suoi movimenti e dei suoi venti, e porta così ciò che chiama a splendere e a risuonare. 
Ma il poeta, se è poeta, non descrive il puro e semplice  apparire del cielo e della terra.  Il poeta,  negli aspetti del cielo, chiama quello che proprio nello svelarsi  fa  apparire ciò che si nasconde, e in quanto è ciò che si nasconde.  Nelle apparenze che sono familiari,  il poeta chiama  l’estraneo come  ciò in cui l’invisibile  si trasmette per  rimanere ciò che è: sconosciuto.
   Il poeta  fa  poesia  (dichtet)  solo quando prende la misura,  cioè quando dice gli aspetti del cielo in modo da  adattarsi alle sue apparenze come all’estraneo in cui il Dio sconosciuto si “trasmette” (schiket).  La parola usuale per indicare l’aspetto e l’apparenza di qualcosa è per noi  Bild, “immagine”. L’essenza dell’immagine è nel  “far vedere” qualcosa. Per contro, copie  e imitazioni (Abbilder, Nachbilder) sono già  specie derivate della vera e propria immagine,  che come  aspetto visibile (Anblick)  fa vedere l’invisibile e così lo immagina (einbildet)  in qualcosa che gli è estraneo. Poiché il poetare prende quella misteriosa misura che trova nell’aspetto del cielo, per questo esso parla in  “immagini”. Per questo le immagini poetiche sono delle “immaginazioni”  (Ein-bilduggen)  in  un senso eminente: non pure e semplici fantasie e illusioni, ma immaginazioni come  incorporazioni (Einschlusse) visibili dell’estraneo nell’aspetto di ciò che è familiare.  Il dire poetante delle immagini raccoglie in uno la chiarità e il risuonare dei fenomeni celesti insieme con l’oscurità e il silenzio dell’estraneo (das Fremde).  Attraverso tali aspetti  il Dio sorprende come strano (befremdet). In questo sorprendere, egli rivela la sua incessante vicinanza (Nahe).  Perciò dopo i versi  “Pieno di merito, ma poeticamente, abita l’uomo su questa terra”,  Holderlin nella sua poesia può continuare così:

“…Ma l’ombra
Della notte con le stelle non è
Se così posso osar di parlare. più pura
Dell’uomo, che si chiama immagine della divinità”.

“…l’ombra della notte” – la notte stessa è l’ombra, quel buio che non può mai divenire pura e semplice tenebra, perché  in quanto ombra  resta  sempre in intimità con la luce e da questa proiettata.  La misura che il  poetare  prende  si trasmette, come l’estraneo in cui l’invisibile prende cura della  propria  essenza,  nella familiarità degli aspetti del cielo.  Per questo la misura  ha  la stessa essenza del cielo. Ma il cielo non è pura luce. Lo splendore  delle sue altezze è in sé  l’oscurità della sua ampiezza che  tutto alberga.  Il blu della dolce  azzurrità del cielo è il colore della profondità. Lo splendore del cielo è lo spuntare e il calare del crepuscolo,  che alberga tutto ciò che può darsi a conoscere. Questo cielo è la misura. Perciò il poeta deve necessariamente domandare:

“C’è sulla terra una misura?”

E  non può che rispondere:  “Non ce n’è alcuna”. Perché?  Perché  ciò che nominiamo quando diciamo  “su questa terra” sussiste  solo in quanto l’uomo abita  la  terra e nel suo abitare fa che la terra sia terra.
L’abitare, però, accade  solo quando il poetare avviene e dispiega il  suo essere  (sich eregneit und west),  e ciò in quel senso in cui ormai  presentiamo l’essenza,  cioè come prender misure per ogni misurare. Questo prender misure è il vero e proprio misurare (Vermeessen),  non una semplice misurazione sulla base di  misure prestabilite in vista dell’approntamento di  piani.  Il poetare, quindi,  non può intendersi neppure come un coltivare-costruire nel senso dell’edificare e  apprestare edifici.  E’ il poetare che anzitutto fa  accedere l’abitare dell’uomo nella  sua essenza.  Il poetare è  l’originario  far-abitare.
La frase: l’uomo abita in quanto coltiva-costruisce, ha ora ricevuto il suo senso autentico. L’uomo non  abita in quanto si limita a organizzare il proprio  soggiorno sulla terra sotto il cielo, prendendosi cura,  come contadino, di ciò che cresce, e  insieme  erigendo edifici. Un tal coltivare-costruire è possibile all’uomo  solo se egli già conosce nel  senso del poetante prender-misure.  L’autentico coltivare-costruire accade in quanto vi sono dei poeti,  uomini che prendono la misura per l’architettonica, per la disposizione  strutturata dell’abitare.
  Il 12 Marzo 1804, Holderlin  scriveva da Nurtingen al suo amico Leo von Seckendorf:  “La favola, visione poetica della storia e architettonica del cielo, è ciò di cui  mi occupo principalmente in questo momento, specialmente il suo aspetto nazionale, nella misura in cui e distinto da quello greco” (ed. Hellingrath, V, 2, p.333).

“…poeticamente abita l’uomo”

  Il poetare edifica l’essenza dell’abitare. Non solo poetare e abitare non si escludono reciprocamente. Essi sono anzi in una connessione inscindibile, si richiedono reciprocamente.
“Poeticamente abita l’uomo”.
Noi abitiamo poeticamente?  Probabilmente  noi abitiamo in un modo completamente impoetico. Questo vuol dire forse che la parola del poeta viene smentita e diventa non vera?  No. La verità della sua parola è confermata nel modo più inquietante. Giacché un abitare può essere  impoetico solo perché l’abitare, nella sua essenza, è poetico. Per essere cieco, un uomo deve rimanere qualcuno che,  secondo la sua essenza,  normalmente, ci vede. Un pezzo di legno non può mai diventare cieco. Quando però l’uomo diventa cieco,  c’è sempre ancora il problema di stabilire se la cecità viene da una mancanza e da una perdita, oppure se si fonda su una sovrabbondanza e su un eccesso. Holderlin, nella stessa poesia in cui medita sulla misura che fa da base  a ogni misurare,  dice  ai versi 75-76:  “Il re Edipo ha forse un occhio di troppo”. Così potrebbe darsi che il nostro abitare impoetico, la sua incapacità di prender la misura, derivi da uno strano eccesso di furia  misurante e calcolante.   Il fatto che abitiamo in modo impoetico, e  fino a che punto,  lo possiamo esperire in ogni caso solo se sappiamo il poetico.  Un  rovesciamento di questo abitare  impoetico, se e quando accadrà, possiamo sperarlo solo se manteniamo l’attenzione rivolta al poetico. Come e fino a che punto il nostro fare e non fare possa avere parte in questo rovesciamento possiamo provarlo solo noi stessi, se prenderemo sul serio il poetico. 
Il poetare è  la capacità  fondamentale (Grundvermogen) dell’abitare umano. Ma l’uomo è capace (vermag) del poetare  sempre e  soltanto nella  misura in cui la sua essenza è traspropriata (vereignet) a ciò che da parte sua ama e rende possibile (mag)  l’uomo, e che perciò adopera e salvaguarda  (braunch)  la  sua essenza. Secondo la diversa  misura di questa traspropriazione,  il poetare è di volta in volta  autentico o inautentico.
Per questo, anche,  il poetare  autentico non accade in ogni tempo. Quando, e per quanto tempo c’è il poetare  autentico?   Holderlin lo dice nei versi che abbiamo letto (26/29). Il commento di essi è stato intenzionalmente tralasciato fino ad ora.  I versi dicono:

“… Fino a che l’amicizia,
L’amicizia schietta dura ancora nel cuore,
Non fa male l’uomo a misurarsi
con la divinità…”

   “L’amicizia”: che cos’è?  una  parola  innocua, che però Holderlin accompagna con l’aggettivo, maiuscolo, “die Reine”, la schietta.  “L’amicizia”:  questa parola, se la prendiamo alla lettera, è   l’ammirevole traduzione holderliniana del greco charis.  Della charis Sofocle, nell’Aiace, (v. 522), dice:

      “è la grazia (Huld), infatti, che sempre ri-chiama la grazia”.

   “Fino a che l’amicizia, l’amicizia schietta, ancora dura nel cuore…”.  Holderlin,  con un modo di esprimersi che spesso usa, dice  “am Herzen”, e non  “im Herzn” (possiamo cercar di rendere la differenza in italiano con: “nel cuore”  invece che  semplicemente  “in cuore”, che sembra più debole);  ciò significa:  arrivata  fino all’essenza dell’uomo, di quest’uomo che abita, arrivata  come appello della  misura al cuore, in tal modo che questo si volga verso la misura.
Fino a che dura questo venire della grazia  (Huld) è bene che l’uomo si misuri con la divinità.  Se questo misurarsi accade, allora l’uomo  fa poesia (dichtet) a  partire dall’essenza del poetico.  E se accade il poetico, allora l’uomo abita  poeticamente  su questa terra;  allora, come Holderlin dice nella sua ultima poesia,  “la vita dell’uomo”  è un “vivere abitando” (Stuttg. Ausgabe, 2,1, p. 314):

“Die Aussicht
Wenn in die Ferne geht der Menschen wohnend Leben,
Wo in die Ferne sich erglanzst die Zeit der Reben,
Ist auch dabei des Sommers leer Gefilde,
Der Wald erscheint mit seinem dunklen Bilde.
Dass die Natur erganzt das Bild der Zeiten,
Dass sie verweilt, sie schnell vorubergleiten,
Ist aus Vollkommenheit, des Himmels Hobe glanzet
Den Menschen dann, wie Baume Bluth umkranzet”.

“ La veduta.
Quando il vivere abitando dell’uomo se ne va lontano
là dove, nella lontananza, si stende splendendo il tempo delle vigne,
Anche là ci sono i campi vuoti dell’estate,
Il bosco appare con le sue scure immagini.
Che la natura compia il quadro delle stagioni,
Che essa permanga, e quelle passino rapide,
Questo è perfezione, l’altezza del cielo splende
Allora per gli uomini, come alberi in fiore li incorona.”

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