da OPERE DI FRIEDRICH NIETZSCHE, VOL. III TOMO II, Adelphi 1973, traduzione di Giorgio Colli.
La tragedia greca perì in modo diverso da tutti gli antichi generi d’arte affini: finì tragicamente, mentre tutti quegli altri scomparvero con la morte più bella.
Se infatti è conforme a uno stato naturale ideale esalare l’ultimo respiro con una bella discendenza e senza spasimi, la fine di quei generi artistici antichi ci mostra un tale mondo ideale; essi trapassano e si estinguono, , mentre già la loro figliolanza più bella leva il capo vigorosamente.
Con la morte del dramma musicale greco si produsse invece un enorme vuoto, ovunque e profondamente sentito; si disse che la poesia stessa era andata perduta e si inviarono con scherno nell’Ade gli intristiti, smagriti epigoni, affinché là si saziassero con le briciole dei maestri.
E come si esprime Aristofane, si sentì una tale intima e calda nostalgia verso l’ultimo dei grandi morti, come quando qualcuno è colto da una improvvisa voglia di crauti.
Ma quando poi fiorì realmente un nuovo genere d’arte, che venerava nella tragedia la sua precorritrice e maestra, si poté constatare con terrore che esso portava sì i lineamenti della madre, ma proprio quelli che essa aveva mostrato nella sua lunga lotta con la morte. Questa lotta della tragedia con la morte si chiama Euripide e il posteriore genere artistico è noto come commedia attica nuova.
In essa sopravvisse la forma degenerata della tragedia, in memoria della sua dipartita oltremodo laboriosa e violenta. E’ nota la straordinaria venerazione in cui Euripide fu tenuto presso i poeti della commedia attica nuova. Uno dei più famosi fra questi, Filemone, dichiarò che si sarebbe lasciato impiccare subito per poter visitare Euripide agli Inferi, purché si fosse convinto che il defunto possedesse ancora vita e intelletto. Quello che peraltro Euripide ha in comune con Menandro e Filemone, e che agiva per questi ultimi in modo così esemplare, si può sintetizzare con la massima brevità nella formula, che essi avevano portato lo spettatore sulla scena.
Prima di Euripide i personaggi erano uomini eroicamente stilizzati, in cui si riconosceva subito la derivazione dagli Dei e dai semidei della tragedia più antica.
Lo spettatore vedeva in essi un passato ideale della grecità, e insieme anche la realtà di tutto ciò che viveva nella propria anima nei momenti più elevati.
Con Euripide penetrò sulla scena lo spettatore, ossia l’uomo della realtà della vita quotidiana.
Lo specchio, in cui prima erano stati riflessi solo i tratti grandi e arditi, diventò più fedele, e con ciò più volgare. Lo splendido panneggiamento divenne in certo modo più trasparente, la maschera diventò una mezza maschera: le forme della quotidianità si posero in chiara evidenza.
Quell’immagine autenticamente tipica del Greco, la figura di Odisseo, era stata potenziata da Eschilo nel carattere grandioso, astuto e nobile di Prometeo.
Tra le mani dei nuovi poeti tale figura si abbassò nella parte dello schiavo domestico, che tanto spesso sta al centro dell’intero dramma quale sfacciato intrigante. Ciò che Euripide si ascrive a merito nelle Rane di Aristofane, di aver estenuato con la sua idroterapia l’arte tragica, e di avere diminuito la sua pesantezza, si applica anzitutto alle figure degli eroi: in sostanza lo spettatore vedeva e ascoltava sulla scena euripidea il proprio sosia, certo avvolto nell’abito sontuoso della retorica.
L’idealità si è ritirata nella parola, ed è fuggita dal pensiero.
Proprio qui tuttavia incontriamo l’aspetto brillante, che salta all’occhio, delle novità euripidee: il popolo ha imparato da lui a parlare; di ciò si vanta egli stesso nella gara con Eschilo: per mezzo suo il popolo ora sa
comportarsi secondo le regole dell’arte, misurare / verso su verso col compasso, osservare, pensare, guardare, / comprendere, abbindolare, amare, insinuarsi, sospettare / negare, ponderare su questo e su quello.
Per mezzo suo si è sciolta la lingua alla commedia nuova, mentre sino a Euripide non si sapeva come far parlare sulla scena, in modo decente, la vita quotidiana. Il medio ceto borghese, su cui Euripide fondava le sue speranze politiche, prese ora la parola, dopo che sino a quel momento i maestri della lingua erano stati nella tragedia il semidio e nella commedia antica il Satiro ebbro oppure il semidio.
Ho rappresentato le cose domestiche, i luoghi dove viviamo e ci agitiamo / e in tal modo mi esposi al giudizio, poiché tutti conoscono queste cose / e hanno giudicato la mia arte.
Anzi egli si vanta:
io
ho solo inoculato a costoro tutt’intorno
una siffatta sapienza, mentre concedevo pensiero
e intendimento all’arte: cosicché qui
ormai ciascuno filosofa e amministra casa, campi e bestiame
con tanta prudenza quanta mai ha avuto prima;
e sempre riflette e domanda:
Perché? A che scopo? Chi? Dove? Come? Che cosa?
A che punto è questo? Chi mi ha preso quello?
Fu una massa siffattamente preparata e illuminata, da cui nacque la commedia nuova, quel gioco di scacchi drammatico con il suo gusto spiccato per i colpi d’astuzia. Per questa commedia nuova Euripide è divenuto in certa misura l’istruttore del coro; questa volta era però il coro degli ascoltatori che doveva impratichirsi. Non appena costoro furono in grado di cantare in modo euripideo, prese inizio il dramma dei giovani signori indebitati, dei vecchi frivoli e bonari, delle etere alla Kotzebue, degli schiavi domestici prometeici.
Ma Euripide come istruttore del coro venne incessantemente esaltato; anzi ci si sarebbe ammazzati per imparare ancora da lui qualcosa, se non si fosse saputo che i poeti tragici erano altrettanto morti quanto la tragedia. Con essa peraltro il Greco aveva perduto la fede nella propria immortalità, non solo la fede in un passato ideale, ma anche la fede in un futuro ideale. L’espressione del noto epitaffio “in vecchiaia frivolo e capriccioso” vale anche per la tarda grecità.
L’attimo e l’arguzia sono ora le divinità supreme; predomina ora, almeno secondo i sentimenti, il quinto stato, quello dello schiavo.
Nel gettare un tale sguardo retrospettivo, si è esposti alla tentazione di muovere accuse ingiuste, ma rovento, contro Euripide in quanto presunto seduttore del popolo, e di concludere eventualmente con la parole di Eschilo: “Quale male non proviene da costui?”.
Tuttavia, per molti che siano i cattivi influssi fatti derivare da lui, si deve pur sempre tenere per fermo che Euripide agì in perfetta buona fede e che sacrificò grandiosamente tutta la sua vita a un ideale.
Nel modo in cui combatté contro il male enorme che egli credette di riconoscere, nel modo in cui come individuo si contrappose a esso con la violenza del suo talento e della sua vita, ancora una volta si manifesta lo spirito eroico dell’epoca antica di Maratona.
Si può anzi dire che in Euripide il poeta è divenuto un semidio, dopo che quest’ultimo per opera sua era stato bandito dalla tragedia. Peraltro quell’enorme male che egli credette riconoscere, e contro il quale combatté così eroicamente, era la decadenza del dramma musicale.
Ma dove Euripide scoprì la decadenza del dramma musicale? Nella tragedia di Eschilo e di Sofocle, dei suoi contemporanei più anziani. Ciò è assai strano. Non si sarà sbagliato? Non sarà stato ingiusto verso Eschilo e Sofocle? Proprio la sua reazione contro la presunta decadenza non era forse il principio della fine? Tutti questi problemi ci si palesano a un tratto.
Euripide era un pensatore solitario, per nulla nel gusto della massa allora dominante, presso la quale egli suscitava perplessità come tipo stravagante e accigliato. La fortuna non gli era benigna, tanto poco quanto la folla: e poiché per un poeta tragico di quel tempo era appunto la massa che dava la fortuna, si comprende allora perché durante la sua vita egli abbia raggiunto così raramente l’onore di una vittoria tragica. Che cosa spingeva talmente questo poeta dotato contro la corrente dominante? Che cosa lo distoglieva da una strada percorsa da uomini come Eschilo e Sofocle e illuminata dal sole del favore popolare? Una cosa sola, appunto quella convinzione della decadenza del dramma musicale.
Tale convinzione l’aveva acquisita sui banchi degli spettatori del teatro. Per lungo tempo egli aveva osservato con la massima attenzione, quale abisso si aprisse tra una tragedia e il pubblico ateniese. Ciò che per il poeta era stato la cosa più alta e più difficile non veniva affatto sentito come tale dallo spettatore, bensì come qualcosa di indifferente. Parecchi elementi casuali, non accentuati dal poeta, colpivano la massa con effetto istantaneo. Riflettendo su questa incongruenza tra l’intenzione poetica e l’effetto, egli giunse gradualmente a una forma artistica la cui legge capitale era: “tutto deve essere razionale, affinché tutto possa venir compreso”.
Ogni singolo elemento fu portato ora di fronte al tribunale di questa estetica razionalistica, anzitutto il mito, i caratteri principali, la struttura drammaturgica, la musica corale, e da ultimo e nel modo più deciso il linguaggio.
Quello che dobbiamo sentire così frequentemente in Euripide come come difetto e regresso poetico, in confronto alla tragedia sofoclea, è il risultato di quell’energico processo critico, di quella temeraria razionalità. Si potrebbe dire che qui compare un esempio di come il recensore possa diventare poeta.
Usando la parola “recensore” tuttavia, non ci si deve far determinare dall’impressione di quegli esseri gracili e insolenti, che nelle questioni sull’arte ormai non lasciano più aprir bocca al nostro pubblico. Euripide cercò appunto di fare meglio dei poeti da lui giudicati: e chi non può sostenere le sue parole con l’azione come invece lui fece, ha poco diritto di farsi udire pubblicamente con la sua critica.
Voglio e posso citare qui un solo esempio di quella critica produttiva, sebbene propriamente sarebbe necessario indicare quel punto di vista riguardo a tutte le differenze del dramma euripideo. Niente può essere più contrastante con la nostra tecnica scenica di quanto lo sia il prologo in Euripide. Che un singolo personaggio, divinità o eroe, si presenti all’inizio del dramma e racconti chi è, che cosa precede l’azione, che cosa è accaduto finora, e anche che cosa accadrà nel corso del dramma, è un modo di procedere che un poeta drammatico moderno designerebbe addirittura come proterva rinunzia all’effetto della tensione.
Si sa già tutto quello che è accaduto e quello che accadrà. Chi vorrà attendere la fine? Euripide rifletteva in modo del tutto diverso. L’effetto della tragedia antica non era mai basato sulla tensione, sull’eccitante incertezza circa quello che sarebbe avvenuto poi, ma piuttosto sulle grandi scene di pathos, ampiamente costruite, in cui il fondamentale carattere musicale del ditirambo dionisiaco di nuovo risonava possentemente.
Peraltro, ciò che più fortemente ostacola il godimento di tali scene, è un anello mancante, una lacuna nel tessuto dell’antefatto; finché l’ascoltatore ancora deve calcolare che cosa significhi questo o quel personaggio, che senso abbia questa o quella azione, per lui è impossibile immergersi pienamente nei dolori e nelle azioni dei protagonisti, ossia è impossibile la compassione tragica. La tragedia eschilo-sofoclea era per lo più costruita assai ingegnosamente, per dare come per caso in mano allo spettatore, nelle prime scene, tutti i fili necessari alla comprensione; in tale caratteristica si rivelava quella nobile maestria, che per così dire maschera ciò che è necessario e formale.
Tuttavia Euripide credette di notare che, durante quelle prime scene, lo spettatore era in particolare agitazione per risolvere il problemino d’aritmetica dell’antefatto, e che per lui andavano perdute le bellezze poetiche dell’esposizione. Perciò egli scrisse un prologo come prospetto, e lo fece declamare da un personaggio degno di fiducia, ina divinità. Egli poté ormai elaborare più liberamente anche il mito, poiché attraverso il prologo poteva eliminare ogni dubbio riguardo alla propria configurazione del mito. Nella piena coscienza di questi suoi vantaggi drammaturgici, Euripide rimprovera Eschilo nelle Rane aristofanee:
“Così mi rivolgerò ai tuoi prologhi,
per criticare in primo luogo la prima parte della tragedia
di questo grande spirito!
Egli è confuso quando parla dei fatti”.
Ma ciò che vale per il prologo, vale altresì per il famigerato deus ex machina: esso traccia il programma del futuro, come il prologo indica il prospetto del passato. Tra il prologo e l’epilogo epici si trova la realtà drammatico-lirica e il presente.
Euripide è il primo drammaturgo che segua coscientemente un’estetica. Egli cerca intenzionalmente ciò che è più comprensibile: i suoi eroi sono realmente così come parlano. E si esprimono anche completamente, mentre i caratteri eschileo-sofoclei sono assai più profondi e più pieni rispetto alle loro parole: propriamente non fanno che balbettare su di sé. Euripide crea le figure e al tempo stesso le scompone: dinanzi alla sua anatomia non c’è più nulla di nascosto in esse.
Se Sofocle disse di Eschilo, che egli faceva il giusto benché inconsciamente, Euripide allora avrebbe avuto l’opinione che Eschilo non faceva il giusto, poiché agiva inconsciamente. Ciò che Sofocle sapeva in più, rispetto a Eschilo, e di cui si vantava, non era nulla che si trovasse al di fuori del campo delle scaltrezze tecniche; nessun poeta dell’antichità era stato in grado, sino ad Euripide, di sostenere veramente le sue cose migliori con ragioni estetiche.
L’aspetto mirabile di tutto quello sviluppo dell’arte greca consiste infatti proprio in questo, che il concetto, la coscienza, la teoria non si erano ancora manifestati, e che tutto quanto il discepolo poteva apprendere dal maestro si riferiva alla tecnica. E allo stesso modo anche quello che dà per esempio a Thorwaldsen quell’apparenza antica, sta nel fatto che egli rifletteva poco, e parlava e scriveva male, nel fatto che non aveva ancora preso coscienza della vera e propria sapienza artistica.
Euripide è avvolto invece da una luce offuscata, peculiare agli artisti moderni: il carattere quasi antigreco della sua arte si può sintetizzare nel modo più breve con il concetto di socratismo.
“Tutto deve essere cosciente, per essere bello” è il principio euripideo parallelo a quello socratico “tutto dev’essere cosciente, per essere buono”. Euripide è il poeta del razionalismo socratico.
Nell’antichità greca si sentì il collegamento tra questi due nomi, Socrate ed Euripide. In Atene era assai diffusa l’opinione che Socrate aiutasse Euripide a poetare: da ciò si può dedurre con quale finezza si avvertisse nella tragedia euripidea il suono del socratismo. I fautori del “buon tempo antico” solevano pronunciare assieme i nomi di Socrate e di Euripide in quanto corruttori del popolo. E’ tramandato inoltre che Socrate si asteneva dal frequentare la tragedia, mettendosi fra gli spettatori soltanto quando veniva rappresentato un nuovo dramma di Euripide. I due nomi compaiono accomunati in un senso più profondo nel famoso responso dell’oracolo delfico, che agì in modo così determinante sull’intera visione della vita di Socrate. La sentenza del dio delfico, secondo cui Socrate era il più sapiente degli uomini, conteneva al tempo stesso il giudizio che a Euripide spettasse il secondo premio nella gara della sapienza.
E’ nota la diffidenza con cui dapprima Socrate accolse il responso del dio. Per vedere dunque se il dio aveva ragione, egli andò in giro presso gli uomini politici, gli oratori, i poeti e gli artisti, allo scopo di riconoscere se non si potesse trovare qualcuno che fosse più sapiente di lui. Ovunque trova giustificata la sentenza del dio: egli vede gli uomini più famosi del suo tempo dominati dalla presunzione e trova che non hanno una giusta coscienza neppure riguardo alla propria attività, bensì la esercitano solo per istinto.
“Solo per istinto”, questa è la parola d’ordine del socratismo. Mai il razionalismo si è rivelato più ingenuamente che in quella tenenza nella vita di Socrate. Mai gli si è presentato un dubbio sulla giustezza di tutta l’impostazione del problema. “La sapienza consiste nel conoscere” e “non si sa nulla che non si possa esprimere e di cui non si possa convincere altri”.
Questo pressappoco è il principio della strana e imperiosa attività missionaria di Socrate, che dovette radunare intorno a sé una nube del più nero risentimento, appunto perché nessuno era in grado di attaccare il principio stesso in antitesi a Socrate: a tal fine ci sarebbe stato bisogno di quello che non si possedeva affatto, di quella superiorità socratica nell’arte della discussione, nella dialettica.
Dal
punto di vista infinitamente approfondito della coscienza germanica quel
socratismo appare come un mondo del tutto assurdo; ma si deve ritenere che già
ai poeti e agli artisti di quel tempo Socrate apparisse almeno assai noioso e
ridicolo, soprattutto quando con la sua eristica improduttiva faceva valere
altresì la serietà e la dignità di una missione divina.
I fanatici della logica sono insopportabili come vespe. E ora si immagini,
dietro tale intelletto unilaterale, una volontà smisurata, e si pensi alla più
personale violenza originaria di un carattere integro, accompagnata da una
bruttezza esterna bizzarramente attraente: si comprenderà allora come
persino un grande talento quale Euripide,
proprio per la serietà e la profondità del suo pensiero, dovette essere trascinato tanto più inevitabilmente sull’aspro
cammino di una creazione artistica cosciente.
La decadenza della tragedia, quale credette di vedere Euripide, era una fantasmagoria socratica: poiché nessuno sapeva tradurre sufficientemente in concetti e parole la sapienza dell’antica tecnica artistica, Socrate e con lui il sedotto Euripide negarono quella sapienza. A quella “sapienza” indimostrata Euripide contrappose allora l’opera d’arte socratica, senza dubbio ancora sotto l’involucro di numerosi accomodamenti all’opera d’arte dominante.
Una generazione posteriore riconobbe giustamente che cos’era l’involucro e che cosa il nocciolo: essa gettò via il primo e dalla crisalide uscì, come frutto del socratismo artistico, il gioco degli scacchi teatrale, la commedia dell’intrigo.
Il socratismo disprezza l’istinto e quindi l’arte. Esso nega la sapienza proprio là dove si trova la sua sfera più peculiare. In un sol caso lo stesso Socrate ha riconosciuto il potere della sapienza istintiva, e ciò proprio in un modo assai caratteristico. In situazioni particolari, in cui il suo intelletto si faceva dubbioso, egli trovava un saldo sostegno grazie a una voce demoniaca che si manifestava in modo portentoso. Questa voce, quando viene, dissuade sempre. La sapienza inconscia, in quest’uomo del tutto abnorme, leva la sua voce per contrastare qua e là, ostacolandolo, l’oggetto della coscienza. Anche qui si manifesta in che misura Socrate appartenesse realmente a un mondo assurdo e rovesciato. In tutte le nature produttive l’inconscio opera appunto creativamente e affermativamente, mentre la coscienza si comporta criticamente e in modo dissuasivo. In lui l’istinto diventa critico, la coscienza diventa creativa.
Il disprezzo socratico per ciò che è istintivo ha spinto un secondo genio – oltre che Euripide – a una riforma dell’arte, e questa volta a una riforma più radicale.
Anche il divino Platone, su questo punto, è caduto vittima del socratismo: lui, che nell’arte precedente vedeva soltanto l’imitazione di immagini illusorie, annoverò altresì la “sublime e molto lodata” tragedia – così si esprime – fra le arti adulatorie che sogliono rappresentare unicamente ciò che è piacevole, ciò che lusinga la natura sensibile, e non già ciò che è spiacevole ma risulta al tempo stesso utile.
Egli riaccosta perciò deliberatamente l’arte tragica all’arte dell’abbigliamento e della cucina. Un’arte così molteplice e variopinta è contraria a un carattere assennato, e costituisce invece un’esca pericolosa per un carattere sensibile ed eccitabile: ragione sufficiente, questa, per cacciare i poeti tragici dallo stato ideale. Per Platone, gli artisti in genere appartengono a un’estensione superflua dell’organismo statale, assieme alle nutrici, alle acconciatrici, ai barbieri e ai pasticcieri.
La condanna dell’arte – volutamente aspra e priva di riguardi – ha in Platone qualcosa di patologico: lui, che è giunto a quella concezione unicamente spinto da un furore contro la propria carne, lui, che ha calpestato a favore del socratismo la sua natura profondamente artistica, rivela ora nell’asprezza di quei giudizi, che la più profonda ferita del suo essere non si è ancora rimarginata. La vera capacità creativa del poeta viene per lo più trattata ironicamente da Platone, perché non fa penetrare coscientemente nell’essenza delle cose, e viene da lui posta sullo stesso piano del talento degli indovini e degli àuguri. Il poeta non è capace di creare, sintanto che non sia colto dall’ispirazione, sintanto che non abbia perduto la coscienza e in lui non si ritrovi più intelletto.
A questi artisti “irrazionali” Platone contrappone l’immagine del vero artista, dell’artista filosofico, e dà a intendere, in modo abbastanza chiaro, che egli stesso è l’unico ad aver raggiunto questo ideale e che i suoi dialoghi possono essere letti nello Stato perfetto.
L’essenza del dialogo platonico, peraltro, è la mancanza di forma e di stile, prodotta dalla mescolanza di tutte le forme e di tutti gli stili esistenti. Rispetto alla nuova opera d’arte non si doveva soprattutto avere occasione di criticare ciò che, secondo la concezione Platonica, costituiva il difetto fondamentale dell’arte precedente. Non doveva trattarsi dell’imitazione di un’immagine illusoria, ossia per il dialogo platonico non doveva esistere, secondo il concetto abituale, nessuna realtà naturale che dovesse essere imitata. Egli ondeggia così tra tutti i generi d’arte, fra prosa e poesia, narrazione lirica e dramma, e d’altronde ha infranto l’antica legge rigorosa della forma linguistica stilisticamente unitaria. Il socratismo giunge a una deformazione ancora più spinta negli scrittori cinici: costoro cercano – con la massima screziatura dello stile e con un’ondeggiamento tra forme in prosa e forme metriche – di rispecchiare in qualche modo quell’aspetto esterno di Sileno che era proprio di Socrate, i suoi occhi sporgenti, le sue labbra tumide, il suo ventre cascante.
Chi mai, considerando in tutta la sua portata l’influsso antiartistico – qui soltanto accennato – del socratismo, non darà ragione ad Aristofane, e non approverà ciò che egli fa cantare dal coro?
“Salute a che non vuol sedere
e non vuol parlare accanto a Socrate,
non condanna l’arte delle Muse
e non guarda dall’alto con disprezzo
il culmine della tragedia!
Vana stoltezza è rivolgere
a vuoti discorsi affettati
e ad astratte sottigliezze
un’oziosa diligenza”.
La cosa più profonda, peraltro, che poteva essere detta contro Socrate, l’ha detta a lui un sogno. Molto spesso gli veniva in sogno, come racconta in carcere ai suoi amici, una stessa apparizione, che diceva sempre la stessa cosa: “Socrate, datti alla musica!”.
Socrate d’altro canto si è tranquillizzato sino ai suoi ultimi giorni con l’opinione che la sua filosofia fosse la musica suprema. Alla fine in carcere, per sgravare completamente la sua coscienza, si decide anche a coltivare quella musica “volgare”. In realtà mise in versi alcune favole in prosa a lui note; tuttavia io non credo che con questi esercizi metrici egli si sia riconciliato con le Muse.
In Socrate ha preso corpo uno degli aspetti della grecità, ossia quella chiarezza apollinea, senza alcuna mescolanza estranea: egli appare come un puro e trasparente raggio di luce, in quanto annunciatore e araldo della scienza che doveva del pari nascere in Grecia. Ma la scienza e l’arte si escludono a vicenda: da questo punto di vista è significativo che Socrate fosse il primo grande Greco ad essere brutto.
Del resto tutto in lui è simbolico. Egli è il padre della logica, che presenta nel modo più netto il carattere della scienza; egli è il distruttore del dramma musicale, che aveva raccolto in sé i raggi di tutta l’arte antica.
Distruttore del dramma musicale egli lo è in un senso assai più profondo di quanto si sia potuto accennare sinora. Il Socratismo è più antico di Socrate: il suo influsso dissolvitore sull’arte si fa già notare molto tempo prima. L’elemento peculiare del socratismo – la dialettica – si è insinuato nel dramma musicale già molto tempo prima di Socrate, e ha agito in modo devastatore su quel bel corpo. La corruzione prende lo spunto dal dialogo. Com’è noto il dialogo non appartiene originariamente alla tragedia, ma si sviluppa solo dopo l’intervento di una coppia di attori, cioè relativamente tardi. Già prima esisteva qualcosa di analogo, nel colloquio tra l’eroe e il corifeo: qui tuttavia la contesa dialettica era impossibile, a causa della subordinazione di un personaggio all’altro. Non appena tuttavia si trovarono di fronte due attori principali in una stessa posizione, si manifestò allora, conformemente a un istinto profondamente ellenico, la gara di parole e argomenti.
Il dialogo amoroso, per contro, rimase sempre estraneo alla tragedia greca. Con quella gara si fece appello nell’animo dello ascoltatore, a un elemento che fino ad allora era stato bandito, come nemico dell’arte e odioso alle Muse, dalle sedi solenni delle arti drammatiche: la “cattiva” Eris.
La buona Eris dominava già fin dai tempi antichi in tutte le rappresentazioni musicali e in occasione della tragedia faceva comparire tre poeti in gara di fronte al popolo raccolto per giudicare. Ma quando il riflesso della contesa verbale, che proveniva dall’atrio del tribunale, si insinuò anche nella tragedia, sorse allora per la prima volta un dualismo nella natura e nell’effetto del dramma musicale. Da quel momento vi furono parti della tragedia in cui la compassione retrocedeva, di fronte all’evidente piacere suscitato dallo stridore delle armi dialettiche. L’eroe del dramma non poteva soccombere, e quindi ora dovette trasformarsi altresì in eroe della parola. Il processo, che aveva preso inizio con la cosiddetta sticomitia, continuò il suo corso e penetrò anche nei discorsi più lunghi degli attori principali. A poco a poco tutti i personaggi cominciarono a parlare con tale sfoggio di acume, di chiarezza e di perspicuità, che sorge realmente in noi un’impressione complessiva imbarazzante, quando leggiamo una tragedia di Sofocle. Sembra quasi che tutte queste figure periscano non già per l’elemento tragico, bensì per una superfetazione dell’elemento logico. Non si ha che da confrontare quanto diversa sia la dialettica degli eroi di Shakespeare: su tutti i loro pensieri, le loro supposizioni e le loro deduzioni si trovano diffuse una certa bellezza musicale e una certa interiorizzazione, mentre nella tarda tragedia greca domina un dualismo assai sospetto nello stile per cui la potenza della musica è separata da quella della dialettica. Quest’ultima si avanza sempre più prepotentemente, sino a dire la parola decisiva anche riguardo alla struttura dell’intero dramma. Il processo si conclude con la commedia di intrigo: solo in tal modo viene ad essere superato quel dualismo, in conseguenza dell’annientamento totale di uno dei due contendenti, cioè della musica.
A tale proposito è significativo che tale processo sia giunto alla fine con la commedia, mentre aveva preso inizio con la tragedia. La tragedia, sorta dalla profonda fonte della compassione, è nella sua essenza pessimistica. In essa l’esistenza è qualcosa di sommamente terribile, l’uomo è qualcosa di sommamente stolto. L’eroe della tragedia non si rivela, come crede l’estetica moderna, nella lotta contro il destino, e altrettanto poco si può dire che egli soffra ciò che merita. Piuttosto egli si precipita nella sua avventura cieco e col capo velato: e il gesto desolato e nobile con cui si si erge di fronte a questo mondo di terrore allora riconosciuto, penetra come un aculeo nella nostra anima. La dialettica per contro è ottimistica dal profondo del suo essere: essa crede a causa e conseguenza, e perciò crede in un rapporto necessario tra colpa e punizione, tra virtù e felicità; i suoi problemi aritmetici devono risolversi senza resto: essa nega tutto ciò che non può scomporre concettualmente. La dialettica raggiunge continuamente il suo scopo; ogni sillogismo è il suo giubileo, chiarezza e consapevolezza sono la sola aria che essa possa respirare. Quando questo elemento penetra nella tragedia, sorge allora un dualismo come quello tra notte e giorno, tra musica e matematica.
L’eroe, che deve difendere i suoi atti con ragioni e controragioni, corre il pericolo di perdere la nostra compassione: infatti l’infelicità, che in seguito tuttavia lo colpisce, dimostra in tal caso soltanto che egli ha sbagliato in qualche modo i suoi calcoli. Ma l’infelicità prodotta da errori di calcolo assomiglia già di più a un motivo comico. Quando il gusto per la dialettica ebbe dissolto la tragedia, sorse la commedia nuova con il suo continuo trionfo della furberia e della astuzia.
La coscienza socratica e la sua fede ottimistica nella connessione necessaria tra virtù e sapere, tra felicità e virtù, ha avuto come effetto, in un gran numero di tragedie euripidee, di aprire al termine del dramma una prospettiva su di una gradevole esistenza ulteriore, per lo più attraverso un matrimonio. Non appena il dio appare sulla macchina, noi notiamo che dietro quella maschera si cela Socrate, il quale cerca di equilibrare sulla sua bilancia felicità e virtù.
Tutti conoscono le proposizioni socratiche: “Virtù è sapere: si pecca solo per ignoranza. Il virtuoso e felice”. In queste tre forme fondamentali dell’ottimismo trova la morte la tragedia pessimistica. Già lungo tempo prima di Euripide queste idee hanno contribuito alla dissoluzione della tragedia. Se la virtù è sapere, l’eroe virtuoso deve allora essere un dialettico.
Di fronte alla straordinaria piattezza e povertà di un pensiero etico del tutto embrionale, l’eroe che dialettizza eticamente si presenta anche troppo spesso come un araldo della banalità e del filisteismo morale. Si deve avere però il coraggio di ammettere questo, si deve confessare che, a prescindere da Euripide già le più belle figure della tragedia sofoclea, un’Antigone, un’Elettra, un Edipo, cadono talvolta su un piano di pensieri insopportabilmente banale, e che in ogni caso i caratteri drammatici sono più belli e più grandiosi che non la loro manifestazione in parole. Partendo da questo punto di vista, tanto più favorevole dovrà risultare il nostro giudizio riguardo alla tragedia più antica, di Eschilo: è per questo che Eschilo creò le sue cose migliori senza saperlo. Nella lingua e nel disegno dei caratteri di Shakespeare noi troviamo d’altronde un solidissimo punto di appoggio per tali confronti. In lui si può scoprire una saggezza etica, al cui confronto il socratismo appare alquanto pretenzioso e saccente.
Nella mia ultima conferenza ho detto intenzionalmente poco sui limiti della musica nel dramma musicale greco: in rapporto alle suddette osservazioni risulterà comprensibile che io abbia designato i limiti della musica nel dramma musicale come il punto pericoloso da cui prese inizio il suo processo di dissoluzione.
La tragedia perì a causa di una dialettica e di un’etica ottimistiche. Ciò equivale a dire che il dramma musicale perì a causa di una mancanza di musica. La penetrazione del socratismo nella tragedia ha impedito che la musica si fondesse con il dialogo e il monologo, sebbene nella tragedia di Eschilo questo processo fosse stato iniziato con il più grande successo. Un’altra conseguenza fu che la musica, sempre più circoscritta e ridotta a confini ristretti, non si sentì più a suo agio nella tragedia, e cercò di svilupparsi più liberamente e più arditamente, come arte assoluta, al di fuori della tragedia.
E’ ridicolo fare apparire uno spirito di giorno, al momento della colazione, ed è ridicolo pretendere da una Musa così misteriosa e dall’ispirazione seria, qual è la Musa della musica tragica, che essa canti nell’atrio del tribunale, in un intervallo tra i duelli dialettici, Nel sentimento di questo ridicolo, la musica della tragedia ammutolì, quasi spaventata dal suo inaudito dissacramento, e sempre più di rado ardì far sentire la sua voce. Alla fine essa si smarrisce, canta cose non pertinenti, si vergogna e fugge via dalle sedi del teatro.
Per parlare in modo esplicito: la fioritura e il culmine del dramma musicale greco sono costituiti da Eschilo nel suo primo grande periodo, prima che egli fosse influenzato da Sofocle: con Sofocle comincia una decadenza graduale, sinché Euripide, con la sua cosciente reazione contro la tragedia eschilea pone fine al processo con rapidità tempestosa.
Questo giudizio è contrario unicamente a una estetica diffusa nell’epoca presente: ma in verità si può far valere in suo favore nientemeno che la testimonianza di Aristofane, elettivamente affine come nessun altro genio a Eschilo. Il simile d’altronde è riconosciuto soltanto dal simile.
Come conclusione una sola domanda. Il dramma musicale è davvero morto, morto per sempre? Realmente i Tedeschi non potranno porre accanto a quella scomparsa opera d’arte del passato nient’altro se non la “grande opera”, pressappoco come accanto a Ercole era solita apparire la scimmia? Questa è la più seria domanda della nostra arte, e chi come Tedesco non comprende la serietà di questa domanda è caduto vittima del socratismo dei nostri giorni, che senza dubbio non sa produrre martiri né parla la lingua del “più saggio fra i Greci”, che certo non si vanta di non sapere nulla, ma che in verità non sa nulla. Questo socratismo è la stampa odierna: non dico una parola di più.