Okakura Kakuzo, The Book of Tea, 1906

SugarCO Edizioni, 1991

Capitolo IV, La stanza del Tè

Agli occhi degli architetti europei, educati alla scuola dell’architettura di pietra e mattone, il nostro modo di costruire usando materiali di legno e bambù può sembrare indegno di essere chiamato architettura.

Solo recentemente uno studioso occidentale di architettura ha riconosciuto la straordinaria perfezione dei grandi templi giapponesi.  Se questa incomprensione riguarda addirittura l’intero campo della nostra architettura classica, come possiamo sperare che gli stranieri riescano ad apprezzare l’intima bellezza della Stanza del Tè, dal momento che i suoi principi architettonici e decorativi sono del tutto diversi dai canoni occidentali!
La stanza del Tè (Sukiya) non vuol essere altro che una  piccola casa, una capanna di paglia, come la chiamano i  giapponesi.  I caratteri ideografici originari della Sukiya significano Dimora della Fantasia. Col passare del tempo i diversi Maestri del Tè vi sostituirono alcuni caratteri cinesi a seconda della loro particolare concezione della Stanza del Tè, e adesso il termine Sukiya può anche significare La  Dimora del  Vuoto oppure La Dimora dell’Asimmetria.
E’ infatti la Dimora della Fantasia in quanto non é che una semplice costruzione che serve di asilo alle impressioni poetiche.  E’ anche la Dimora del Vuoto, in quanto é priva di qualsiasi ornamento, ad eccezione di quel poco che vi trova posto per poter soddisfare l’ispirazione poetica del momento.
E’ infine la Dimora dell’Asimmetria in quanto é destinata al culto dell’Incompiuto e appositamente vi si lascia sempre qualche particolare non finito che deve essere completato dal gioco della fantasia.

(…)
La creazione della prima Stanza del Tè fu opera di Sen-no-Soeki, generalmente conosciuto con il suo ultimo nome, Rikyu, il più grande di tutti i Maestri del Tè che nel sedicesimo secolo, sotto il patronato di Taiko Ideyoshi, stabilì e portò a un elevato grado di perfezione il rituale della Cerimonia del Tè.
Le proporzioni della Stanza del Tè erano già state fissate, prima di lui, da Sho-O, celebre Maestro del Tè che visse nel quindicesimo secolo.
Inizialmente la Stanza del Tè non era che una parte del salotto che veniva separata dal resto della stanza da alcuni paraventi.  Il luogo così separato veniva chiamato Kakoi (recinto), termine con cui ancora oggi si indicano quella Stanze del Tè che fanno parte della casa e che quindi non sono delle vere e proprie costruzioni indipendenti.
La Sukiya si compone  innanzitutto della Stanza del Tè vera e propria,  che non può accogliere più di cinque persone.
… E’ dotata di un’anticamera (mizuya) dove vengono lavati e preparati gli utensili necessari per la preparazione del tè, di un portico (machiai) dove gli ospiti attendono l’invito ad entrare, ed infine di un sentiero (roji) che unisce il  portico alla Stanza del Tè.
La Sukiya é un luogo semplice e poco appariscente. E’ più piccola delle più piccole case giapponesi, e i materiali con i quali é stata costruita danno l’impressione di una povertà raffinata, ma non si deve dimenticare che ogni minimo particolare  é frutto di una profonda premeditazione artistica,  e che ogni dettaglio é stato eseguito con cura ancor più attenta e minuziosa di quanto non si usi nella costruzione dei più ricchi templi e palazzi.
Una buona Stanza del Tè costa  molto di più di una casa normale poiché la scelta e la messa in opera dei materiali che la compongono richiedono cure e precisioni infinite.

(…)

La Stanza del Tè non si distingue solo dalla produzione architettonica occidentale, ma anche dalla stessa architettura classica giapponese. I nostri mobili e antichi edifici, sia civili che religiosi, non sono affatto da disprezzare anche se li si considera unicamente dal punto di cista delle loro proporzioni. I pochi edifici che nel corso dei secoli si sono salvati dagli incendi spesso disastrosi della nostra storia, colpiscono ancora oggi per la loro imponenza e per la ricchezza con cui sono decorati. Grandi pilastri di legno dal diametro di sessanta, perfino novanta centimetri e di nove, dodici metri di altezza, sopportavano, grazie a un complicato gioco di mensole, travi enormi sulle quali poggiava il peso degli obliqui tetti di tegole.
Se queste costruzioni e i loro materiali sono stati spesso facile preda degli incendi, si sono però dimostrati eccezionalmente resistenti ai terremoti e quindi sono particolarmente appropriati alle condizioni ambientali del Giappone.
La Sala d’Oro di Horyuji e la pagoda di Yakushiji, sono magnifiche testimonianze della capacità di resistenza attraverso il tempo della nostra architettura in legno. Questi edifici sono ancora praticamente intatti dopo dodici secoli di esistenza. L’interno dei templi e dei palazzi era un tempo riccamente decorato e ancora oggi possiamo vedere nel tempio di Hoodo a Uji (risalente al decimo secolo), alcuni baldacchini dorati dalla lavorazione raffinatissima, risplendenti di mille colori e incrostati di specchi e madreperla. Nello stesso tempio inoltre si possono ancora ammirare le pitture e le sculture che un tempo ricoprivano le pareti.
A Nikko e nel castello di Nijo a Kyoto possiamo vedere come la bellezza architettonica sia stata completamente sacrificata a vantaggio di una ornamentazione che, per colori e raffinatezza di particolari, eguaglia la raffinata ricchezza delle creazioni arabe e moresche.
La semplicità e la purezza della Stanza del Tè derivano dalla ispirazione al modello dei monasteri Zen.
Infatti un monastero Zen si differenzia da quelli delle altre sette buddiste in quanto vuole essere innanzi tutto una   dimora monastica. La sua cappella non rassomiglia in nulla a un luogo di religione o di pellegrinaggio, ma é più simile ad una sala di studio,  dove i discepoli si riuniscono per discussioni filosofiche o per esercizi di meditazione.
L’ambiente é disadorno, e solo dietro l’altare, in una piccola nicchia posta nel centro della stanza si trova una statua di Bodhidharma, il fondatore della setta Zen,  o di Sakyamuni, con ai lati Kasyapa e Ananda, i due primi patriarchi Zen. Sull’altare vi sono fiori e incenso,  le offerte alla memoria dei grandi servizi che questi due saggi hanno reso allo Zen.
Come abbiamo già detto, la CHA-NO-YU (la cerimonia del tè), deriva dal rito dei monaci Zen  di bere il tè da un unica coppa davanti all’immagine di Bodhidharma. Si deve anche ricordare che l’altare della cappella Zen fu il prototipo del tokonoma, che é il posto d’onore nella Stanza del Tè giapponese,  il luogo in cui si dispongono le pitture e i fiori per il piacere degli ospiti.
Tutti i grandi Maestri del Tè furono dei seguaci dello Zen, e si sforzarono di portare lo spirito di questa disciplina nella realtà concreta della vita. Così la Stanza del Tè e tutti gli oggetti che vengono usati nella cerimonia sono un riflesso della dottrina Zen.
Le dimensioni della Stanza del Tè, quattro stuoie e mezzo (circa cinque metri quadrati), sono state stabilite in base a un  Sutra  ViKramaditya.
Vi si afferma che Vikramaditya accolse un giorno il  santo Manjusri e ottantaquattromila discepoli del Bhudda, in una stanza di queste modeste dimensioni, una evidente allegoria che mostra come per i veri Illuminati  il concetto di  spazio non esiste.
Il Roji,  sentiero che attraversa il giardino e conduce dal portico alla Stanza del Tè, simboleggia il primo stadio della meditazione, il passaggio alla chiarezza interiore. Il Rojhi  é destinato a segnare l’interruzione di ogni legame con il mondo esterno, creando così la sensazione di essersi liberati da esso e prepara l’ospite al totale godimento estetico, che si raggiunge nella Stanza del Tè.
Chiunque percorra questo sentiero non può dimenticare come  il suo spirito si elevi  sopra i comuni pensieri mentre cammina nella penombra creata dalle piante sempreverdi, sulla ghiaia disposta regolarmente sui secchi aghi di pino, mentre segue le lanterne di granito coperte di muschio. Anche nel pieno di una città si ha ugualmente l’impressione di trovarsi nel mezzo di una grande foresta, lontani dalla polvere e dal rumore.
I maestri del Tè erano veramente bravi a creare questi momenti di serenità e pace interiore. La natura dei sentimenti che il passaggio  nel Roji suscitava si manifestava in modo alquanto diverso nei vari Maestri.
Qualcuno, come Rikyu, sognava la solitudine più completa, e riteneva che il segreto del Roji fosse contenuto nella vecchia canzone:

Guardo di là:
niente fiori 
né foglie dai mille colori.
Sulla riva del mare
una capanna solitaria,
nella luce morente
di una sera autunnale.

Altri, come Kobori-Enshu, cercavano effetti di genere diverso. Ensh sosteneva che l’ideale del sentiero si asprimeva in questi versi:

Un gruppo d’alberi estivi
Uno spicchio di mare
Una pallida luna serale.

Non è difficile comprendere il senso di queste parole. Il poeta vuole suggerire lo stato  appena svegliato, ancora vagante tra i sogni del passato, ancora immerso nella beata incoscienza di una melodiosa luce spirituale e aspira alla libertà che sente fuori di sé, nell’aldilà.
Così preparato, l’ospite si avvicina  silenziosamente al santuario, e, se é un samurai, lascerà la sua spada appesa ai ganci del tetto perché la Stanza del Tè é la vera Casa della Pace.
Poi, curvandosi profondamente, l’ospite si introduce all’interno attraverso la piccola porta, che é alta non più di novanta centimetri. Questo modo di entrare valeva per tutti, per i grandi come per i piccoli, conteneva infatti un precetto di comune umiltà. Dopo aver stabilito, durante una sosta sotto il portico, l’ordine di precedenza,  gli ospiti entrano in silenzio, uno dopo l’altro, nella Stanza del Tè e, dopo aver reso omaggio  alla pittura e alla composizione floreale nel tokonoma, occupano i loro posti. Il Maestro non entra nella Stanza se non dopo che tutti gli ospiti sono seduti ai loro posti. Nella stanza regna un profondo silenzio, rotto soltanto dalla musica dell’acqua che bolle  nella teiera di ferro. La teiera canta delicatamente, poiché si sono disposti sul fondo dei pezzi di ferro che producono una loro melodia in cui si può trovare l’eco, attutita dalle nuvole, di una lontana cascata o di un mare che in lontananza si rompe sugli scogli, o anche di un temporale che si abbatte su una foresta di bambù o, infine, il sospiro dei pini su di una lontana collina.
Anche in pieno giorno nella Stanza del Tè la luce é sempre soffusa, poiché gli spioventi del tetto lasciano a malapena penetrare pochi raggi di sole. Ogni cosa é delicata nel colore, dal pavimento al soffitto; anche gli invitati hanno scelto con cura le loro vesti, optando per le tinte più discrete.
La patina del tempo ricopre ogni oggetto, poiché in questo luogo non é ammesso niente di nuovo all’infuori del lungo cucchiaio di bambù ed all’asciugatoio di tela che deve essere nuovo e di un candore immacolato.
Ogni utensile deve essere lindo e pulito, per quanto vecchio esso sia. Anche l’angolo più remoto della Stanza del Tè non deve conoscere il benché minimo strato di polvere, poiché se così  non fosse il padrone di casa non potrebbe dirsi un Maestro del Tè, che deve possedere come principali qualità quella di scopare, pulire e lavare da se stesso la Stanza. Anche pulire e spolverare é un arte.  Un antico oggetto di metallo non deve venire lucidato sconsideratamente, con l’energia che vi impiegherebbe una massaia olandese. Su di un vaso da fiori le gocce d’acqua non devono venire asciugate ma lasciate, cosicché possano richiamare la rugiada e la freschezza.
A questo proposito c’è una storia di Rikyu che evidenzia molto bene il pensiero dei Maestri del Tè riguardo alla pulizia. Rikyu un giorno stava osservando suo figlio Sho-an che scopava e innaffiava il sentiero del giardino.
“Non è ancora pulito”, disse Rikyu quando Sho-an finì il suo lavoro e gli ordinò di cominciare di nuovo. Dopo un’ora di lavoro il giovane disse al padre: “Padre, non ho più niente da fare. Ho lavato i gradini tre volte, ho versato l’acqua sulle lanterne di pietra e sugli alberi muschio e lichene scintillano di un fresco verde. Non ho lasciato in terra né una foglia né un ramoscello.”
“Giovane scriteriato!”  esclamò il maestro del Tè, “non é così che si scopa un sentiero”, e Rikyu scese nel giardino, scosse un albero e sparse per terra le foglie d’oro e porpora, lembi del manto di broccato autunnale! Quello che Rikyu voleva non era solo ordine e pulizia ma anche bellezza e naturalezza.

L’espressione “Dimora della Fantasia” comporta una struttura destinata a soddisfare le esigenze e le tendenze artistiche personali. La Stanza del Tè è fatta per i Maestri, e non viceversa. La Stanza non è destinata al futuro, e quindi è effimera. L’idea che ognuno debba avere la sua casa personale deriva da una delle più antiche usanze giapponesi: a quella credenza Shinto che esige l’abbandono di una casa dopo la morte del suo proprietario.
Non è da escludere che questo costume abbia avuto origine da ragioni di carattere igienico. Secondo un’altra antica usanza, ogni coppia di giovani sposi deve possedere una casa nuova, e questo spiega anche l’antica abitudine di trasferire le capitali imperiali da una località all’altra. Anche la ricostruzione, che si rinnova ogni vent’anni, del tempio di Ise, santuario supremo della Dea del Sole, è una sopravvivenza di riti vecchi di molti secoli. Questi antichi costumi non potevano venire osservati se non ricorrendo ad una forma architettonica che è quella  del nostro sistema di costruzioni lignee, facile ad essere edificato e altrettanto facile ad essere demolito. Un modo di costruzione più duraturo, comprendente l’uso di pietra e mattoni, avrebbe rese impossibili queste antiche migrazioni, cosa che in effetti avvenne quando, dopo il periodo Nara, adottammo le più solide e massicce costruzioni lignee della Cina.
Verso il quindicesimo secolo, grazie alla diffusione dell’individualismo zen, l’antica idea della Stanza del Tè acquista un significato più profondo. Lo Ze, in accordo con la teoria buddista del dissolvimento e con il suo sforzo di conseguire la padronanza dello spirito sulla materia, considerò la casa niente più che un rifugio temporaneo per il corpo. E lo stesso organismo era considerato solo una capanna in mezzo alla solitudine,  un fragile riparo costruito con gli arbusti che crescevano a portata di mano e che non appena si allentavano i  loro legami si dissolvevano nel nulla originario.
Così nella Stanza del Tè la fugacità delle cose si trova suggerita dal tetto di paglia, dalla fragilità delle esili colonne, dalla leggerezza delle travi di bambù, dalla loro apparente noncuranza e dall’impiego di materiali comuni.
Il concetto di eternità risiede unicamente nello spirito, che incarnandosi in queste semplici cose, le abbellisce della luce che emana dalla sua raffinatezza.
La prescrizione che la Stanza del Tè debba essere costruita per adattarsi al gusto individuale, rafforza il principio della vitalità dell’arte, la quale per esprimere tutto il suo valore, deve essere fedele allo spirito del suo tempo. Non si tratta di menomare (?) i diritti del passato, ma di fare in modo che si passano godere quelli del presente. Né si tratta di disprezzare le creazioni del passato, ma piuttosto di cercare di assimilarle nella nostra stessa coscienza. Un conformismo servile nei confronti delle tradizioni  e delle formule ostacola l’espressione dell’individualità in architettura, e non può essere che deplorata la fredda imitazione degli edifici europei che si vede in Giappone.  E’ una cosa stupefacente che nelle nazioni occidentali più progredite l’architettura sia del tutto priva di originalità, e così ingombra di ripetizioni di stili sorpassati. Può darsi che, nell’attesa di qualche sovrano fondatore di nuove dinastie, l’arte attraversi un periodo di democratizzazione. Vorrei che noi amassimo maggiormente gli antichi, ma che li copiassimo di meno. Si è detto che i Greci dell’epoca classica furono un grande popolo perché non copiarono mai gli antichi.

L’altro nome che viene dato  alla Stanza del Tè,  “Dimora del Vuoto”, oltre a includere il concetto taoista dello spazio che comprende ogni cosa, implica anche il concetto del continuo cambiamento dei motivi decorativi: la Stanza del Tè è completamente vuota, lo ripeto, all’infuori di quello che vi può essere portato per un periodo temporaneo e per rispondere a qualche fantasia estetica. Vi si porta a volte un oggetto di un particolare interesse artistico e si sceglie e si dispone ogni altra cosa in modo da far valere la bellezza del tema principale.
Come non si possono ascoltare contemporaneamente diversi brani musicali, così si può comprendere il bello unicamente quando si concentra su di un motivo particolare. Come si può vedere il sistema di decorazione delle nostre stanze del Tè è nettamente diverso da quello usato in occidente dove spesso si trasformano in piccoli musei gli interni delle case. Ad un giapponese, abituato alla semplicità ornamentale e ai frequenti cambiamenti dell’arredo, un interno occidentale pieno zeppo di quadri, sculture e antichità di ogni epoca sembra una volgare ostentazione di opulenza. La comprensione artistica di un capolavoro  già richiede di per sé una notevole sensibilità artistica, ma quanto deve essere elevata la capacità di comprensione artistica di coloro che vivono quotidianamente immersi in una incredibile confusione di cose e colori, una situazione così frequente nelle case europee e americane.

Il termine “Dimora dell’Asimmetria” simboleggia infine un’altra fase del nostro sistema decorativo. I critici occidentali hanno scritto molti volumi sulla mancanza di simmetria che caratterizza gli oggetti dell’arte giapponese. Ma anche la mancanza di simmetria è una consapevole conseguenza degli ideali taoisti giunti a noi tramite lo Zen. Il confucianesimo, con la sua solida idea del dualismo e il buddismo del nord con il suo culto  ternario, non erano affatto contrari alla simmetria. Se prendiamo in esame i bronzi dell’antica civiltà cinese e l’arte religiosa dell’antica dinastia Tang e del periodo Nara, vi scopriremo una cura costante di ricerca di simmetria. La decorazione dei nostri interni classici è decisamente regolare.
La concezione taoista e Zen della perfezione era invece del tutto diversa. La natura dinamica della loro filosofia attribuiva una maggiore importanza al modo con cui si ricerca la perfezione che non alla perfezione stessa. Solo chi ha mentalmente reso completo quello che è incompleto può scoprire la vera bellezza. La forza della vita e dell’arte risiedono nelle loro possibilità di sviluppo.
Nella Stanza del Tè, ciascun invitato può, secondo il suo gusto personale,  completare mentalmente l’effetto di tutto l’insieme. Da quando lo Zen ha impregnato di sé l’intera cultura giapponese, l’arte estremo orientale ha deliberatamente scelto di non essere simmetrica, perché nella simmetria vedeva espressa non solo l’idea del completo, ma anche quella della ripetizione. L’uniformità del disegno venne considerata negativa per la freschezza dell’immaginazione. Questo spiega come i paesaggi,  gli uccelli, i fiori, divennero i soggetti preferiti della pittura giapponese, a scapito della figura umana che è già presente nella persona di chi osserva.
Noi uomini ci mettiamo fin troppo in evidenza e, nonostante tutta la vanità dell’essere umano, prendere sempre in esame noi stessi diventa con il trascorrere del tempo qualcosa di estremamente monotono.
Nella Stanza del Tè è continuamente presente il timore di ripetersi. I diversi oggetti che ne fanno parte devono essere scelti in modo che non vi si ripeta né un colore né un disegno: se ci si mette un fiore, allora non ci deve essere nessun dipinto a sfondo floreale. Se viene usata una teiera rotonda, il recipiente che contiene l’acqua deve essere angolare. Non si deve mai accostare una tazza di smalto nero a una scatola di lacca nera. Se si colloca un vaso sul portaincensi del tokonoma, non lo si deve mai deporre nel centro, affinché lo spazio non venga diviso in due parti uguali. Il pilastro del tokonoma dovrà essere di un legno diverso da quello degli altri perché l’insieme della stanza non risulti monotono.
Questo metodo di decorazione degli interni giapponese si differenzia da quello in voga in occidente, dove vediamo oggetti disposti simmetricamente sulle mensole dei camini e in altri luoghi della casa. Nelle dimore occidentali ci troviamo spesso di fronte a una inutile ripetizione di motivi. A noi riesce difficile, per esempio, parlare con una persona il cui ritratto, magari in grandezza naturale, ci osserva da dietro le sue spalle. Ci chiediamo quale sia la persona reale: quella raffigurata nel ritratto o il nostro interlocutore? E proviamo la strana sensazione che uno dei due debba essere finto. Quante volte ci siamo trovati a tavola, costretti a contemplare, non senza pericolo per la nostra digestione,  delle raffigurazioni con cui in occidente si decorano le pareti delle sale da pranzo. Quale scopo hanno questi quadri che illustrano scene di caccia e di sport, e le rappresentazioni di pesci e di frutta? E tutte queste esibizioni di argenteria di famiglia, che ci rimandano col pensiero a tutti coloro che hanno pranzato a quella tavola e che ora sono morti?
La semplicità della Stanza del Tè e la capacità che essa ha di fungere da luogo in cui ci si può astrarre dalle preoccupazioni quotidiane, la rendono un ottimo rifugio contro tutti i drammi del mondo esterno.

Soltanto nella Stanza del Tè ci si può consacrare all’adorazione della bellezza, senza timore di essere disturbati. Nel sedicesimo secolo la Stanza del Tè offrì ai guerrieri e agli statisti, che lavoravano per l’unificazione e la ricostruzione del Giappone, un gradito riposo dalle loro fatiche. Nel diciassettesimo secolo,  con l’istaurazione del severo formalismo dei Tokugawa, essa costituì l’unica possibilità di libera comunione per le anime elette. Di fronte alla bellezza di una autentica opera d’arte scompare ogni differenza tra il daymo, il samurai e l’uomo del popolo.
Oggi il processo di industrializzazione rende sempre più difficile la pratica del bello e del raffinato. Oggi più che mai sentiamo il bisogno della Stanza del Tè.

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