(1933, Einaudi, Opere Complete, 2003, vol. V, p. 539. Traduzione di Fabrizio Desideri)
Nei nostri libri di lettura c’era la favola del vecchio che, sul letto di morte, dà ad intendere ai figli che nella sua vigna è nascosto un tesoro. Loro non avevano che da scavare. Scavarono, ma del tesoro nessuna traccia. Quando però giunge l’inverno, la vigna rende come nessun’altra nell’intera regione. I figli allora si rendono conto che il padre aveva loro lasciato un’esperienza: non nell’oro sta la fortuna, ma nell’operosità. Esperienze simili ce le hanno poste di fronte, in modo minaccioso o bonario, finché non siamo “cresciuti”: “Giovane imberbe, vuoi già metter bocca”. “Devi ancora farne di esperienza”. Si sapeva anche con precisione cosa fosse l’esperienza: sempre le persone più anziane l’avevano comunicata ai più giovani. Concisamente, con l’autorità della vecchiaia, nei proverbi; prolissamente, con la loro loquacità, nei racconti; talvolta narrando paesi stranieri, al camino, davanti a figli e nipoti. Ma dov’è andato a finire tutto questo? Chi incontra ancora oggi gente capace di raccontare qualcosa come si deve? Dove oggi i moribondi pronunciano ancora parole così durevoli, da tramandarsi, come un anello, di generazione in generazione? A chi oggi viene ancora in aiuto un proverbio? Chi vorrà anche solo tentare di cavarsela con la gioventù rimandando alla propria esperienza?
Una cosa è chiara: le quotazioni dell’esperienza sono cadute, e questo in una generazione che, nel 1914-19, aveva fatto una delle più mostruose esperienze della storia mondiale. Forse questo non è così strano come sembra. Non si poteva già allora constatare che la gente se ne tornava muta dai campi di battaglia? Non più ricca, ma più povera di esperienza comunicabile. Ciò che poi, dieci anni dopo, si sarebbe riversato nella fiumana di libri di guerra, era tutt’altro che esperienza che scorre dalla bocca all’orecchio. No, non era strano. Poiché mai le esperienze hanno ricevuto una smentita così radicale come le esperienze strategiche attraverso la guerra di posizione, le esperienze economiche attraverso l’inflazione, le esperienze corporee attraverso la fame, le esperienze morali attraverso il dispotismo. Una generazione, che era andata a scuola ancora con il tram a cavalli, stava in piedi sotto il cielo in un paesaggio in cui nulla era rimasto immutato tranne le nuvole, e al centro – in un campo di forza di correnti distruttive e esplosioni – il fragile, minuto corpo umano.
Con questo immenso sviluppo della tecnica una miseria del tutto nuova ha colpito gli uomini. E il rovescio di questa miseria è l’opprimente ricchezza di idee che con la rivitalizzazione di astrologia e sapienza Yoga, Christian Science e chiromanzia, vegetarianismo e gnosi, scolastica e spiritismo si è diffusa tra – o meglio, sopra – la gente. Perchè qui non ha luogo un’autentica rivitalizzazione, ma una galvanizzazione. Viene da pensare ai grandiosi dipinti di Ensor, in cui un immagine spettrale riempie le strade di grandi città: borghesucci mascherati carnevalescamente, contorte maschere incipriate di farina, corone di lustrini sulla fronte, si rotolano imprevedibili lungo le vie. Questi dipinti, forse, non sono nient’altro che immagine dell’orrenda e caotica Reinassance, nella quale così tanti ripongono le loro speranze. Di nuovo qui risulta nel modo più chiaro che la nostra povertà di esperienza è solo una parte di quella grande povertà, che ha nuovamente ricevuto un volto di acutezza e precisione simile a quello del mendicante nel medioevo. Che valore ha allora l’intero patrimonio culturale se proprio l’esperienza non ci congiunge a esso? A cosa porti simularla o carpirla con l’inganno, questo il raccapricciante guazzabuglio di stili e di ideologie del secolo scorso ce l’ha reso troppo chiaro, per dover ritenere disonorevole confessare la nostra povertà. Si, ammettiamolo: questa povertà di esperienza non è solo povertà nelle esperienze private, ma nelle esperienze dell’umanità in generale. E con questo una specie di nuova barbarie.
Barbarie? Proprio così. Diciamo questo per introdurre un nuovo positivo concetto di barbarie. A cosa mai è indotto il barbaro dalla povertà di esperienza? E’ indotto a ricominciare da capo; a iniziare dal Nuovo; a farcela con il Poco: a costruire a partire dal Poco e inoltre a non guardare né a destra né a sinistra. Tra i grandi creatori ci sono sempre stati gli implacabili, che per prima cosa facevano piazza pulita. Essi infatti volevano avere un tavolo per disegnare; sono stati dei costruttori. Così un costruttore fu Descartes, che per prima cosa per tutta la sua filosofia non voleva avere altro che un’unica certezza: “Penso dunque sono”, e da questa prese le mosse. Anche Einstein era un costruttore di tal genere, cui improvvisamente dell’intero vasto mondo della fisica proprio niente interessava più di una singola, piccola discordanza tra le equazioni di Newton e le esperienze dell’astronomia. E questo stesso “cominciare da capo” lo avevano ben presente gli artisti quando facevano riferimento ai matematici e, come i cubisti, costruivano il mondo da forme stereometriche o quando, come Klee, prendevano a proprio modello gli ingegneri. Perché le figure di Klee sono, per così dire, progettate sul tavolo da disegno e, come una buona macchina, anche nella carrozzeria, obbedisce soprattutto alle necessità del motore, così quelle nell’espressione dei loro lineamenti obbediscono soprattutto al loro “interno”. All’interno piuttosto che all’interiorità: questo le rende barbariche.
Qua e là le migliori “teste” hanno già da tempo cominciato già a familiarizzare con queste cose. Una totale mancanza di illusioni nei confronti dell’epoca e ciononostante un pronunciarsi senza riserve per essa, questo è il loro carattere distintivo. E’ la stessa cosa che il poeta Bert Brecht precisi come il comunismo non sia la giusta ripartizione della ricchezza ma della povertà, o che il precursore dell’architettura moderna, Adolf Loos, dichiari: “Io scrivo solo per gli uomini che possiedono un moderno sentire. Per uomini che si struggono nella nostalgia del Rinascimento o del Rococo, io non scrivo”. Un’artista così “ad incastro” come il pittore Paul Klee, ed uno così programmatico, come Loos – entrambi rifuggono dall’immagine umana tradizionale, solenne, nobile, fregiata di tutte le offerte sacrificali del passato, per rivolgersi al nudo uomo del nostro tempo, che strillando come un neonato, se ne giace nelle sudicie fasce di quest’epoca. Nessuno lo ha salutato in modo più lieto e ridente di Paul Scheerbart. Di questi ci sono romanzi che da lontano assomigliano a quelli di Jules Verne, ma a grande differenza di Verne, nelle cui opere sono sempre piccoli rentiers francesi o inglesi a volare in giro per lo spazio nei più fantastici veivoli, Scheerbart si è interessato del problema di cosa apportino i nostri telescopi, i nostri aeroplani e missili degli uomini di allora per del tutto nuove , interessanti e amabili creature. Del resto queste creature parlano già in una lingua completamente nuova. E precisamente ciò che la caratterizza è la disposizione per l’arbitrario elemento costruttivo, in contrapposizione quindi all’organico.
Questo è il tratto inconfondibile presente nella lingua degli uomini o piuttosto della gente di Scheerbart; poichè la somiglianza con l’uomo – questo principio fondamentale dell’umanesimo – essa la rifiuta. Persino nei suoi nomi propri: Peka, Labu, Sofanti e simili si chiama la gente del libro, che trae il nome dal proprio eroe: “Lesabéndio”. Anche i russi dànno volentieri ai loro figli il nome del mese della rivoluzione, o “Pjatilekta” secondo un Piano Quinquennale, o “Awischim” secondo il nome di una compagnia aerea. Nessun rinnovamento tecnico del linguaggio, ma la sua mobilitazione al servizio della lotta o del lavoro; in ogni caso al servizio della trasformazione della realtà, non della sua descrizione.
Scheerbart comunque, per ritornare di nuovo a lui, pone un gran valore nel far alloggiare la sua gente – e, secondo l’esempio di questa, i propri concittadini – in quartieri conformi alla sua posizione: in case di vetro regolabili e movibili, come intanto ne costruivano Loos e Le Corbusier. Non per niente il vetro è un materiale così duro e liscio, a cui niente si attacca. Ma anche un materiale freddo e sobrio. Le case di vetro non hanno “aura”. Il vetro è soprattutto il nemico del segreto. E’ anche il nemico del possesso. Il grande scrittore André Gide ha detto una volta: “Tutte le cose che voglio possedere, diventano per me opache”. Gente come Scheerbart non sogna forse di costruzioni in vetro proprio perché è propugnatrice di una nuova povertà? Ma forse qui dice di più un confronto della teoria. Se qualcuno entra in una stanza borghese degli anni Ottanta, allora, in tutta la comoda e tranquilla agiatezza che essa irradia, l’impressione: “qui tu non hai niente da cercare” è la più forte. Qui non hai niente da cercare – perchè qui non c’è alcun luogo nel quale il suo abitante non abbia già lascato la sua traccia: sulle mensole, mediante ninnoli, sulla pontrona, mediante una copertura, sulle finestre, mediante qualcosa di trasparente, di fronte al camino mediante il parafuoco. Da qui aiuta ad andare avanti, molto avanti, una bella espressione di Brecht: “Cancella le tracce” dice il refrain nella prima poesia del Libro di lettura per abitanti della città. Qui nella stanza borghese è diventato abitudine l’atteggiamento opposto. E d’altra parte l’interieur obbliga il suo abitante a prendere il maggior numero di abitudini, che sono più commisurate all’interieur in cui questi vive, che a lui stesso. Questo lo capisce chiunque ancora conosce l’assurdo stato d’animo in cui cadevano gli abitanti di questi ambienti felpati, quando nella loro dimora qualcosa andava in pezzi. Lo stesso loro modo di irritarsi – e questa passione, che a poco a poco comincia ad estinguersi, la sapevano accentuare virtuosamente – era soprattutto la reazione di un uomo, cui era stata cancellata “la traccia dei suoi giorni terreni”.
Questo sono riusciti a farlo Scheerbart con il suo vetro e il Bauhaus con il suo acciaio: hanno costruito degli spazi in cui è difficile lasciare tracce. “Secondo quanto detto – spiegava Scheerbart vent’anni fa – noi possiamo ben parlare di una civiltà del vetro. Il nuovo ambiente di vetro trasformerà completamente l’uomo. E c’è solo da desiderare che la nuova civiltà del vetro non trovi troppi oppositori”.
Povertà di esperienza: questo non lo si deve intendere come se gli uomini andassero a una nuova esperienza. No, essi desiderano essere esonerati dalle esperienze, desiderano un ambiente in cui possono far risaltare la propria povertà, quella esteriore e in definitiva anche quella interiore, in modo così netto e chiaro che ne venga fuori qualcosa di decente. Gli uomini non sono neanche sempre ignari o privi di esperienza. Spesso si può dire il contrario: hanno “divorato” tutto, la “Kultur” e l’”uomo”, e ne sono divenuti più che sazi e stanchi. Nessuno di loro si sente più colpito dalle parole di Scheerbart: “ Siete tutti così stanchi stanchi – e in realtà solo perché non concentrate tutti i vostri pensieri su un piano del tutto semplice eppur grandioso”. Alla stanchezza segue il sonno, e allora non è per niente strano che il sogno ricompensi per la tristezza e lo scoraggiamento del giorno e mostri realizzata quella esistenza del tutto semplice ma grandiosa, per la quale nello stato di veglia manca la forza. L’esistenza di Topolino per l’uomo di oggi è un sogno di questo genere. Questa esistenza è piena di meraviglie, che non solo superano quelle della tecnica, ma si prendono gioco di esse. Perché ciò che in queste è più notevole, è certo il fatto che tutte quante senza machinerie, improvvisate, saltano fuori dal corpo di Topolino, dei suoi partigiani e dei suoi persecutori, dai più comuni mobili, così come da un albero, dalle nubi o da un lago. Natura e tecnica, primitività e comfort qui sono diventati perfettamente una cosa sola e agli occhi della gente, stancatasi delle complicazioni senza fine della vita quotidiana e per la quale il fine della vita affiora solo come un lontanissimo punto di fuga in un’infinita prospettiva di mezzi, appare liberante un’esistenza che in ogni frangente basta a se stessa nel modo più semplice e contemporaneamente più confortevole, in cui un auto non pesa più di un cappello di paglia e il frutto sull’albero si arrotonda così velocemente come la navicella di un aerostato. E ora noi vogliamo per una volta mantenere le distanze, retrocedere.
Siamo divenuti poveri. Abbiamo ceduto un pezzo dopo l’altro dell’eredità umana, spesso abbiamo dovuto depositarlo al Monte di pietà a un centesimo del valore, per riceverne in anticipo la monetina dell’”attuale”. La crisi economica è alle porte, dietro di esse un ombra, la guerra che avanza. Star saldi è divenuto oggi affare dei pochi potenti, che, lo sa Iddio, non sono più umani dei molti; nella maggior parte dei casi più barbari, ma non alla buona maniera. Gli altri allora devono prepararsi, di nuovo e con poco. Lo fanno insieme a quegli uomini, che del radicalmente nuovo hanno fatto la loro causa e lo hanno fondato su comprensione e rinuncia. Nelle loro costruzioni, immagini e storie l’umanità si prepara a sopravvivere alla cultura, se questo è necessario. E quel che è più importante, lo fa ridendo. Forse a tratti questo riso suona barbaro. Bene. Talvolta il singolo può pure cedere un po’ d’umanità a quella massa, che un giorno gliela renderà con interessi e interessi raddoppiati.