Arduino Cantafora, Col Tempo

Fanno oramai tanti anni che dipinsi un quadro intitolato “Col tempo“, come se dovesse rappresentare un mio autoritratto.
Sovrapposi me stesso ad un luogo fisico, una stanza disadorna come si può trovare in un piccolo albergo periferico, fino al raggiungimento di una piena identificazione, al punto di potermi tranquillamente annullare. Ciò che restava era un ambiente memore di quella mia primitiva presenza.
Nel dipinto vi è infatti una relazione molto stretta fra lo spazio rappresentato, i magri consunti arredi, l’idea stessa di costruzione dell’immagine e l’iscrizione che compare sulla cornice: col tempo.
Riguardandolo ora, vi trovo condensate parecchie ragioni del mio lavoro. L’architettura diviene spazio di riflessione autobiografica o punto di incontro di un possibile inconscio collettivo, nel quale pubblico e privato si sfumano l’uno nell’altro per narrare ciò che ci accomuna.
L’architettura è un indifferente testimone della vita. Odora di umanità al di là delle ragioni teoriche e pratiche della sua costruzione. In questo senso non riesco a trovare una grande differenza fra ciò che è costruito e ciò che è rimasto spazio virtuale sulla carta, non volendo valutarlo esclusivamente come sovrapposizione di fisici elementi, ma cercando di attribuirgli anche, di volta in volta, un significato parallelo, quasi altra possibile faccia dell’esistenza. E così l’idea della costruzione può identificare se stessa con la vita, perché l’una e l’altra si rispecchiano reciprocamente.
In circa quaranta anni di lavoro questo è stato il filo conduttore, che ha guidato la sostanza delle mie cose, nel doppio senso di cui ho parlato prima. Ho cercato di identificarmi nell’architettura e l’architettura, cioè il suo significato, è entrata a fare parte del linguaggio con il quale mi esprimo. E col tempo, avendo insistito sulle forme e sulla luce sulle cose, anche le parole si sono aggiunte nel tentativo di darmi accresciute ragioni di riflessione sulla realtà.
Questa è stata una naturale e tuttavia fondamentale estensione degli strumenti impiegati. Il lavoro è come la vita e spesso il lavoro è la vita stessa. Si consuma giorno per giorno nella fatica di piccole cose, le une affiancate alle altre, le une compenetrate nelle altre. E guardando, ascoltando, insistendo con occhi indagatori fra le forme e la vita, ci si riempie di valori esistenziali e il proprio contributo di progetto, l’idea di quel progetto, diviene un umile frammento, confuso fra le voci che provengono da fuori.
Sono sempre rimasto molto affascinato da quella frase di Walter Benjamin in quella sua “Infanzia berlinese“, quando, riferendosi alla casa di quegli anni, gli pareva di essersela portata, quasi fisicamente, molte volte all’orecchio, come una conchiglia di mare, per interrogarla e per ascoltarla nei flebili suoni del tempo che da essa ancora pareva si diffondessero. Suoni fondamentali per potersi riconoscere. Su questa via, costruita di giustapposte continuità e un poco labirintica, solo una tenace tecnica può aiutare a mettere ordine per tentare di sapere cosa ci stia accadendo, anche se la speranza di arrivare ad una soluzione rimane irraggiungibile meta. Ma il fare, la tecnica del fare mi è parsa sempre la sola speranza che abbiamo per sentirci abitatori della vita.
Con il pensiero, con le mani o forse solo con gli occhi, nella precisa consapevolezza di essere nessuno. Come in quell’Ulisse di Kavafis disperso fra cento porti, prossimo ai banchi dei mercanti, alla ricerca del dono più bello, per rendere degno il suo ritorno a casa, dove non arriverà mai.
Ma è una grande conquista apprendere di essere nessuno come Ulisse sapeva. Nel sogno del raggiungimento di un porto un poco più in là, dove pare che i raggi del tramonto diano ancora spazio ad un brandello di giorno, da noi già trascorso. O ancora più laggiù, al di là dei monti e dei mari, dove quel sorgente sole sta iniziando a tingere di rosa la sommità delle cose, da noi disperse nel buio della notte. O forse, solo dando le spalle a quella stessa finestra, nostra complice di questi insani pensieri e aggirandosi nell’indecifrabile dominio della propria stanza, dove il pellegrinaggio non è meno impegnativo, per cercare di intendere qualcosa. E per non disperdere la rotta lungo il viaggio, è importante darsi un punto di riferimento geografico.
Non è per il timore di perdersi, che può essere di incredibile bellezza, è per non dimenticare la via, rendendola vana, è per sapere riconoscere il limite e la misura e la parzialità delle esperienze.  Per potere essere in grado di dire: io sono qui, questa è la mia parte, io voglio essere qui.  So riconoscere i luoghi e l’immutabile natura della luce che li definisce, qui è interno e là è esterno. So valutare quello spazio e il suo valore, il significato del suo limite e so pure il confine delle sue porte.

Ma come è cominciato tutto?
Forse attendendo fra un treno e l’altro, seduti su consumate panche di legno di sale d’attesa di piccole stazioni periferiche, rubando mormorate storie d’amore dallo sguardo del nostro vicino e aspettando che dall’altoparlante, quasi voce di Dio, si venisse informati sul nostro destino. Non su di un destino totale, come negli antichi miti, non per noi questo onore, ma solo di un piccolo destino, valido per il giorno successivo. Le sale d’attesa delle stazioni ferroviarie sono spazi dotati di intensi profumi: racchiudono non solo simbolicamente le voci della vita. E i pacchi e i bagagli, che le attraversano, raccontano del mutabile destino degli umani. E poi vi sono i colori delle sale d’attesa nella loro indifferente intimità.

Ma come è cominciato tutto?
Inseguendo forse private ossessioni su spazi intrisi di umidità, causata da una invadenza delle acque? Luoghi la cui decadenza e distruzione è oramai una fatale condizione? Ma sono pure spazi, che, in questa precaria condizione, stanno raggiungendo il momento più alto della loro esistenza. Si stanno trasformando in archeologici frammenti narranti storie di segreta complicità. Complicità attorno vite passate e presenti: è sufficiente avere il desiderio di interrogare. Ma forse queste architetture sono solo delle vecchie stazioni termali, dei bagni pubblici o delle piscine per nuotare nella penombra, e allora è in me qualcosa che non va, sono io a racchiudere qualcosa di sbagliato o una dimenticanza su di un momento della mia vita. Le case dell’acqua nella loro lenta ma fatale dissoluzione mi parlano del mio sbriciolarmi, perchè io sono in loro.

Ma come è cominciato tutto?
Ricordando forse un amore adolescenziale attraverso la memoria di una musica, suonata in una festa di quegli anni? Strana circostanza per guardare, allora, fisso negli occhi una ragazza e ancora più strana, oggi, per lasciarsi suggestionare attraverso il titolo di quel brano musicale a comporre un progetto o un’idea di progetto, dopo così tanto tempo.
E tuttavia quella musica, indipendentemente dal suo significato, mi pare contenere una grande verità su ciò che accade abitualmente o che accadeva all’architettura.
La Casa del Sole nascente unitamente a quell’altro disperante blues l’Ospedaledi St-James mi forniscono alcune precise indicazioni sul destino delle cose, dell’architettura e in riflesso dell’uomo. È la storia dell’interpretazione di un significato, trasformato per adeguarsi alle circostanze e ai luoghi. E così testi musicali, nati quasi ad accompagnamento all’allegorica serie di stampe hogartiane sul destino del giovane dissoluto, incrociandosi con altre popolazioni, con altre malinconie, si sarebbero trasformate in un’altra cosa.
Non è forse la stessa vicenda,  che ha accompagnato lo sviluppo dell’architettura palladiana del New England ? Là dove ha riassunto le antiche apparenze e il sostanzioso profumo del legno lavorato, riconcedendo al timpano quello stesso significato, sognato dal Palladio stesso, come degna cornice per l’ingresso della casa dell’uomo e non solo per la casa di Dio. E non è forse la stessa cosa che accade ad ogni buona architettura, che legata alle circostanze umane si sposta impercettibilmente, pur rimanendo sostanzialmente immutata da sempre? Il mio progetto vuole rappresentare la traccia di un cammino, che non può essere dimenticato. Il significato della memoria delle cose ci fornisce spiegazioni su noi stessi, che forse possono regalarci attimi di sospesa pace.

O forse tutto cominciò muovendosi per le strade della città, accompagnati da un grande stupore e da una disarmante semplicità?
O dedicando tempo alle costruzioni meccaniche dell’uomo; a quella grande tecnica che ha alimentato in tutti i sensi la nostra infanzia, fra i bagliori delle ferriere e gli alti fumi dei camini.
O sciupando il tempo in piccoli periferici teatri, quando sarebbe stato assai più logico dedicare tempo allo studio e al lavoro, ma la penombra di quella stanza e la luce del palcoscenico erano troppo affascinanti per non essere tentati di trasformarsi in un rinnovato Pinocchio.
O forse tutto cominciò girando per i margini della città, sotto la luce di quei lunghi tramonti d’estate.
O forse ancora, correndo per i suoi parchi e giardini, quando eravamo tanto giovani da non potere già indossare i pantaloni lunghi.
O dando spazio al sogno di un architetto amico.
O più egoisticamente, concedendomi alla costruzione di una casa più con le parole che con i mattoni.
O regalando attenzione all’umana vanità in una conversazione di mezza estate.
O forse più onestamente, come è in quel dipinto di Giorgione, nella precisa consapevolezza della vanità delle cose. Quando lui, forse il più raffinato pittore dell’umanesimo settentrionale, la cui opera e la cui vita è quasi tutto un enigma, nei confronti di quel viso sospende ogni giudizio e lascia che si spieghi da solo fino alle estreme conseguenze.
Le rughe sul volto di quella vecchia, i suoi capelli, i suoi denti e la liquidità di quello sguardo, già allontanato dalla bufera delle cose, sono di per loro parole di una assoluta chiarezza, a cui non occorre aggiungere altro. Ma lei, la vecchia, sta reggendo un fatale pezzo di carta, la cui iscrizione, “col tempo“, giustifica il buio che la circonda e che annulla ogni altro simbolismo e ogni altra cultura, all’infuori della consapevolezza della fine di ogni cosa. L’unica espressione che rimane, alta e sovrana, è la tecnica dell’artista, che ha saputo dare corpo all’idea, fin tanto che il tempo non distruggerà anche quella.

This entry was posted in MATERIALI. Bookmark the permalink.

Comments are closed.