Leone Traverso, Sugli ultimi inni di Holderlin. Introduzione a Holderlin, Inni e frammenti, Vallecchi, 1955

A Holderlin “bastava credere per creare”, disse un contemporaneo. Oggetto della sua creazione, il creato stesso, o, come dirà più tardi Mallarmé,  l’interpretazione orfica della terra: una cosmologia che abbracci anche la storia in atto e anticipi il futuro.  Epoche felici sono trascorse, nell’accordo fra uomini e numi, seguite da età oscure dove il Divino sembra dileguato. Ma un intimo ritmo accerta la palingenesi:  “nulla è il male”  o solo germe di futuro bene. Così la sorte esemplare dell’antica grecia arriderà a una Germania eletta consigliera pacifica  tra le genti,  al termine di un cammino inverso: non imitazione sterile del passato,  ma rinnovamento fino all’opposizione è il compito della nuova età.

Ritmo triadico della terra: armonia fra mortali e celesti,  giorno luminoso, perfetta civiltà;  oscuramento del Divino, decadenza, epoca nostra;  nuova alba a venire, di epifanie celesti.  Perfetti, i numi, sazi di immortalità, abbisognano di chi senta per essi e si sacrifichi nella mediazione fra cielo e terra: gli eroi (Eracle, Dioniso, Cristo, ultimo nella serie storica, il più caro al poeta, araldo a sua volta di altri, futuri).  Missione dei poeti, annunciare i nuovi  numi o ravvivarne l’attesa ricordando gli antichi.  S’amplia ogni volta il cerchio evolutivo,  sorgono e tramontano civiltà, permane il ritmo del processo; nulla di più remoto dall’”eterno ritorno” immaginato poi da Nietzsche. E se il tono, nell’età deserta dagli dei,  si ombra di nostalgia e sconforto, la rievocazione accorata è solo, nella sinfonia holderliniana, un tempo che precede l’annuncio giubilante.

L’inno si svolge in numero ternario: strofe, antistrofe, epodo, che nel loro ritorno si compongono in gruppi maggiori a rinnovare contrasti e conciliazioni in giri più vasti. Lo schema metrico, suggerito da Pindaro e dai cori tragici, sostiene e incarna la vicenda dialettica di una storia ideale. Se alla stesura di qualche grande inno a Holderlin venne meno il respiro (o a noi i manoscritti) e camminiamo interrogando tra macerie e lacune, la solidità di una base, il giro di un arco, una sola navata superstite già proclamano, sia anche sparito ai nostri occhi o solo ideato, l’edificio.

Al più forte è anche data la grazia;  e a Holderlin, come a Dante, accade di penetrare nella più intima fibra, a volte quasi affondare e sommergersi nella polpa delle percezioni, mentre mira al bersaglio più alto.  Virtù della lingua e dello stile: su cui Holderlin ha tanto meditato e innovato “da elevare la grammatica in condizione di mistero e farne ritmo”.

Holderlin inizia il monologo dell’uomo orfano nella natura:  dallo smarrito vagare in labirinti d’ansia, repentina sorge a volte, breve grido, l’interrogazione. Segue una sentenza, a recuperare e saldare l’equilibrio insidiato, ringhiera a ponti sospesi sull’abbisso.  Sulla “gnome” (sovente umiliata da Pindaro a espediente di trapasso) fonda Holderlin la struttura dell’inno:  che non è mai (anche se a volte, mancando il contesto, appare) effusione personale o notazione di paesaggio caratteristico,  mai ricerca di sensazione per sé; ma sempre intende e allude a un giro più alto, intreccia nessi cosmici.  Facile tentazione – ma umilierebbe Holderlin a una statura di crepuscolare – una lettura “frammentaria”; se anche a nessun altro poeta tedesco sia sia avvenuo come a lui – ma di passaggio, non di proposito –  di fissare in breve giro di parole il fascino di una solitudine eroica o di idillio, l’ombra di un viale lungo acque vive, un profilo di giovinetta,  o lo sgomento per  “le sort qu’encourt l’enfant avec son ingénue audace marchant en l’existence selon sa divinitè”.  Ma sono questi ancora elementi,  non il senso ultimo, metafisico, ch’egli persegue, d’una condizione terrena,  filtrati da un amore e un dolore più che terreni, restituiti a purezza che natura non regala, solo l’arte conquista. E uno sguardo alle varianti ci rivela a quale esercizo di perfezione insieme tecnica e spirituale lo legasse “il mestiere” di poeta.  Nulla di più estraneo a lui dell’illuminazione inconsulta, del delirio irresponsabile; nulla, d’altra parte, nell’occidente cristiano, di ispirato come qualche suo canto. Il lavoro di approssimazione progressiva, testimoniato dalle diverse stesure,  conduce spesso a una identifiicazione così perfetta da sgomentare ad ogni tentativo, non solo di traduzione in altra lingua, ma di parafrasi del testo: non s’immagina quel cristallo in alta forma. Necessario e suggestivo,  ma fatalmente contraddittorio e incrinato dal dubbio finale,  l’affanno di molti studiosi per offrirci in formule definitive il pensiero di Holderlin,  che si andava elaborando  – sfumature spesso, a volte temerarie novazioni – da una stesura all’altra del medesimo carme;  né ci si può fondare su un’ordine cronologico induttivo. Di alcuni componimenti,  intatte certe strofe,  altre ci riappaiono così  profondamente rimaneggiate in abbozzi successivi (se anche breve fosse il tempo in mezzo) e tanto alterata la misura stessa del verso da provocare leggittima la domanda: appunto fulmineo, solo a metà verseggiato? Certo quanto più s’appressano le tenebre, più perentorio si fa il dettato, più brevi e ripide, senza legame, le frasi, quanto non s’avventuri  arditamente in un tortuoso cammino insidiato e alla fine sopraffatto da incisi senza scampo. (Né il lettore più ingegnoso vale talora a ristabilire l’ordine delle membrature o a confermare inoppugnabile il senso di una parola pure dominante.).

La sua tempra aveva potuto reggere all’estasi, reggere,  perduta Diotima, al lutto del Divino sparito dal mondo; “maturo, immerso nel fuoco, adusto”, Holderlin aveva toccato l’estremo dell’esperienza umana: poteva ora, perfetto, esemplare, cantare  “in nome di una comunità”, assunte nella propria coscienza le vicende dell’umanità, redimere nell’inno anche la notte.

Dal centro egli ora parla, investito d’autorità mentre davanti al suo spirito si svolgono le stagioni del travaglio umano e ognuna, anche lo squallido inverno,  il buio deserto di numi, offre, in quell’ordine, un suggello di fatalità, un’aura della Grazia che provvede.  “Per scale”  si manifesta e trionfa il Divino nel mondo;  né Holderlin può rinunciare al riscatto di  eroi e numi leggendari del cielo pagano: grecità e cristianesimo per lui, come ai nostri giorni per Simone Weil, devono, al di là dei contrasti, comporsi in armonia.  Lo sforzo di questi Inni è appunto accostare e sanare e saldare insieme queste antinomie che gli tengono l’animo diviso e combattuto fra amori, anzi, culti inconciliabili.  Chè la prima radice d’ogni sua parola, anzi il primo impulso d’ogni suo moto, è una “pietas”,  un brivido religioso che né illuminismo né filosofia di contemporanei, anzi condiscepoli ai giorni di Tubinga, sono valsi a spegnere.  Mai la fatica d’intendere ferma in lui la primaria vibrazione del sentimento; nessuna formula razionale placa la sua nostalgia dell’en cai pan originario. Tutto l’intelletto e tutta l’anima sono impegnati a recuperare quel primo, solo, supremo bene: la fusione col Divino. (Né la storia dell’umanità ha per lui altro senso, né altro oggetto, che l’alternanza di apparizioni e d’eclissi del Divino sulla terra).  Negatagli la beatitudine del contatto divino, dell’estasi, non vi può rinunciare;  non possesso (che è privilegio della fede ingenua) ma dolente e ardita brama di riconquista; non vive egli nella felicità dell’attimo, ma nella tensione tra memoria e futuro. Se l’unità esistenziale – e a volte del poema – è franta, una nuova profondità della coscienza frustata, una risonanza intima e lunga ne è il compenso d’arte. (E senza un’ombra del compiacimento oggi in voga per altri silenzii – a volte puri vuoti – avvertiamo nelle lacune del testo holderlniano, come nel cavo dei bronzi, ancora il lineamento delle sentenze perdute).

L’aura mitica,  aspirazione ultima d’ogni poeta,  è l’atmosfera naturale che Holderlin respira: non artificio d’alchimia letteraria,  ma mero effetto di condizione spirituale.  A lui basta ormai  “nominare” (che è nelle età religiose, e per lui, atto sacro) per evocare infallibili apparizioni.  Anzi il mito, nel senso tradizionale di racconto, caro – pure in scorci – a Pindaro, si riduce in questi inni a rapida allusione,  anche dove sembra – ma è illusione – dominare. Non di atti egli cura ma d’intimo atteggiamento, non di gesti, ma di essenza. Di qui la magia anche dei frammenti non accessibili tuttavia a un’indagine razionale,  dove l’autorità del tono trascende l’oscurità della lettera.  Segno ancora di un destino esemplare il buio  che invade alla fine – ma previsto – chi aveva tentato di riscattare in luce prometeicamente ogni tenebra umana.  Nell’inanità dei lunghi anni sopravvissuti nella torre a specchio del Neckar, stagioni paesaggi e memorie s’avvicenderanno ormai come nitide immagini, ma senza peso, oltre un lucido vetro; erbario, atlante, il cosmo un giorno corso da moti eroici.

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