Friedrich Holderlin, Il romanzo “Iperione”, p. 410
L’Iperione è un romanzo filosofico. Ma non nel senso in cui volevano esserlo i romanzi del Wieland e della sua scuola. Il suo problema non è il conflitto di punti di vista storici bell’e fatti, come li ha tramandati la storia della filosofia. Nessun modello di nessuna specie, nessun sistema tradizionale, nessuna stima convenzionale dei valori dell’esistenza si frappone fra lui e l’esistenza stessa.
… Il romanzo di Holderlin non vuole esprimere astrattamente il carattere della vita in ogni tempo in cui ci sia stata la vita e in ogni luogo in cui essa si svolga, ma farlo comprendere nel destino dei suoi eroi.
In ogni esistenza singola c’è una duplicità. E’ il fenomeno di una forza che si esplica nella natura, e come tale ha valore infinito. Ma manifestandosi come una cosa singola, finita, individuale, limitata da altra cosa singola, separata da ogni cosa che vive per sé, si accompagnano alla sua felicità e alla sua bellezza la finitezza e la sofferenza.
Nell’Iperione viene annunciato l’Uno-Tutto che si differenzia in se stesso. Non è una dottrina metafisica, ma l’esperienza di un artista ebro di bellezza. Nello splendore della natura, nella interiorità di un uomo fatta di bontà e di forza, nel lieto sentimento della forza stessa, in ogni momento di felicità suprema si rivela una proprietà del fondo delle cose, che ad esso ci attrae in atto di amore e di adorazione, ma si rivela però con maggiore profondità nel dissolversi degli uomini l’uno con l’altro – tanto più profondamente quanto più la fusione è perfetta.
L’antica dottrina di Holderlin della
struttura del mondo sorretta dall’amore si presenta qui in una formulazione
panteistica.
Tutti i versi dei grandi poeti, le opere di tutte le arti, parlano di questa
profondità insita nelle cose. Ogni individuo ha un suo valore particolare. Le
frasi di Holderlin concordano fin nelle parole con i Monologhi dello
Schleiermacher. “Che cosa vuol dire perdita, se l’uomo si ritrova nel proprio
mondo? In noi è tutto. A che poi l’uomo si rattrista se un capello cade dal suo
capo? A che egli cerca affannosamente la schiavitù, quando potrebbe essere un
Dio?”
Se più tardi Schelling vide nell’arte l’organo per l’intuizione del principio
divino dell’universo, è precisamente questo che Holderlin insegnò. Ed anche il
misticismo panteistico di Hegel è anticipato da Holderlin.
Così pure Holderlin parla pure della finitezza e del dolore del mondo da poeta,
in virtù dell’energia personale con cui
egli vive queste esperienze.
In quanto l’eterno entra nel processo temporale, la sua apparizione cade in balia del dolore e dell’effimero. (vedi Il significato delle tragedie).
Nel momento di felicità suprema, Quando Iperione tocca per la prima volta le
labbra di Diotima, sa già la sua fine.
Il primo abbozzo dell’Empedocle, che è contemporaneo al lavoro intorno all’Iperione, esprime come tutto ciò che è legato alla
legge della successione non può non essere privo di pace, di stabilità e di
gioia.
E’ caratteristico che l’Iperione riconduca la dottrina dell’Uno-Tutto alla formula di Eraclito, il quale in pieno
panteismo come quello che nelle isole e sulle coste ioniche affermava la gioia
della vita, ha dato potente espressione al tragico sentimento della caducità
fondato sulla successione del tempo.
E poiché inoltre l’uomo si scinde nel molteplice, la lotta delle forze singole
assurge a forma di vita.
E in questa lotta la massa e la brutalità devono avere il sopravvento sulle
nature nobili e ideali. I rari, i buoni nel mondo sopportano, appunto perché
sono così. I barbari che vivono attorno a noi straziano le nostre migliori
forze, prima che siano formate. E’ pericoloso “esporre tutta quanta la propria
anima, nell’amore o nel lavoro, alla realtà distruttrice”. Quanto più pura è
un’anima, tanto più essa è delicata e vulnerabile. Da ciò scaturisce quella
coscienza aristocratica di Holderlin in cui egli è affine a Nietzsche. Non per
agire sulla nazione egli brama di produrre una grande opera d’arte, ma per
saziare la sua anima assetata di perfezione.
Sarebbe vano voler migliorare i barbari, essi devono soltanto non intralciare l’attività dei grandi.
Inoltre: poiché ognuno di questi è un individuo, egli è nel più profondo solo con se stesso, separato dagli altri. “Per il cuore selvaggio degli uomini nessuna patria è possibile”.
Qualcosa ci spinge a lasciare la nostra situazione per “precipitarci nella fredda terra straniera di un qualsiasi altro mondo”, “nella notte dell’ignoto”.
Si, in noi è un segreto pericoloso impulso “di uccidere le gioie dell’affinità”.
Infine, dalla legge dell’individuazione medesima scaturisce la profonda contraddizione che è nella nostra anima fra il tendere all’infinito e la felicità del limite.
Se abbracciamo tutto il nostro essere, la pienezza della vita è appunto legata alla forza del dolore. “Quanto più imperscrutabile è il dolore umano, tanto più questo è imperscrutabilmente forte”.
Per Holderlin “è una antica e ferma parola del destino, che una nuova felicità sorge per il cuore, se esso resiste e vive con pazienza la mezzanotte dell’angoscia”, e “soltanto del dolore profondo risuona divinamente per noi il canto della vita come un canto di usignolo nelle tenebre”.
Com’è strano il rapporto di questo romanzo con il travaglio filosofico dei contemporanei!
Schelling passò alla prima affermazione del suo panteismo nel 1795 con il suo scritto sull’ Io come principio della filosofia. Così questa sua svolta divenne pubblica solo dopo il frammento dell’Iperione apparso nella Thalia, che già conteneva il panteismo di Holderlin. Il punto da cui muove il panteismo del filosofo era nella legislazione universale dell’Io, la quale trascende l’individuo. Il panteismo di Holderlin era quindi totalmente diverso da quello di Schelling. Le sue condizioni estrinseche erano nel generale movimento letterario e poetico del tempo. Shaftesbury, Hemsteruhuis, Herder, il Werther di Goethe e il suo Frammento del Faust del 1790, le Lettere filosofiche di Schiller ne sono le pietre miliari. In quel movimento si sviluppò la Weltanschauung (Concezione del mondo, della vita, e della posizione in esso occupata dall’uomo) panteistica. S’incontrava con esso il particolare carattere poetico di Holderlin. Ogni fase del romanzo mostra che nello spirito di Holderlin continua a vivere la dottrina dell’Uno-Tutto. Già secondo il frammento della Thalia è dalle vicende intime che scaturisce la grande esperienza della liberazione dell’anima mediante il suo abbandono al Tutto, e ancora nell’ultima stesura del romanzo nessun mutamento è stato apportato a questo riguardo. Ma Kant e Fichte gli proponevano adesso il problema di giustificare questo punto di vista. Possediamo del tempo di Jena, in cui fu più forte l’influenza di Fichte sul poeta, un singolare documento, che ci mostra in triplice formulazione il lavorio intorno a questo problema. Egli riconosce il pensiero fondamentale di Fichte; ciò che esiste per l’Io è il suo fenomeno; ma l’entusiasmo di Platone gli apre il mondo intellegibile che è dietro l’io finito.
“Lo spirito puro non si occupa della materia, ma, se non è cosciente di nessuna cosa, non esiste per lui un mondo, poiché nulla è fuori di lui”. Poiché dunque la coscienza affiora dapprima nell’io finito appunto in virtù della sua limitazione, questo io si consumerebbe se alla sua brama d’amore non venissero incontro le bellezze del mondo. Così il poeta afferma anche qui, di fronte a Fichte, la sua dottrina dell’Uno-Tutto. Quale effetto dovettero quindi esercitare su di lui l’incontro che, al ritorno in patria, ebbe con Schelling, e la lettura che fece dei suoi scritti. Proprio allora questi tracciava alla filosofia una via che dall’Io portava all’Uno-Tutto.
Più profonda della concordanza con Schelling è però l’affinità di idee che legava Holderlin a Hegel. E questa affinità dà tanto più nell’occhio, inquantoché una influenza estrinseca di Hegel sull’amico poeta è dimostrabile per il secondo volume dell’Iperione, e non prima.
In Svizzera Hegel aveva intrecciato con i suoi studi teologici delle idee che hanno una sorprendente affinità con quelle del nostro romanzo. Anche egli muoveva dalla contrapposizione e dalla scissura che sono in ogni essere finito. Alla vita come tale si accompagna il dolore. Mèta di ogni superiore sviluppo deve essere il superamento di queste disunioni. Il sentimento, che si esplica nelle singole azioni relative alle cose, rimane sempre limitato, condizionato dal punto in cui esso supera la divisione (dovrebbe essere: condizionato dall’esperienza del limite della divisione). Una forma di superiore unificazione di ciò che è scisso è l’amore, ma anche nell’amore non viene superata la separazione di un individuo dall’altro e di essi dal mondo.
Invano l’anima bella cerca pace nella dedizione, nelle lacrime della compassione, in un incessante agire in favore degli altri; anche nella più viva unione degli uomini c’è ancor sempre separazione – è la legge umana.
Solo la coscienza religiosa dell’unione di tutta la vita nell’amore supera tutte le scissure.
La concordanza tra il poeta e il filosofo trae la sua origine dall’affinità del loro procedimento. Anche Hegel prende in quel tempo le mosse dalla vita; per mezzo delle categorie contenute nella vita egli determina l’assoluto. Formula così quali momenti dell’assoluto l’unità, l’antitesi, la riflessione su se stesso, il dolore dell’antitesi, il potenziamento della coscienza della sintesi. Ma questi ed altri pensieri di Hegel affini ad Holderlin rimasero fra le sue carte. Né il loro soggiorno comune a Francoforte può avere influito sulle idee di Holderlin ora esposte; Hegel giunse infatti a Francoforte nel Gennaio del 1797, il primo volume dell’Iperione però, che esprimeva tutte queste idee, apparve già nella fiera di Pasqua.
La poesia Eleusi di Hegel conteneva oscuri accenni panteistici.
“Io mi abbandono all’Incommensurabile. Sono in Lui, sono tutto, sono l’Incommensurabile. Il pensiero riflesso sente l’estraneità, il raccapriccio dell’infinito e, dallo stupore, esso non coglie la profondità di questa intuizione”.
Solo nel mito greco riceve forma visibile il divino.
Questi accenni poterono rafforzare il poeta nelle sue idee, ma non gli dicevano nulla di nuovo.
Da questo intimo moto di Holderlin scaturisce la motivazione della dottrina dell’Uno-Tutto, come essa si trova nel romanzo definitivo. Holderlin determina il rapporto dell’intelletto e della ragione con l’intuizione dell’Uno-Tutto, che il poeta improvvisamente ha nei momenti di entusiasmo (ebrezza) per la bellezza del mondo.
L’intelletto è soltanto la “conoscenza dell’esistente”, ossia la riflessione sull’empiricamente dato. La ragione è per lui l’attività spirituale, ch’egli aveva visto operante nella formazione del sistema di Fichte: “esigenza di un progresso senza fine nell’unificazione e differenziazione di una materia possibile”.
Entrambi, intelletto e ragione, sono per sé incapaci di cogliere l’infinito. Ma dove l’entusiasmo (vedi Vigolo: l’ebrezza – dunque l’estasi, l’uscire fuori) dell’artista coglie, in una esperienza viva, la bellezza, gli si svela l’essenza del divino. Poiché l’Uno, che nella varietà delle sue differenze si presenta come un Tutto, è il bello, e in questa sua realtà si schiude in pari tempo l’essenza del Divino.
Così la filosofia diventa possibile soltanto mediante l’esperienza viva del bello nell’arte; essa analizza ciò che è contenuto in questa esperienza, scompone e di nuovo ricompone in unità di pensiero ciò che ha scomposto; così penetra con la conoscenza nelle profondità dell’Uno-Tutto.
“La poesia è principio e termine della filosofia”.
La forza creatrice è soltanto nell’entusiasmo (ebrezza). Dall’arte promana anche la religione.
Così la filosofia potè sorgere soltanto in Grecia. Per l’egiziano l’essere supremo è “una potenza velata, un orrendo enigma”: “la muta oscura Iside è un’infinità vuota”. Il nord risospinge lo spirito in se stesso; troppo presto “lo spiritosi accinge al ritorno in sé”: vi dominano l’intelletto e la ragione, e quindi la riflessione. Proposizioni che ricompaiono perfettamente identiche in Hegel. Sono pure entrambi d’accordo nella speranza di una nuova Chiesa, che porterebbe una intima armonia nel genere umano. Essa annuncerà, secondo Holderlin, una religione della bellezza: ciò sarà l’inizio di una nuova storia del mondo.
La forma artistica dell’opera scaturisce dal compito di rappresentare il significato della vita sulla materia data dagli avvenimenti: Iperione, in cui si compiva la storia dello sviluppo interiore, che dopo lo svolgersi delle sue esperienze si è sollevato alla comprensione del loro significato, deve farne lui stesso il racconto. Egli lo fa in lettere ad un amico, che assumono però il carattere di confessioni solitarie. E l’artificio, con cui Holderlin assolve questo compito filosofico, consiste in ciò: la successione del corso della vita, come la rappresenta la successione delle lettere, è collegata nella sintesi cosciente di una visione retrospettiva. Il combattimento è finito; Iperione, rimasto solo, volge lo sguardo indietro, separato dagli uomini ma accolto nell’unità religiosa della natura. Ancora impressionato dagli ultimi avvenimenti, rivive tutto l’accaduto come cosa presente. Ed ogni cosa è pervasa dal sentimento che si è impadronito di lui: il totale abbandono cioè della sua esistenza mortale all’eterna natura che tutto abbraccia.
Essa è ovunque, è sempre stata. Spettatrice di tutto ciò che è stato. Questo forma il tono fondamentale di ciascuna delle lettere. Essa verdeggia e fiorisce intorno all’eremita solitario come al tempo in cui egli vide Diotima al primo sbocciare della primavera. E appena questo naufragare nella sua eterna armonia, in cui si è adesso risolta ogni lotta della vita, risuona per entro le scene della natura, che accompagnano le più belle e più aspre vicende del suo destino, nasce una forma narrativa che produce un effetto singolare: un particolare miscuglio di sentimento, che forma la tonalità fondamentale del romanzo: fra l’intuizione della vicenda mutevole della vita la coscienza dell’infinito.
Le prime parole erano state per la natura infinta, e alla natura ritornano le ultime. Il fenomeno è un brillar della luce sulle acque, un fugace rosseggiar del sole a sera sui monti, uno scherzar del vento tra i rami.
“O natura, tu con i tuoi dei! io ho finito di sognare il sogno delle cose umane e dico: tu soltanto vivi, e ciò che i senza pace hanno ottenuto a forza ed escogitato, si liquefa come perle di cera, alla tua fiamma!
… Cosa sono dunque la morte ed il gemere degli uomini? Ahimè, molte ne han fatte di parole vuote gli uomini strani. Accade pur tutto per un motivo di gioia, e termina con la pace. Come la discordia degli amanti sono le dissonanze del mondo. In mezzo alla discordia è la riconciliazione, e tutto ciò ch’è disgiunto si ritrova”.
I ritmi di questo inno, in cui si risolve tutta la melodia del romanzo, si ritrovano in tutti i passi più ispirati dell’Iperione. E’ il mezzo artistico più caratteristico di Holderlin. Il ritmo nella lingua nell’articolazione della tragedia è per lui il simbolo dell’ultimo e supremo concetto della sua filosofia – del ritmo della vita. In esso il poeta vedeva l’espressione adeguata alla legge che è nel movimento della vita, così come Hegel ha trovato questa legge nel progresso dialettico dei concetti. Anche se Holdelin ha pubblicato solo più tardi questa dottrina profondamente pensata del ritmo, che in un poeta regola tutto, persino ogni suo verso, il senso di tale sintesi era in lui già operante quando concluse l’Iperione, ed è possibile che egli avesse da tempo dei concetti sull’argomento.