Mnemosyne, personificazione divina della facoltà mnemonica (mneme), celebrata da Esiodo come madre delle Muse e venerata quale nume salutare negli Asclepièi, è venuta in primo piano nella nostra visione dell’orfismo a seguito della scoperta, in una tomba di Hippònion della fine del secolo V o dell’inizio del IV a.C., di una laminetta aurea con un testo in parte coincidente con quelli noti di altre laminette “orfiche” di Magna Grecia, di Creta e della Macedonia.
Così si presenta il testo della lamina ipponiate:
“A MNEMOSYNE APPARTIENE QUESTO SEPOLCRO.
Appena che sarai venuto a morte,
andrai alle case ben costruite di Ade. V’è sulla destra una fonte,
accanto ad essa s’erge un bianco cipresso:
lì discendono le anime dei morti e cercano refrigerio.
A questa fonte non accostarti neppure;
ma più avanti troverai la fresca acqua che scorre
dal lago di Mnemosyne: vi stanno innanzi custodi,
i quali ti chiederanno, con sicuro discernimento,
che mai cerchi per la tenebra di Ade sonnolento(?).
Rispondi: sono figlio della Greve e del Cielo stellato,
di sete sono riarso e mi sento morire: ma datemi presto
la fresca acqua che scorre dal lago di Mnemosyne;
Ed essi saranno pietosi per volere del sovrano di sotterra,
e ti daranno da bere l’acqua del lago di Mnemosyne;
e poi che avrai bevuto procederai sulla sacra via su cui anche gli altri, mystai e bacchoi si allontanano gloriosi.”
La formula che invoca “la fresca acqua di Mnemosyne” era già nota dalla lamina di Petelia; ma in quella ipponiate Mnemosyne assume proprio al principio una parte nuova e rilevante, come di persona divina alla cui autorità è affidata la tutela dell’iniziato, oltre che la sua “salute”, nel critico momento segnato dall’esame mediante il quale i “phylakes” identificano il supplice come mystes o bacchos, e gli permettono quindi di bere l’acqua mnemosina.
Nell’incipit (“Μναμοσύνας τόδε ήρίον.”) si deve infatti postulare l’avvenuta sostituzione di ήρίον ad
un altro termine che era, da un certo momento almeno, interdetto: sembra
probabile che un tal termine sia stato σημα, la restituzione del quale
eliminerebbe l’aporia metrica; σημα infatti, nel suo significato di “sepolcro”,
doveva essere divenuto un termine inviso agli Orfici, dacché un σοφός
verosimilmente italiota ebbe coniata la formula
σωμα σημα, “il corpo è tomba” dell’anima, come si legge nel Gorgia (493
a).
“Di Mnemosyne è questo il segno” (o “il
sigillo”), appare un inizio armonico con le dottrine religiose misteriche, e
con l’idea in esse sempre presente della
distinzione dell’eletto mediante un mistico “segno” o “sigillo”. Così nella
visione oltremondana che gli Orfici si tramandavano del loro distacco dalle
anime dei non iniziati, che ignare della fresca acqua mnemosynia, cercavano
refrigerio nella fonte di Lethe,
dell’oblio (e rientravano quindi nel ciclo delle rinascite, con le
sofferenze che comportava l’imprigionamento dell’essenza urania in una veste di greve materia), Mnemosyne,
antitesi dell’oblio, doveva apparire come la dea salutifera non già vittoriosa
della morte ma trasformatrice delle reiterantisi morti (che concludevano
episodiche vite e preludevano ad altre) in quella diversa “morte” che segnava
il definitivo transito alla vera vita, quale facevano intravedere i versi
euripidei citati da Socrate nel Gorgia: “Chi sa se il vivere sia morire, e il
morire vivere?”
E’ in virtù di questa speranza che in
fine del Fedone Socrate invita Critone ad offrire un gallo ad Asclepio, come
per un’ottenuta guarigione; e poiché Mnemosyne è con Themis e Tyche tra i numi
che ricevevano culto in più Asclepiei –
ad Epidauro, al Pireo, a Pergamo, è
opportuno chiedersi se la dea abbia avuto soltanto, come abitualmente si
ritiene, l’ufficio di non far dimenticare i responsi che i fedeli ricevevano
durante l’έγκοίμησις, o se la sua presenza non sia piuttosto dovuta
all’originaria sua connessione col mondo catactonio, quale presuppone appunto
l’appartenenza della Μνημοσύνης λιμνη
alla χθονίων βασιλεία.
Il risalto che nei citati testi viene dato a Mnemosyne, della quale non fanno alcun cenno le altre lamine comunemente considerate “orfiche”, autorizza una distinzione all’interno di questi testi escatologici che certamente si riferiscono tutti a religioni misteriche, ma non tutti alla medesima religione. Così, mentre nelle lamine con la menzione di Mnemosyne e della sua acqua redentrice non è parola di altri numi se non di un innominato χθονίων βασιλεύς, né di assimilazione del mystes a uno degli immortali, né della sede oltremondana che attende i mystai , nelle altre si trovano invocazioni alla άγνέ Φερσεφόνεια, a Εύκλης e Εύβουλεύς, e agli altri αθάνατοι θεοί άλλοι, e come sede dei mystai figurano i λειμονες τε ίεροί και άλσεα Φερσεφονείας, “i sacri prati e i boschi di Persefone”; inoltre v’è promessa di άποθέωσις al mystes : “o felice e beato, dio sarai invece che mortale”. E’ dunque evidente che la religione di cui Mnemosyne adempie una funzione di spirituale tutrice è altra da quella che promette ai suoi iniziati non solo la liberazione dal ciclo delle rinascite ma anche la divinizzazione. E proprio l’assoluto silenzio su questo punto suggerisce che la dottrina che si richiama a Mnemosyne abbia accolto un principio che è divenuto canonico nella religione greca soprattutto per opera dei teologi di Delfi, ove la formula incisa sul frontone del tempio di Apollo, γνώθι σεαυθόν, sanciva il dovere dei mortali di essere consapevoli dell’insuperabile limite che li separava dai numi immortali; e che pertanto la religione misterica, certamente dionisiaca, (come indica il mistico titolo βάκχος), alla quale appartengono i testi “mnemosynii”, sia stata una religione di élite, estranea alla più vasta sfera delle religioni misteriche caratterizzate da riti naturalistici e frenetici όργια, ma intimamente legata alla religione pitica che, abbinando Dioniso con Apollo, (il cui tempio in Delfi sorgeva sopra il “sepolcro” del nume ctonio), armonizzava così l’escatologia come i riti con quell’attitudine umana verso la divinità che era stata definita dai sacerdoti delfici. Questa rigorosa ed austera visione teologica e etica è stata fatta propria da una singolare scuola religiosa e filosofica che è fiorita appunto in Magna Grecia – la regione a cui appartengono le più belle lamine ricordate e tutte le “mnemosynie” – e ha attribuito una particolare importanza alla μνήμη: la scuola di Pitagora.
Qui si deve avvertire che la ricerca
delle relazioni intercorse tra l’orfismo e il pitagorismo è tra le più
difficili, per l’incerta e non copiosa
informazione che si ottiene dalla tradizione classica e, in quel che concerne
l’orfismo e le altre dottrine iniziatiche,
per l’ovvia mancanza di precise notizie circa le loro dottrine, tenute naturalmente occulte ai profani,
mentre gli iniziati erano vincolati al segreto: anche chi poteva averne una
certa cognizione, come probabilmente Platone, si è limitato ad episodiche
allusioni. Come per le altre escatologie, così per l’orfica, il male da cui
l’iniziato intende liberarsi è l’incessante rinnovarsi dell’angosciosa
esperienza qual è imposto dalla legge della μετενψΰχωσις, o meglio
μετενσωμάτωσις. La dottrina della trasmigrazione
dell’anima è stata canonica per i Pitagorici; anzi Pitagora è celebrato come i
primo dei filosofi greci che insegnarono quella dottrina. Ma poiché è
improbabile che religioni misteriche di remota origine si siano appropriate di
una dottrina sorta nell’ambito di una scuola esoterica come la pitagorica, si
deve ritenere che da una di esse sia venuta a Pitagora l’ispirazione: a che
sembra d’altronde alludere Erodoto (II 123), che, seguendo la sua inclinazione
a ritrovare archetipi egiziani per più aspetti della religione greca, scrisse che “gli Egizi per primi enunciarono
la dottrina che l’anime dell’uomo è immortale e che quando il corpo perisce
essa trapassa in un altro vivente che di volta in volta nasce…”; e aggiunse: “ Vi sono Greci che hanno adottato
questa dottrina, alcuni in antico, altri più recentemente, dichiarandola loro
propria; e io conosco i loro nomi ma non li scrivo.”
Anche nella storiografia moderna si manifesta di tanto in tanto un’inclinazione
a ricercare in culture del Vicino e del Medio Oriente la fonte prima di dottrine greche; e per la
dottrina della μετενσωμάτωσις l’indagine si è naturalmente rivolta , oltre che
verso l’Egitto, verso l’India. Relazioni del mondo greco, con quelle zone sono
ammissibili anche per l’età arcaica; ma
la dottrina greca non ha caratteri che denotino un’origine esterna, e la sua
genesi si riconduce più facilmente ad una intuizione spontanea, simile a quelle
manifestatesi in altre culture coeve, ma non però da quelle dipendente, stimolata com’è da un intima esigenza di
cercare un legame con le molteplici forme di vita che l’uomo quotidianamente
vede associate alla sua propria, e insieme dall’ansia di serbare oltre la morte
la coscienza della propria personalità.
La dottrina della trasmigrazione elaborata da Pitagora era governata da
una dottrina morale rigorosa e non semplicemente da pratiche cultuali e da
simboli rituali; parimente l’orfismo si è distinto dalle altre religioni
misteriche. Gli ήθικά δόγματα di
Pitagora, che Aristosseno asseriva ispirati dalla Pizia, includevano
prescrizioni catartiche; e quel che si
sa del πυταγορικός βίος lo mostra affine
all’όρφικός βίος descritto da Platone nelle Leggi (VI
782c). Le coincidenze tra i dati della
tradizione classica concernenti l’orfismo e quelle concernenti il pitagorismo
sono tali da convalidare l’opinione che l’orfismo autentico, religione di
élite, sia stato la religione dei
Pitagorici; i quali — teste Aristosseno, nella Vita di Pitagora di
Giamblico (164 e 166) — “ritenevano che si deve trattenere e conservare nella
memoria tutto ciò che viene insegnato e spiegato, e che le dottrine e gli
insegnamenti pertanto si possiedono per quanto è capace di recepire quella
parte dell’anima che apprende e ricorda; perché è essa il principio mediante il quale
si acquista la conoscenza e in cui si custodisce il giudizio… E sempre di più
cercavano di esercitar la memoria: nulla essendoci che più valga per la
scienza, per l’esperienza e per il raziocinio, della facoltà del ricordare”. Del nesso tra orfismo e pitagorismo era ben
consapevole Erodoto (II 81, 2), che di
prescrizioni funerarie egiziane dice ch’esse “si accordano con quelle che son
dette orfiche e pitagoriche”. Platone, che meglio di altri poté conoscere la
religione dei pitagorici, grazie alla stima di cui godeva nel circolo di
Archita, è il più autorevole testimone, con le sue discrete allusioni,
dell’impegno intellettuale dei Pitagorici, anche in relazione alla loro
dottrina morale e ai nessi di questa con l’escatologia orfica; e l’intimo culto
di Mnemosyne che traspare specialmente nella lamina di Ipponio è quanto mai
appropriati ai Pitagorici; μνημονεύειν, “rammentare” significa sapere; e difatti αλήθεια, vale a
dire l’ “assenza di oblio”, l’antitesi del dimenticare, è “verità”, cioè certezza
del conoscere. Ma rammentare significa anche superare le scansioni del tempo
che segnano la breve vita mortale; e poco importa che le superi verso il
passato, perché nella sua facoltà mnemonica l’intelletto ravvisa la sua
capacità di superare il limitato, il sensibile e mortale, quindi la sua indipendenza da questo; cosi
Mnemosyne divinizzata è madre di tutte le creazioni del νοΰς – le Muse che ne
impersonano le forme, e all’immagine
caduca del corpo mortale si contrappone quella perenne della ψυχή. Un indice di
questo arcaico processo mentale si offre in una delle rare sentenze superstiti
di un grande medico crotoniate, amico e probabilmente discepolo di
Pitagora, Alcmeone: che “perciò gli
uomini muoiono, perché non possono connettere il principio e la fine”.
E un’eco sicuramente alcmeonica è nel Fedone, (96 ab), quando Socrate cita la
dottrina secondo cui “è il cervello che
procura le sensazioni, e da queste nascono la memoria e l’opinione, e quando dalla memoria riceve stabilità
l’opinione, allora nasce la scienza”; in
che trova riscontro la doxografia (Aetio A8TC) che attribuisce ad Alcmeone la dottrina
dell’ήγεμονίκόν, ossia dell’anima che ha
sede nel cervello (cfr. Teofrasto A5TC) e dà all’uomo la conoscenza
intellettiva (ξύνεσις). L’anima che, teste Aristotele, (A12 TC)Alcmeone dichiarava immortale perché
simile agli Immortali.
Si intravede qui la dottrina pitagorica dell’anima: dottrina che, a detta di
Galeno (De plac. Hippocr. Et Plat. V
6,42) Posidonio considerava, sul
fondamento degli scritti di alcuni discepoli di Pitagora, non diversa da quella
di Hippocrate e di Platone; e appare probabile un’ispirazione pitagorica e
alcmeonica della dottrina ippocratica della ανάμνησις come momento inscindibile della διάγνωσις e
della πρόνοια dunque del superamento intellettuale di ogni definizione
temporale, con un’implicita affermazione della perennità del νόυς. Probabile,
ancora, che nella facoltà mnemonica sia stato riconosciuto un segno del
persistere della individualità: perché è nella memoria, cioè nella
consapevolezza delle proprie sue proprie
esperienze, della responsabilità delle sue azioni e delle conseguenze
ch’esse comportano oltre la morte, che l’anima acquista la coscienza della sua
identità; e in ciò le è data un arra di immortalità personale, di continuità
dell’individuale nella vicenda delle trasmigrazioni, almeno fino al momento in
cui l’iniziazione interrompe tale vicenda, qualunque sia la soluzione che le
varie escatologie prospettino. Non sappiamo quale conclusione si figurassero
gli Orfici (o i Pitagorici) per il viaggio dell’anima liberata da ogni residuo
di quel corporeo pondus che la costringe al ciclo delle rinascite e
fattasi pertanto nous; il testo orfico
di Ipponio serba un suggestivo silenzio circa la meta finale della ιερά
οδός, così divergendo dai numerosi testi
in cui ricorrono le consuete immagini di
luoghi sacri ai numi inferi o di sedi di beati. Può suggerire un ritorno all’Uno e quindi il
dissolvimento di ogni vincolo di finitezza, una testimonianza dei Theologumena
arithmeticae dello pseudo Giamblico, relativa a Filolao: “Fede è anche chiamata
(la decade) , perché secondo Filolao noi abbiamo salda fede nella decade e
nelle sue parti riguardo a ciò che esiste, quando esse siano comprese in modo
non superficiale. Perciò può esser chiamata anche memoria (μνήμη), per le
stesse ragioni per cui anche la monade ebbe il nome di Mnemosyne” (A13TC, p.
81, 15 De Falco); e Lido aggiunge (A 14 TC) che “a ragione Filolao la chiamò
decade, in quanto atta ad accogliere l’interminato (άπειρον)”. La dea Mnemosyne presiede dunque alla vita
dell’anima, sia nel conferirle con la Mneme la coscienza dell’esser suo, sia
nel tener viva in essa la memoria della sua appartenenza all’Uno, il distacco
dal quale è probabile che gli Orfico-pitagorici attribuissero a quella τόλμα
che per loro designava la δυάς dunque il principio antitetico alla μονάς (τό έν
per Filolao e Archita, άρχέ πάντων per Filolao), del quale discorrono il primo
Plotino e i suoi avversari gnostici come della αίτία della κάθοδος delle anime.
La dottrina orfico-pitagorica dell’anima e dei suoi destini non è stata
certamente estranea all’elaborazione di quella platonica, in cui l’ anamnesis –
che è vero sapere – è tuttavia diversa dalla mneme, perché è memoria non più di
esperienze mondane ma della sua divina origine. Nell’innata tensione dell’anima
verso il Bene, che la fa sentire responsabile delle sue scelte e dà efficacia
all’espiazione dei suoi errori, l’anima non ha altra guida che il suo proprio
δαίμων, la coscienza di sé illuminata dalla ανάμνσις. La μνήμη “conservazione
di una sensazione”, di “quelle passioni che l’anima provò insieme col corpo” e
l’ανάμνεσις, rievocazione di una sensazione o di una dottrina obliterata nella
memoria (Filebo 34) appartengono l’una e l’altra alla sfera di Mnemosyne; e la
dea governa l’anima immortale
finché questa non si è fatta
“pura e disposta a salire alle stelle”.
Sono illuminanti, a questo proposito, due delle annotazioni plutarchee a
Platone che in molti codici fanno seguito al commento di Olimipodoro al Fedone:
(g) “che la verità (αλήθεια) chiarisce nel suo nome che il sapere (έπιστήμη) è
ripulsa dell’oblio (λήθης επιβολή) cioè
reminiscenza (ανάμνησις) e (h): che quelli i quali dicono madre delle Muse la
Mnemosyne intendono la medesima cosa: le Muse infatti producono la ricerca,
Mnemosyne, la scoperta”.
Si avverte qui la reminiscenza di un luogo del Teeteto (191d), che acquista
particolare significato quando sia riportato
all’incipit della lamina ipponiate con la probabile lezione di σημα (pro
ήρίον):
Socr.: Concedimi dunque, a mo’ di esempio, che ci sia nelle nostre anime un
blocco di cera… E diciamo che questa
cera è dono della madre delle Muse, Mnemosyne, e che in essa, sottoponendola
alle nostre sensazioni e ai nostri pensieri noi imprimiamo via via,
imprimendovi dei segni come di suggelli, qualsiasi cosa desideriamo ricordare
tra quelle che vediamo o udiamo o noi stessi pensiamo; e ciò che quivi sia
effigiato, noi lo ricordiamo e lo conosciamo finché ve ne duri l’immagine…”. Al
dono di Mnemosyne, dunque, risale la possibilità di “sapere”; e sapere è la
premessa della liberazione.
Della dottrina orfico-pitagorica e platonica sono stati naturalmente eredi i Neoplatonici,
che al problema della immortalità dell’anima, e dell’anima individuale, hanno
dato particolare rilievo, specialmente nell’età che E. R. Dodds ha chiamato “an
age of anxiety”. Qui una ricerca sistematica è resa particolarmente difficile
dalla mancanza di lessici che permettano di orientarsi nella congerie di testi,
molti dei quali in edizione ancora provvisoria.
Fanno eccezione a ciò le Enneadi di Plotino, che nel nostro secolo hanno nuovamente ottenuto le cure di filologi
ed esperti. E in Plotino, dopo una lunga pausa dovuta al prevalere di una problematica
psicologica sperimentale così nel Liceo come nella Stoa e nel Kepos, riemerge
quello che nel Teeteto (174b) Platone indica come il problema che totalmente
impegna il filosofo: “che cosa sia l’uomo, e che cosa a siffatta natura, a
differenza di tutti gli altri esseri s’addice di fare o patire”. A.J. Festugière, nella sua preziosa Revelation
d’Hermès Trimégiste, prendendo le mosse dalla doxografia di Giamblico nel περί ψυχής (di cui ha conservato estratti
Strobeo), ha classificato le risposte, ottimistiche o pessimistiche, che sono
state date al problema compendiato nella formula επί τί γεγόναμεν: “Perché
siamo nati?”. Dodds ha messo in risalto la diversità delle
risposte date da Plotino: con una apparente inconsistenza, quale d’altronde
Plotino stesso rilevava in Platone (IV, 8,1)
“non s’attiene dovunque allo stesso insegnamento, onde si possa scorgere
senz’altro il suo vero proposito”), dalla quale è evidente che entrambi i
filosofi hanno ripetutamente meditato sui problemi che a loro erano sempre
presenti. Dodds ha mostrato come da uno studio dei testi plotiniani che tenga
conto della loro cronologia risulti chiaro che la polemica contro gli Gnostici
ha posto Plotino di fronte alla necessità di precisare il suo pensiero. Nei
primi trattati infatti non aveva avuto successo il tentativo di accordare la
cosmologia del Timeo con la psicologia del Fedro: neppure nel famoso trattato
ottavo della Enneade IV, che è il sesto nell’ordine cronologico (“la discesa
dell’anima nei corpi”). Dopo una fase in cui, probabilmente per suggestione di
Numerio, ha visto nella καθόδος dell’anima l’effetto di una scelta dettata
dall’ “ansia del sensibile”, dal desiderio,
“pur librandosi in compagnia dell’anima universale… e pur partecipando
alla provvidenza dell’universo, di
reggerne, da sé sola, un frammento”, insiste sul concetto di τόλμα (l’audacia di Agostino), di una forma di
temerario orgoglio a cui necessariamente è congiunto un sentimento di colpa,
nel πρός τους Γνωστικος accusa i suoi avversari di ritenere che
l’anima abbia creato il mondo per arroganza e audacia. Come ha ben visto il
Dodds, Qui Plotino ha compiuto un passo decisivo per chiarire a se stesso, in
termini diversi che per l’innanzi, il problema del rapporto tra l’anima
individuale e l’Uno, il Bene; e nei trattati terzo e quarto dell’Enneade IV,
che concernono i “problemi dell’anima”,
e appartengono ad una fase matura del pensiero plotiniano, si legge che le anime si distaccano dall’Uno
non per arroganza, quindi non deliberatamente, e neppure per comando divino,
che sarebbe in antitesi alla concezione del Bene, ma istintivamente, per un’intima
prescrizione (προθεσμία). Si perviene
così a quella splendida pagina (12, 70) del primo trattato dell’Enneade I, che
nell’ordine cronologico è il penultimo: “Che cosa sia il vivente e cosa sia
l’uomo”: “Se la inclinazione significa irraggiamento
verso il basso, non è un errore, né più né meno che nel caso dell’ombra,
ove anzi la colpa è tutta dell’oggetto che viene illuminato; poiché, se non ci
fosse, l’anima non avrebbe dove indirizzare il suo viaggio”.
Ora, la ψυχή che rappresenta la terza ipostasi dopo l’αγαθόν e il νοΰς, ha come
sua peculiare facoltà la memoria; e la necessaria relazione di questa con
l’individualità è illustrata in un a pagina (IV 4, 2 s.) che riprende il
problema dell’interpretazione della μνήμη e della ανάμνησις in dottrine
anteriori, principalmente nella platonica: “Finchè l’anima regga in tale stato
– cioè in purezza nell’ambito dello Spirito (νοΰς) – non è soggetta ad alterazione, ma è orientata
stabilmente al pensiero (νόησις) e serba, al tempo stesso, la coscienza di sé,
poiché s’è fatta una e identica col pensiero dello Spirito (τωι νοήτωι). Ma se
l’anima esce da questo stato e non si attiene all’unità, ma spasima per una sua
propria individualità, e vogliosa di essere un altro, per così dire si sporge
fuori di sé, allora, sembra, acquista il ricordo (μνήμη) di se stessa.
Naturalmente v’è pure il ricordo delle cose superne che la trattiene ancora
dalla caduta; ma il ricordo delle
cose terrene l’attira quaggiù, mentre quello delle cose celesti la tien ferma
lassù; e, in definitiva, l’anima è e diviene proprio quello di cui si ricorda”.
Sembra qui rinnovarsi, rinvigorito dalla ricca esperienza filosofica
intercorsa, lo sforzo pitagorico e platonico di dimostrare apparente il
dissidio tra l’individuo e l’Uno (sul quale s’era invece fondato Aristotele per
negare l’immortalità personale): per Plotino, nel mondo intellegibile l’individualità
è della forma, non della materia; e ha il suo proprio posto.
In uno dei trattati più recenti (51° = I 8,2)
si legge:
“Lo Spirito ha tutte le cose ed è tutte le cose; e se ne sta con loro, quando
sta con se stesso, e ha tutto pur non avendo nulla. Poiché tra Lui e le cose
non è diversità; e neppure ciascuna
delle cose che sono in Lui ha un’esistenza separata; poiché ciascuna è
un’interezza e una totalità sotto ogni rispetto; eppure non si mescolano, alla
rinfusa, ma sono peraltro distinte”.
L’antichissima contrapposizione di oblìo e memoria – che riappare negli Oracoli Caldaici e in Proclo, negli
estratti della Filosofia Caldaica (V, p 211 des Places): “La filosofia
indica nell’oblio e nella reminiscenza
dei discorsi eterni la causa del distacco dagli dei e del ritorno ad essi” –
non risale necessariamente alla tradizione orfica, ma appartiene alla comune
tradizione escatologica: si ricordi in
proposito Plutarco (de Ei Delph. 21)
“ad Apollo fanno corteo le Muse e Mnemosyne, a Plutone l’Oblìo e il Silenzio”.
Un eco orfica-pitagorica sembra invece risuonare in Proclo, nel commento al
Timeo (17 65) (Socr.: E vi ricordate poi
tutto quello di cui vi pregai di parlare?): vi ricordate manifesta il carattere
divino della forma di conoscenza che è nei partecipanti alla conversazione.
Poiché la conoscenza separata, trascendente, unitaria, è anch’essa, “nel
Demiurgo, una memoria (μνήμη) che custodisce tutte le cose – egli l’ha in
ragione della mnemosyne che è in lui, che è la ferma consistenza della
intellezione divina… A causa di questa memoria che preesiste nel Tutto, e le
anime totali (divine) sono solidamente fissate negli Intellegibili, e i calcoli
del Demiurgo possiedono il carattere di immutabilità e immobilità…” (vol. I pp.
55 s. Festugière): ove giustamente il Festugière in “questa Mneme preesistente
nel Tutto” riconosce la Mnemosyne pocanzi citata, e richiama l’Eutidemo di
Platone, ove (274b) si invocano le Muse e Mneme, che ovviamente è Μνημοσύνη.