Esegesi di un canto leopardiano.
(AUT AUT 186, Novembre-Dicembre 1981)
1. Il tempo poetico di Aspasia
Non il tumulto di un incontro amoroso – prezioso materiale per contese tra biografi – e neppure l’intensificarsi, in una scrittura lirica, di un momento ragionativo – problema per quanti si acquietano nella distinzione tra lirica e pensiero – fanno delle canzoni d’amore degli anni 1831-1834 una sensazione in sé conclusa. Quel che fa delle poesie “del tempo di Aspasia” un corpo con interne rispondenze è il movimento della parola intorno al cerchio che unisce ascesi e seduzione: la percezione del femminile è sottratta alla rappresentazione consueta da “oggetto del desiderio” e alla figurazione romantica di forma estetica, segno visibile della bellezza o, schillerianamente, compiuta forma. Prima di proporre una interpretazione del canto Il pensiero dominante, occorre dissipare la dominanza del nome di Aspasia, che è ritmo ed emblema di questo tempo poetico. Dissipare il nome – e distanziarsi da quella critica che dal nome è stata giocata – sarà possibile evocando l’istante dal quale è nata la parola poetica.
La “bruna viola” che veste il corpo di Aspasia nella stanza odorosa di primavera, le “nitide pelli” che accolgono l’inclinazione del fianco, l’ “arcana voluttà” che impregna l’aria, annunciano la scena: frammenti di una lingua che il gesto assumerà e destinerà con la sapienza del casuale, con l’obliquità del quotidiano. La scena materna – i baci, “fervidi sonanti”, nelle “curve labbra” dei bambini – è attivazione e maschera, nel contempo, del desiderio: la presa amorosa è un evento che chiede la parola alla lingua, alla lingua della poesia, si fa esperienza del linguaggio. Nel cerchio della seduzione compaiono tracce di un sogno che sempre respira oltre la legge: il sogno della madre permane sotto la storia del linguaggio e del sapere: questo sogno è lo stesso che alimenta la poesia, lingua al di qua della lingua, sapere senza sapere, voce senza grammatica, “parlar materno” che conosce la via del canto. Tra il corpo della madre e il corpo della donna lo sguardo tesse la storia della prigionia d’amore. Attorno a questo evento, evocato, allucinato, infine dissipato, si stringe la corona dei canti d’amore. Ma Il pensiero dominante è al di qua della scena: in esso non è pronunciata la dipendenza dal gesto femminile, e dalla sua obliquità. Il canto è una “sacra conversazione” tra l’io poetico e il pensiero: è la più straordinaria rappresentazione di che cosa significa pensare poeticamente. L’itinerario segue gli aspri e gioiosi passaggi della meditazione religiosa. Il canto Amore e morte trascina il mito nel moderno, fa della vittima d’amore la vittima designata dagli dei per il sacrificio (l’esergo da Menandro lo dichiara), spinge l’esperienza dell’eros nel luogo suo proprio, nel regno del sacro: le lagrime di Eros sono la sola oasi nel “deserto della vita”, in quel deserto che appare tale solo a chi inclina alla disciplina d’amore: “Forse gli occhi spaura/ allor questo deserto; / a sé la terra / forse il mortale inabitabil fatta / vede senza quella/ nova, sola, infinita / felicità che il suo pensier figura”.
Il canto di Aspasia rifà i cammini della fascinazione, con una intensità figurativa e gestuale che sa il rischio della ripetizione, ma anche la sua possibilità di accesso al simbolico. Il canto cerca la libertà dall’amore, dalla prigionia d’amore, attraverso la parola che nomina le vie della seduzione, e tenta di leggere il segreto della trasformazione del corpo in segno, dello sguardo in vincolo, della bellezza in dominio, separando “l’amorosa idea” dal corpo femminile, spostando la complicità e la memoria, la fedeltà e la passione verso un centro: il soggetto innamorato e l’incolmabilità del desiderio. Questa libertà dall’amore è il sogno che respira nella millenaria catena della poesia amorosa e della meditazione sull’amore: adombrata, nel Simposio, nella distinzione di Fedro tra Venere celeste e Venere terrestre, sorveglia la riduzione, che fa Diotima, di eros a specie di una totalità (in analogia a poiesis, specie di un movimento più ampio che dice il passaggio da “ciò che non è a ciò che è”); incombe nelle rime sparse di Petrarca auctor e maestro d’amore; alimenta il fiume amoroso di canzoni e sonetti e madrigali del petrarchismo. La preghiera di Gaspara Stampa ad Amore ne raccoglie la storia insieme alla gioia per la fine dello spossessamento, della sparizione, della prigionia: “Poi che m’hai resa, Amor, la libertade,/ mantienmi in questo dolce e lieto stato,/ sì che’l mio cor sia mio, sì come è stato/ne la mia prima giovenil etade”.
Ma in Leopardi l’approdo non ha l’immagine del ritrovamento di una condizione perduta né l’ illusione del possesso di sé sul sentiero della identità: una sorridente indifferenza distanzia infine lo sguardo del poeta dalla pena d’amore.
A se stesso, che pur precede Aspasia, riprende la meditazione aperta col Pensiero dominante, dice la fine degli inganni, la morte del desiderio, la “infinita vanità del tutto”. L’itinerario ritrova il suo stesso inizio: la scena è fissa sull’incipit, tutto avviene nell’orizzonte del cominciamento, e tutto è già accaduto. L’illusione è il linguaggio dell’uomo, cioè la sua sopravvivenza. La poesia è di questo linguaggio il limite estremo dove il deserto appare come deserto, il silenzio è animato dal silenzio.
2. Il potere e il deserto del senso.
Di questo cerchio Il pensiero dominante è dunque il primo movimento: nel suo linguaggio si tratta ora di sostare, annodando lettura ed esegesi: le volute teorico liriche della poesia attraggono nel proprio campo l’ascolto, dando all’ascolto parola, ed è sulla soglia di questa parola che l’ascolto si può trasformare in racconto critico.
Dolcissimo, possente
Dominator di mia profonda mente;
Terribile, ma caro
Dono del ciel; consorte
Ai lugubri miei giorni,
Pensier che innanzi a me sì spesso torni.
Del dialogo scompaiono struttura e personaggi; si cancella il movimento che costituisce una riflessione a due, gli stessi soggetti e luoghi del dialogare sono annullati. Il procedimento del monologo è scompigliato dal precisarsi d’una figurazione dell’altro che sorveglia la parola e instaura la condizione d’un ascolto silenzioso ma vincolante, astratto ma accerchiante. La rappresentazione tiene i piuttosto i tratti del dialogo interiore, nella forma ascetica della meditazione, e rinvia alla fissità figurativa delle “sacre convenzioni”. La conversazione dell’anima con Dio trova nel linguaggio biblico la sua scena d’origine e la definizione d’un ritmo: la ripetizione attiene alla preghiera, la liturgia non è che la drammatizzazione d’una ripetizione, accordata con la memoria fatta calendario, con le stagioni fatte rituale: l’incipit leopardiano, prima di spezzarsi già nel primo verso, dilata l’invocazione nella forza di una parola che appartiene al lessico amoroso del pensiero religioso: dolcissimo. Deus altissisme et dulcissime è l’invocazione di Agostino in un passaggio delle Confessioni (3,8,19; ma anche cum totus fierem a dilcissimo Deo meo? 7,3,5).
Se la prima parola ha la condensazione del sintomo, in essa c’è già la dichiarazione del tema: l’incontro del pensiero religioso col pensiero amoroso, il riporto anzi del pensiero amoroso nella quieta casa del linguaggio religioso: movimento libero da implicazioni ideologiche, movimento possibile per un ateo come Leopardi. L’invocazione amorosa è spezzata, ma anche portata a pienezza dal possente e dominator : il contrasto, caro ai commentatori leopardiani, non è che l’adempimento di una figura del discorso amoroso: il potere dell’altro, cui è consegnata, per via della sparizione e dello spossessamento, la “coscienza di sé”. Se dolcissimo è all’origine di un trasporto mistico che modellerà le forme del desiderio lungo il canto, possente è all’origine della rappresentazione del pensiero come potere, e da questa offerta tematica le prime quattro strofe saranno segnate: le figure del potere, le forme di simbolizzazione del potere, serviranno a definire una presenza vincolante e inquietante, una penetrazione che esige la remissione del subiectum, il vincolo d’un totale abbandono.
La scena in cui il terminale dell’invocazione, il potere dell’altro, esercita il suo dominio, è la mente, designata con una affermazione di proprietà (mia) subito allucinata dallo spaurimento di profonda: ancora è alla profunda profinditas con la quale Agostino toglie i confini al palazzo labirintico della memoria, nel X libro delle Confessioni, che si pensa.
Campo d’una battaglia che comincia con la resa, la profonda mente, nello sdoppiamento dell’avverbio, dice d’una conquista che smuove la memoria solo per imporre l’oblio su ciò che è estraneo al pensiero dominante: le immagini che s’affollano sulle pareti della memoria possono accedere alla luce del linguaggio, prender la parola, solo in rapporto alla parola del dominatore. Terribile è il volto di colui che domina: le immagini del vincitore sono riassunte nel disegno di chi atterrisce. Anche questa denominazione ha risonanze bibliche, ma la figura del dominio è esaltata dalla adesione del vinto, dalla sua paradossale solidarietà, dichiarata il quel caro, che, anche qui, non dice un semplice contrasto, ma una condizione propria allo spaurimento e al tumulto provocato dall’invasione dell’amato nemico. La sua terra di provenienza è celeste: degli dei egli è un messaggero inviato tra gli uomini. Nella Storia del genere umano il poeta aveva raccontato l’apparizione di Amore sulla terra (“Tra i quali fantasmi fu medesimamente uno chiamato Amore”) coincidente con il passaggio degli uomini dall’ordine degli appetiti all’ordine del desiderio. Revocati gli altri fantasmi, e inviata la Verità, “perpetua moderatrice e signora delle genti umane”, il solo messaggero che Giove lascerà sulla terra a mitigare gli effetti corrosivi della Verità, sarà Amore, il quale “negli animi che egli si elegge ad abitare, suscita e rinverdisce per tutto il tempo che egli vi siede, l’infinita speranza e le belle e care immaginazioni degli anni teneri”.
Ma il pensiero dominante non coincide con l’amore, può si rinviare ad esso come il significante al significato, ma in tutto il canto il rinvio è barrato. Un vero e proprio dominio del significantes0instaura lungo lo svelgersi del canto, al punto che si potrebbe non istituire, come invece si usa fare nei commenti, equivalenze o identità tra il pensiero dominante e l’amore. L’ipostasi del pensiero, divenuto personaggio della sacra conversazione, copre l’intero andamento lirico, e quando l’immagine di lei comparirà, essa sarà solo un argomento di questa conversazione tra l’io lirico e il pensiero dominante. La presenza assidua del pensiero accompagna lo scorrere triste dei giorni, il suo movimento coincide col ritmo delle stagioni, col fluire del tempo: lo sguardio del soggetto sul divenire è raddoppiato da quest’altro sguardo, che del primo condivide la sorte (consorte).
Di tua arcana natura
Chi non favella? Il suo poter fra noi
Chi non sentì? Pur sempre
Che in dir gli effetti suoi
Le umane lingue il sentir proprio sprona,
Par novo ad ascoltar ciò ch’ei ragiona.
La materia linguistica dove sono cercate le parole è ancora quella attinente al discorso sul potere, e più propriamente alle teorie “moderne” della sovranità.
L’invisibilità che produce discorso, l’indecifrabilità che è assiepata di analisi, ciò che si nasconde e tuttavia agisce in profondità e crea soggezioni e obblighi, ciò che non parla e tuttavia provoca fiumi di parole: questa è la storia dell’immaginazione al potere, la vicenda intricata delle sue infinite e insufficienti esplicazioni. Tra il deus absconditus e gli arcana imperii corre il filo di questa storia. Parlare l’arcano non è il suo disvelamento, ma la conferma della sua inaccessibilità. L’obbligo a dire, come ricordava l’ultimo Barthes della Lecon, è la forma propria del potere. Di più: la ubiquità del potere, la sua dilatazione nello spazio sociale e nel tempo storico, si inscrive in un oggetto, la lingua. L’obbligo a dire è un effetto del potere e dire del potere serve a confermare la sua forza.
Appena prelevate le immagini del discorso sulla sovranità e trasferitele nella figurazione del pensiero dominante, il poeta ferma gli interrogativi retorici sulla diffusione e dominio, con un passaggio dalla seconda alla terza persona (di tua… il suo) che allontana di colpo la possibilità di lettura di questa arcana forza.
Il potere del pensiero dominante sta nel sostanziare di sé il linguaggio, in una ripetizione che, ogni volta, mette allo scoperto la differenza. Gli effetti suoi, raccontati dalle umane lingue si vestono della variabilità delle condizioni dei soggetti, la spinta a dire (il sentir proprio sprona), mentre conferma l’universalità del dominio e la profondità della sua penetrazione, celebra il trionfo della differenza e della novità. Egli ragiona attraverso le umane lingue, ma l’incessante ripetizione ha l’effetto, in chi ascolta, della scoperta: ogni parola di questa lingua universale del potere è detta per la prima volta (par novo ad ascoltar ciò ch’ei ragiona). La connotazione stilnovista dell’endecasillabo, chiudendo la strofa celebrativa del potere, riporta alla condizione del fedele parlato dal suo dio, e il ragionare come “ragionar d’amore” sembra per un’istante riportare il pensiero dominante all suo argomento, e le figure del potere al potere di amore. Ma il rinvio è subito allontanato nella strofa seguente, tutta intenta a narrare il ritmo della presa di possesso da parte del pensiero dominante, le immagini della sua vittoriosa e fulminea presa di campo.
Come solinga è fatta
La mente mia d’allora
Che quivi tu prendesti a far dimora!
Ratto d’intorno intorno al par del lampo
Gli altri pensieri miei
Tutti si dileguar. Siccome torre
In solitario campo,
Tu stai solo, gigante, in mezzo a lei.
Il pensiero prende dimora nella mente affollata di
immagini, e la sua apparizione fa il deserto attorno. Il dominio si presenta
come l’unico senso. La cancellazione del senso di ciò che è attorno costituisce
la prova della sua forza. I pensieri che si dileguano, il silenzio delle
immagini, dispongono l’io poetante alla contemplazione del solo senso: la
pratica orientale e cristiana della meditazione invita ad una astrazione
preventiva dagli affanni e dalle cure del mondo, ad un “raccoglimento” di tutte
le immagini in una sola immagine, di ciò che per l’universo si squaderna in un
solo volume, della babele dei significati in un solo significato. La torre in
solitario campo è la figura storica di un dominio che difende i suoi confini da
incursioni di nuovi sensi e di nuove immagini. La mente si è fatta deserto per
accogliere un gigante che espropria e chiede devozione, che mette in fuga gli
altri pensieri e grida la sua forza. L’oblio è la condizione della
contemplazione. In un testo poetico del Bondi, da Leopardi riportato nella
Crestomazia, il pensiero (Il pensiero
è il titolo della poesia) non torna indietro al volto dell’amata, si perde
nella sua contemplazione: variante leziosa dell’apertura del madrigale di
Buonarroti (“Come può esser ch’io non sia più mio?). Forme dello spossessamento. Della
sparizione. Il testo leopardiano non
segue la figura descritta dal Comento
di Ficino al Simposio: “Essendo
l’Amore volontaria morte, in quanto è morte, è cosa amara: in quanto
volontaria, è dolce. Muore amando qualunque ama: perché il suo pensier
dimenticando sé, nella persona amata si rivolge… Se egli non è in sé, ancora
non vive in sé medesimo: chi non vive è morto, e però è morto in sé qualunque
ama: o egli vive almeno in altri”.
Il leopardiano pensiero dominante è impiantato come un gigante nel campo
solitario della mente: su questa scena egli cancella tutti i sensi ma non
spegne la parola dell’io poetante, anzi fa di quella parola il segno o la
voce di una sacra conversazione. Il movimento della sparizione del soggetto
nell’esperienza del desiderio dell’altro è deviato al di fuori del recinto
d’amore e condotto nel campo aperto e solenne della meditazione religiosa.
Che divenute son, fuori di te solo,
Tutte l’opre terrene,
Tutta intera la vita al guardo mio!
Che intollerabil noia
Gli ozi, i commerci usati,
E di vano piacer la vana spene,
allato a quella gioia,
Gioia celeste che da te mi viene!
Sulla cancellazione del senso trionfa l’unico senso. Lo sfaldarsi delle opere, la sottrazione di valore alla vita, lo sguardo “sul deserto della vita”, che nel Tristano s’accompagna al “desiderio di morte”, qui ha le inflessioni dell’ascetica, perché resiste, sulla cancellazione del senso, il dominio dell’altro.
Sui versi leopardiani si disegna a partire da ora l’ombra dell’Ecclesiaste, il libro sapienziale (per il quale alcuni esegeti hanno invocato un’ascendenza nel Dialogo del Disperato con la sua anima), il libro materialista e scettico della Bibbia, convergente a tratti con la sapienza orientale e con la orientale meditazione sul piacere e sul dolore. L’incombenza del libro sarà raccolta intera nell’ultimo verso di A se stesso che tradurrà il vanitas vanitatum, omnia vanitas nell’ “infinita vanità del tutto” (cfr. Ecclesiaste 1,2; ma anche 5,6 e 2,23).
A partire da questo nuovo sguardo, da questo religioso intrattenimento, lo svuotarsi delle opere e dei giorni toglie anche all’illusione la sua forza di riposante finzione e di oasi nel deserto dei sensi: l’attività e il riposo – la “viva occupazione” e il “riposo dal desiderio” che nello Zibaldone erano indicati come rimedi di fronte alla permanenza dello scarto tra desiderio e piacere, di fronte alla impossibilità del piacere – qui sono corrosi dalla noia, vanificati, cioè assediati e resi vuoti dalla vanità che li costituisce. Nella scena della contemplazione azioni e cose, sogni e speranze sono adunati e compresi nella parola mondo, e allontanati nell’insignificanza. Il contemptus mundi è inseparabile dalla contemplazione del dio. La “nuova conversazione” può avviarsi al prezzo di questo svilimento. Ancora Agostino: “quod illo die, cum talia loqueremur et mundus iste nobis inte verba vilesceret cum omnibus delectationibus suis” (Conf. 9, 10, 26).
Piacere e speranza, elementi del mondo, categorie della “teoria del piacere”, si dileguano davanti alla “gioia”, parola scelta dal lessico dei mistici, e ridefinita, per chi dovesse connotarla profanamente, come “celeste”.
E nell’ultimo verso, che riapre con una ripetizione, respira il ritmo cantato della devozione dei mistici e la loro faticosa ricerca della semplicità. Il pensiero “fisso e profondo” del Melanconico, in cui i ficiniani facevano consistere la “malattia” d’amore, è liberato dalle implicazioni biologiche, dalla topica dei caratteri e dalla complicità astrologica, spinto verso la terra dell’ascesi. L’allegoria rinascimentale torna come scrittura dell’oblio, ma per essere tutta raccolta nella superficie del canto religioso.
3. Mistica dell’approdo
La meditazione, come figura e pratica del rapporto religioso, ha sempre misurato il suo ritmo sulla vicenda d’un itinerario. Forma anteriore del viaggio, ha modellato la sua scansione sulla metafora – classica e vulgata – d’un attraversamento periglioso e ostile. L’eroe dell’epopea, il cavaliere dell’avventura romanza, il personaggio del romanzesco moderno, la sua stessa disintegrazione nel labirintico tumulto interiore, sullo sfondo della morte del senso, hanno fatto del raccontare la Grande Ripetizione della scena del viaggio.
Il pensiero religioso ha raddoppiato questo cammino, o lo ha interpretato sospingendolo nella teologia della salvezza: tra l’ “ascolto di sé” e la “promessa”. La peregrinatio medioevale era figura in grado di funzionare come esperienza soggettiva e comunitaria, etica della vita quotidiana, strumento di esegesi e fonte simbolica per la poesia. Leopardi di questo registro – il viaggio e l’approdo – assume la letterarietà della metafora (la strofa è sorvegliata dalla canzone tassesca Nella stagion che più sdegnoso il cielo, e rinvia al crescendo del Canto notturno d’un pastore errante dell’Asia), ma assume anche la connotazione religiosa.
Come da’ nudi sassi
Dello scabro appennino
A un campo verde che lontan sorrida
Volga gli occhi bramoso il pellegrino;
Tal io dal secco ed aspro
Mondano conversar vogliosamente,
Quasi in lieto giardino, a te ritorno,
E ristora i miei sensi il tuo soggiorno.
Il paesaggio naturale diventa “paesaggio dell’anima”. La condizione del pellegrinare è tutta penetrata dall’attesa dell’approdo. La fatica dell’attraversamento è detta nella cadenza d’una fonesi già definita nella storia della poesia, nelle non rare ascendenze dantesche del poetare petrarchista del Cinquecento (sassi, scabro, secco, aspro). Il “mondano conversar” è ciò che la sacra conversazione si lascia dietro. Il contemptus mundi si alimenta della distanza, imposta dal regno della chiacchiera. Il sogno d’un approdo nella terra del silenzio respira dentro l’esperienza della comunicazione: il gioco di identità che tumultua nel quotidiano conversare esige sottili strategie di destinazione e di ascolto, finzioni di interesse e mess’in scena di riconoscimenti, in un aspro nascondimento dell’apatia e della estraneità. Recita della implicazione. Dominio della maschera. Lo svuotamento del soggetto che s’avverte in questa esperienza ambisce a una ricomposizione e ad un riempimento che la solitudine promette, in quel garantire il colloquio con se stesso, in quella diversione della parola dagli altri “a se stessi”. Il desiderio di questa diversione è corporale (vogliosamente), come lo è l’attesa del riposo. L’illusione della autenticità pratica questi cammini, è esperta di questo rivolgimento dal mondo esteriore al mondo interiore. Il ritorno del poeta al “lieto giardino” dove il pensiero dominante siede e governa, ha il senso del raccoglimento, ma anche del ristoro. Il ristoro dei sensi nell’esercizio ascetico è esperienza fisica, come lo sono le innumerevoli forme di “penitenza corporale”. Il movimento degli ultimi versi cancella l’itinerario penitenziale, privilegiando sullo sfondo della similitudine del pellegrino, la gioia dell’arrivo, la primaverile e rinascimentale esperienza del riposo nel paesaggio, nel dischiudersi della sua prospettiva. L’ “hermite des Apenisns”, come Viessieux chiamò Leopardi, traccia, nel ritorno al pensiero dominante, la ragione d’una solitudine non popolata di immagini né agitata da scuotimenti di memoria, ma tutta raccolta nell’esercizio di un’altra conversazione. Nel godimento della sola immagine cui questa conversazione può rinviare. I caratteri dell’ossessivo, cui il pensiero dominante s’accompagna, sono dispersi dalla traccia di questo movimento del “novo pellegrin”.
Quasi incredibil parmi
Che la vita infelice e il mondo sciocco
Già per gran tempo assai
Senza te sopportai;
Quasi intender non posso
Come d’altri desiri,
Fuor ch’a te somiglianti, altri sospiri.
Dal giardino della quieta conversazione il “mondo sciocco”
s’allontana nell’assurdo: la morale che unisce distanza dalle implicazioni e
ricerca di una “aristocrazia dello spirito” è anche la morale che apre la
coscienza alla percezione della infelicità. La scoperta del nuovo possibile
dominio investe della sua luce il
passato, che si presenta scosso dal vento inquietante dell’assurdo, luogo dei
desideri vani, luogo del vaneggiamento senza piacere, dell’affanno senza esito.
La vita sfugge al senso, ma di questo si ha sapere quando si fa del non senso
che è il pensiero dominante, il centro della meditazione.
Giammai d’allor che in pria
Questa mia vita che sia per prova intesi
Timor di morte non mi strinse il petto.
Oggi mi pare un gioco
Quella che il mondo inetto,
Talor lodando, ognora aborre e trema,
Necessitade estrema;
E se periglio appar, con un sorriso
La sue minacce a contemplar m’affiso.
Il senso della vita ha fondamento nel nonsenso della morte, ad esso è strettamente intrecciato, su di esso rimbalza e con esso si scambia: il limite della morte prende forma laddove la necessitade estrema è allucinata dalle implicazioni nel mondo, dalla cancellazione del pensiero dominante. Scoprire nel tragico “il gioco” e non la fonte del terrore, opporre al pericolo il sorriso vuol dire camminare ancora sulla traccia dell’antico, dare vita alle “favole antiche”, raccogliere, nella terra della ricordanza, il “ritorno d’un’immagine antica”, il sogno dell’eroico che respira nella fanciullezza: il pensiero dominante è la critica più corporale del civile e moderno. Critica il forma di sogno. E di sorriso. Riacquisto del sapere della morte sottratto al sapere civile e riportato nella topica del corpo. Tracce dell’antica sapienza si mescolano col sogno romantico d’un soggetto stagliato in solitaria meditazione.
Sempre i codardi, e l’alme
Ingenerose, abbiette
Ebbi in dispregio. Or punge ogni atto indegno
Subito i sensi miei;
Move l’alma ogni esempio
Dell’umana viltà subito a sdegno.
Di quest’età superba
Che di vote speranze si nutrica,
Vaga di ciance, e di virtù nemica;
Stolta, che l’util chiede,
E inutile la vita
Quindi più sempre divenir non vede;
Maggior mi sento. A scherno
Ho gli umani giudizi; e il vario volgo
A’ bei pensieri infesto,
E degno tuo disprezzator, calpesto.
La via del contemptus mundi passa attraverso il disprezzo di chi nel mondo e nei suoi intrighi e nei suoi affanni naviga con una ragione compromissoria e pavida. Il cielo smaltato delle antiche virtù sorveglia questo passaggio di scrittura e di sdegno. Ma quel che di astrattamente eroico può insinuarsi in questa distanza, è dissipato dal dilatarsi dell’arco di osservazione dai soggetti all’epoca. Una critica della morale dell’epoca presiede a molte pagine dello Zibaldone, e non solo a quelle poi raccolte e filtrate nei Pensieri. Delle magnifiche sorti qui si nomina, senza movenze antifrastiche e senza il travestimento di Tristano, il vuoto, il regno della chiacchera, il trionfo della categoria dell’utile.
Proprio laddove la ripetizione vuota di senso fa della parola la maschera dell’alienazione e l’illusione della comunicazione, prende potere la grande empiria, il nuovo mito positivo, il nuovo progetto: l’utile unifica la pluralità dei giudizi, la storia delle differenze di un epoca: dell’epoca diventa il segno.
E’ l’utile che porta la metafisica verso la tecnica, e fa della tecnica la metafisica d’un epoca. Il primo effetto di questa riduzione del sapere nell’utile è un’allucinazione: il non-senso dell’esistenza è coperto di sontuosi significati, l’assenza di fondamento è mascherata dall’affaccendarsi economico dei nuovi soggetti. Dietro il grido dell’utile s’apre il deserto d’una vita sempre più inutile. In un frammento giovanile dello Zibaldone (56) parlando degli effetti d’amore, Leopardi anticipa la finzione del pensiero dominante (la qual cosa certo conferma la identificazione del pensiero dominante con l’amore, ma è una conferma esterna al testo poetico, il quale fin qui si è tenuto distante da questa identificazione): “Quando l’uomo concepisce amore tutto il mondo si dilegua dagli occhi suoi, non si vede più se non l’oggetto amato, si sta in mezzo alla moltitudine alle conversazioni come si stesse in solitudine, astratti e facendo quei gesti che v’ispira il vostro pensiero sempre immobile e potentissimo senza curarsi della meraviglia né del disprezzo altrui, tutto si dimentica e riesce noioso fuorché quel solo pensiero e quella vista”. E ancora, subito dopo: “Io soglio sempre stomacare delle sciocchezze degli uomini e di tante piccolezze e viltà e ridicolezze ch’io vedo fare e sento dire massime a questi coi quali vivo che ne abbondano. Ma io non ho mai provato un tal senso di schifo orribile e propriamente tormentoso (come chi è mosso al vomito) per queste cose, quanto allora ch’io mi sentiva o amore o qualche aura d’amore…”.
4. La passione e l’oblio
La dominanza del pensiero fisso e profondo, già definito nel giovanile turbamento del Primo amore (“Che gli occhi al suol tuttora intenti e fissi”) conosce il trionfo sulle altre passioni. Vizi e senso del potere dileguano dinanzi al trionfo dell’unica passione. Decadono al ruolo di “voglie”, di svagati capricci.
A quello onde tu movi,
Quale affetto non cede?
Anzi qual altro affetto
Se non quell’uno intra i mortali ha sede?
Avarizia, superbia, odio, disdegno,
Studio d’onor, di regno,
Che sono altro che voglie
Al paragon di lui? Solo un affetto
Vive tra noi: quest’uno,
Potente signore
Dieder l’eterne leggi all’uman core.
Pregio non ha, non ha ragion la vita
Se non per lui, per lui ch’a l’uomo è tutto;
Sola discolpa al fato,
Che noi mortali in terra
Pose a tanto patir senz’altro frutto;
Solo per cui talvolta,
Non alla gente stolta, al cor non vile
La vita della morte è più gentile.
Per còr le gioie tue, dolce pensiero,
Provar gli umani affanni,
E sostener molt’anni
Questa vita mortal, fu non indegno;
Ed ancor tornerei,
Così qual son dei nostri mali esperto,
Verso un tal segno a incominciare il corso:
Che tra le sabbie e tra il vipereo morso,
Giammai finor sì stanco
Per lo mortal deserto
Non venni a te; che queste nostre pene
Vincer non mi paresse un tanto bene.
La “vanitas” è nominata per il risvolto interiore delle passioni, contratta dall’orizzonte biblico e patriottistico del “mondo” al tumulto soggettivo degli “affetti”. Sulla vanificazione delle passioni, non più nobili e forti come le antiche, si leva la prepotenza di questo “signore”, la sua stretta complicità con le “eterne leggi”. Ma qui, proprio nell’estremo punto della cancellazione del senso, e dei sensi, riappare, con un movimento di improvvisa eccezione, una ragion di vita: il pensiero dominante, ponendosi come “tutto”, ridà , a chi da esso è posseduto, il senso della vita, e “discolpa” l’assurdo piano d’un’esistenza di patimenti. All’ombra di questo dominio anche il “desiderio di morte”, che Tristano opporrà alla filosofia della restaurazione e al suo vuoto vitalismo, qui lascia il passo ad un rapporto delicato e riconoscente con la vita. Un vento primaverile sulla terra desolata della memoria: attraversare il deserto della vita, essere esposti al “vipereo morso”, non è stato un esporsi alla pena, se, al fondo del cammino insidioso, s’è poi incontrato “un tanto bene”. Raramente nella scrittura poetica leopardiana c’è stato un così riposante spiraglio. Non si tratta d’un adagio ottimistico, è la gioia dell’approdo che estende il suo senso anche su ciò che è deprivato di ogni significato, sull’irrazionale pena del vivere.
Che mondo mai, che nova
Immensità, che paradiso è quello
Là dove spesso il tuo stupendo incanto
Parmi innalzar! dov’io,
Sott’altra luce che l’usata errando,
Il mio terreno stato
E tutto quanto il ver pongo in obblio!
Tali son, credo, i sogni
Degli immortali. Ahi finalmente un sogno
In molta parte onde s’abbella il vero
Sei tu, dolce pensiero;
Sogno e palese error. Ma di natura,
infra i leggiadri errori
Divina sei; perché sì viva e forte,
Che incontro al ver tenacemente dura,
E spesso al ver s’adegua,
Né si dilegua pria, che in grembo a morte.
Nuova terra e nuovi cieli: il ritorno di una “immagine antica”, la ripresa della finzione dell’infinito è trascritta non più nel cerchio del pensiero (nel pensier mi fingo) per essere giocata oltre il limite, fin sulla soglia dello spaurimento dinnanzi al dilatarsi insostenibile dello spazio interiore; questa immensità evoca e cancella, nel contempo, quella immensità nella quale il pensiero s’annegava (si negava) nel dolce naufragio dei sensi, e sfiorava l’impossibile esperienza del piacere. Qui il pensiero (ma è pensiero d’amore, non di intelligenza, dunque è pensiero primario, primitivo), perché determinato e totale, puntuale e assoluto, resiste come termine d’una ascensione che ha le movenze di un ascesa verso l’estasi. Ci sono più tracce della meditazione pascaliana sull’infinito in questo passaggio del canto che nell’idillio L’infinto. Non lo scacco del pensiero attraverso l’avventura oltre la siepe, ma l’elevazione del corpo verso il nuovo “paradiso” dischiuso dal pensiero dominante. Nel primo movimento il pensiero era il campo dove di interminati spazi, infiniti silenzi, e profondissima quiete incontrava la ricordanza delle “morte stagioni” e la comparazione con la “presente e viva”: spazio e tempo inchiodavano il soggetto al suo limite. Nel secondo il pensiero è il luogo che contiene una immagine, una sola immagine, perversa nella sua ossessione, dolcissima nella sua provocazione. Ed anche se l’immagine non è ancora delineata, e nominata, il dominio del pensiero è la reggia preparata ad accoglierla e custodirla. Il soggetto non si spaura, ma erra sotto “un’altra luce”… l’effetto di questo gioioso errare , di questa attrazione nel nuovo cielo, è l’oblio della precarietà del soggetto, e l’oblio del vero: forza del simbolico. Non più la ricordanza è il centro della poesia, ma il suo vuoto, l’oblio. Il riposo dal desiderio, obiettivo della leopardiana teoria del piacere, qui è ottenuto attraverso un eccesso di desiderio, un eccesso che non genera lo spaurimento, ma la pacificazione in una nuova condizione: il sogno. Un sogno senza più i tratti inquietanti del sogno terrestre: non rovesciamento tortuoso e imprevedibile della ricordanza, ma cancellazione di ogni altra immagine che non derivi dall’unica immagine dominante. L’oblio è il sogno degli “immortali”. Divina pacificazione. Estasi. L’insistenza dell’immagine del sogno nomina la distanza infinita tra i campi riposanti del pensiero dominante e il “terreno stato”, tra l’errare nella nuova luce (torna l’ombra del petrarchesco “errore”) e l’opaca ripetizione del vero. L’errore, fascinazione della poesia d’amore, ha la stessa forza delle “favole antiche”, ed è insistente la sua ricorrenza nei Canti, tenace opposizione all’arido vero, radicamento profondo nel ritmo dell’esistenza e nel suo declino, stretta complicità con la vita viva, dolce sparizione soltanto “in grembo a morte”. Il movimento della strofa si conclude con questo movimento, che prelude alla chiusa del canto Amore e morte: “Solo aspettar sereno/Quel dì ch’io pieghi addormentato il volto/Nel tuo virgineo seno”.
5. Sovranità dell’immagine
E tu per certo, o mio pensier, tu solo
Vitale ai giorni miei,
Cagion diletta d’infiniti affanni,
Meco sarai per morte a un tempo spento:
Ch’a vivi segni antro l’alma io sento
Che in perpetuoi signor dato mi sei.
Altri gentili inganni
Soleami il vero aspetto
Più sempre infievolir. Quanto più torno
A riveder colei
Della qual teco ragionando io vivo,
Cresce quel gran diletto,
Cresce quel gran delirio, ond’io respiro.
Al pensiero, ormai interlocutore d’affezione, è affidata la stessa silenziosa e solenne attitudine che ha la luna nella finzione del poeta: uno sguardo che è intensa capacità di ascolto, un ascolto che provoca le domande più preoccupanti, un silenzio che fa scaturire la parola profonda, che smuove la radice stessa dell’interrogarsi. Il pensiero dominante è la luna leopardiana interiorizzata, la sua luce fatta disvelamento interiore e protezione, insieme pacificazione e ansia. Gli “infiniti affanni” hanno la stessa dolcezza dello spaurimento dei sensi: la passione non ha più, qui, i colori della tempesta, la complicità con “l’erinni e il fato” dell’Ultimo canto di Saffo. E’ per questo, perché non ha bisogno di muovere sul discrimine tra contemplazione del notturno classico e agitazione interiore, non ricorre a nessuno scenario: il paesaggio è tutto risolto nella parola che il pensiero dominante provoca e quasi sradica. La presenza del pensiero non è una apparizione sul cielo della condizione interiore, sul cielo dell’anima (per pronunciare l’ormai desueta metafora): come il desiderio, nasce e muore con l’uomo, la sua radice è biologica, il suo movimento segue il ritmo del respiro del corpo. Una lontana annotazione dello Zibaldone aveva già fermato questa complicità tra pensiero e desiderio: “Conseguito un piacere, l’anima non cessa di desiderare il piacere, come non cessa mai di pensare, perché il pensiero e il desiderio sono due operazioni egualmente continue e inseparabili dalla sua esistenza” (Zib. 183, 12-13) Ma il pensiero dominante è qualcosa di più: è il desiderio fatto pensiero, è l’unità di desiderio e pensiero. Da qui la percezione, attraverso la via dei “vivi segni”, della sua perpetua signoria. La memoria stilnovista che trascorre in questi versi è condotta verso la radicale semplicità dell’opposizione vita-morte: l’assenza di questa signoria coincide con la morte. Raggiunta questa soglia di definizione e percezione del pensiero, si disegna, come argomento della sacra conversazione tra l’io poetico e il pensiero, l’immagine di lei. La sua apparizione dice subito lo scarto nei confronti di altri “inganni”, di altre esperienze: la differenza tra l’immagine e il volto, tra il sogno e il vero, sempre accentuata a svantaggio dell’immagine, fino ad infievolirla e sperderla (sarà questa poi la riflessione che in Aspasia forzerà il procedimento di liberazione dalla prigionia d’amore), ora è tutta giocata a favore del desiderio. Ogni movimento verso di lei si trasforma in una esperienza interiore che ha tutti i tratti dell’esperienza religiosa: “Cresce quel gran diletto/ Cresce quel gran delirio, ond’io respiro”. Versi di un mistico. E la ripetizione finale, l’allitterazione, il movimento ritmico e la lingua da madrigale, sono nel contempo un omaggio all’estenuato dissolvimento del modello petrarchesco nella poesia d’amore, una cadenza da devozione popolare, un cerchio di parole attorno a quel ragionare di lei che è ragione e alimento: il verso Della qual teco ragionando io vivo è la trascrizione emblematica dell’esperienza d’amore nell’esperienza della lingua, dell’immagine in ispirazione, dell’ossessione in piacere. La lontana voce del “dittator cortese” ritrova il suo ritmo:
Angelica beltade!
Parmi ogni più bel volto, ovunque io miro,
Quasi una finta imago
Il tuo volto imitar. Tu sola fonte
D’ogni altra leggiadria,
Sola vera beltà parmi che sia.
C’è un solo volto che rinvia alla bellezza e si fa sorgente e modello delle altre forme di bellezza. Variante mondana dello sguardo religioso che nelle forme dell’universo rintraccia il segno, e il sigillo, del pulchrum che non è attributo di Dio ma appunto il suo splendor formae.
Ritrovamento ed esercizio di una divina mimesis. La “finta imago” è segno che rinvia alla sorgente, secondo i modi profanizzati di un’estetica teologica. Questi versi, e quelli che seguono, aggirano la riflessione sulla bellezza come si dispiega nelle pagine dello Zibaldone, ma a quelle pagine tuttavia rinviano, come all’altra faccia – sensoriale e turbata, desiderante e trepidante – della stessa immagine: anche perché di questo turbamento corporale sarà intessuta la catena d’amore e la volontà di spezzarla che percorrono il canto di Aspasia. Il discorso leopardiano sulla bellezza, a lato di una persistente esposizione della sua variabilità e relatività e precarietà, tutta temporale e di gusto e di assuefazione, (Zib. 49, 156-157, 7 luglio 1830; 1306-1311, 10 luglio 1821; 1315-1316, 13 luglio 1821), muove verso il riconoscimento dei suoi effetti: da una parte, secondo la distinzione di Teofrasto, la bellezza come menzogna e come seduzione, dall’altra la bellezza riportata sulla terra corporale del desiderio, sorgente di tremore e spavento, secondo le immagini che da Saffo a Petrarca respirano nella poesia d’amore.
Ma in questa evocazione dell’angelica beltade è allontanata, o rimossa, la straordinaria osservazione dello Zibaldone sulla ragione del turbamento dinanzi alla bellezza, che, depositata come esegesi dei versi di Saffo e di Petrarca, cominciava: “La forza del desiderio ch’ei concepisce in quel punto, l’atterrisce per ciò ch’ei si rappresenta subito tutto in un tratto, benché confusamente, al pensiero le pene che per questo desiderio dovrà soffrire; perocché il desiderio è pena, e il vivissimo e sommo desiderio, vivissima e somma, e il desiderio perpetuo e non mai soddisfatto è pena perpetua. Ora a lui pare che quel desiderio non sarà mai soddisfatto (o non ne vede il come, e gli par cosa troppo ardua e difficile e improbabile), e ch’esso non sarà mai per estinguersi da sé medesimo…” (3443-46, 16 settembre 1823). Ed è anche sospesa la distinzione tra la bellezza e la grazia, tra la fissità e il movimento, tra l’istante e il tempo.
Dei due termini è semmai il primo, e dunque il suo intaglio in una grecità sapienziale e non dionisiaca, che s’impone: dominanza non della passione ma dell’immagine, non del desiderio ma del sogno.
Da che ti vidi pria,
Di qual mia seria cura ultimo obbietto
Non fosti tu? Quanto del giorno è scorso,
Ch’io di te non pensassi? Ai sogni miei
La ta sovrana imago
Quante volte manco? Bella qual sogno,
Angelica sembianza,
Nella terrena stana,
Nell’alte vie dell’universo intero,
Che chiedo io mai, che spero
Altro che gli occhi tuoi vedere più vago?
Altro più dolce aver che il tuo pensiero?
La sequenza finale raccoglie nella forma retoricamente interrogativa la vicenda dell’intrattenimento col pensiero dominante, che s’è ormai dischiuso alla contemplazione dell’immagine di lei. Un passaggio dei poteri: è l’immagine che adesso è dominante e sovrana. Una presenza che coincide con lo scorrere del tempo, che non lascia sospensioni o distrazioni, insinuata fin nel tessuto dei sogni, sostanza di una reverie senza fine. L’itinerario della peregrinatio medioevale torna a snodarsi, ma senza colpe da riscattare. E’ un itinerario gioioso in compagnia della “angelica sembianza”: la medioevale ascesi è tutta ricondotta nello sguardo, questa volta dantesco e pascaliano insieme, sull’infinito.
Un itinerario che ha un primo approdo nel sigillo stilnovista degli occhi (comincia con Leopardi quel neostilnovismo che, estenuato, respirerà nei versi di preraffaelliti e bizantini, nell’altra metà del secolo?). Per ora, dopo questo primo approdo, nuovi cammini sono presagiti nell’ultimo verso (“Altro più dolce aver che il tuo pensiero?”). Un verso che riprende sì l’avvio del canto, secondo un modulo di chiusa perfetta, ma che soprattutto rinvia al verso finale dell’Infinito. Nell’idillio la dolcezza del naufragio dei sensi segue allo scacco del pensiero, e dice, nell’apertura dell’infinito silenzio, e nell’assenza, il limite stesso del linguaggio; qui c’è una dolcezza che si tiene salda al pensiero, ma dichiara anch’essa la fine del linguaggio, la fine della sacra conversazione: se l’immagine dell’infinito sfiora l’esperienza del piacere attraverso l’oblio, che sopravviene alla ricordanza e alla comparazione, il pensiero amoroso, ora finalmente pronunciato, sfiora l’esperienza mistica attraverso il possesso dell’immagine dell’altro (e la perdita della propria immagine) che sopravviene all’oblio del mondo. A sorvegliare i due movimenti, a svelarne gli inganni, ci sono, dietro i versi, le meditazioni dello Zibaldone sulla impossibilità del piacere.
Proprio sfidando questa impossibilità, il canto s’è affidato ai modi della lingua religiosa, in una estrema prova di astrazione dal paesaggio naturale e dai giardini incantati della poesia d’amore. Su questa scena metafisica, la parola poetica s’è adagiata nello stile quieto e interrogativo, sommesso e profondo d’una conversazione che ha unito lingua del corpo e lingua della meditazione.
Le strofe libere e il libero rimbalzo delle rime, il ritmo variato e spezzato, il timbro d’una letterarietà lontana se non arcaica, hanno dato voce a una esperienza del linguaggio dove la profondità si è svolta nelle forme della superficie e della semplicità, e la domanda sul senso del mondo si è presentata come abbandono alla dolcezza di un’immagine.
Pensare poeticamente, questo forse vuol dire.