Giorgio Vigolo, Introduzione a Holderlin, Poesie, Einaudi, 1956

1.  Holderlin e l’idealismo

Nella Germania del secolo XVIII, e più ancora nella mistica Svevia, la nuova poesia e la moderna filosofia si incontrano. E l’incontro avviene su quel terreno ove l’esperienza religiosa personale aveva creato tutta una scuola e un metodo dell’interiorità, del ripiegamento intimo. Già Klopstock aveva immesso l’entusiasmo religioso nella Natura e il salmo nell’ode, aprendo la via al panteismo lirico di un Goethe, cui fa filosofico riscontro la non meno titanica affermazione dell’Io, dell’Ego sum qui sum nella Dottrina della Scienza di Fichte. Quasi contemporaneamente viene sorgendo l’estetica moderna; la Critica del Giudizio di Kant illumina di una luce non prima conosciuta la facoltà della creazione artistica, ove si considera raggiunta una unità superiore dell’uomo, di coscienza e di natura, di libertà e di necessità. Onde fu poi giustamente detto: “il grande filosofo pensa il grande artista: Kant costruisce il concetto della poesia di Goethe”. Per Holderlin potremo invece affermare che il filosofo pensò il poeta e si subordinò al poeta nella stessa persona.

Un rapporto intenso e fecondissimo si era venuto stabilendo, in quegli anni, fra la speculazione filosofica e l’attività poetica. Basta pensare a Hamman, a Herder, ai mirabili scritti estetici di Shiller. La filosofia, inoltrandosi sulla via dell’autocoscienza e dell’Io creatore, circuisce sempre più da vicino il pretto nucleo dell’esperienza poetica, la estrae, per così dire, dal suo guscio retorico, accademico, letterario, riconoscendo in essa un principio assoluto, in cui viene a confluire anche l’esperienza mistica e religiosa, con tutto  ciò che prima apparteneva ancora al dominio del soprannaturale, al teologico sentimento del Divino.
Ma è in Holderlin che le due correnti, poetica e filosofica, si fondono per diventare una coscienza in atto della poesia, la quale raggiunge il suo grado più alto e più intenso, il suo “eroico furore”, fino ad identificarsi con il suo destino e fare di lui un nuovo Bruno della poesia che invece del rogo ha l’Etna di Empedocle e la voragine di una lucreziana insania.
… Holderlin ha vissuto l’esperienza filosofica e metafisica come condizione dell’astratto e come “metodo”  per giungere a riconoscere l’essenziale identità dello Spirito nel fuoco poetico. Una singolare evenienza lo mette in raporto di studi e in continuo scambio di idee con Hegel e con Schelling. Esaurienti prove storiche hanno ormai dimostrato in modo indubbio che Holderlin fu l’ispiratore, il propulsore, il suscitatore entusiastico dell’Idealismo; ma di un suo autonomo Idealismo centrato sulla poesia, con un suo poetico ritmo dialettico, con una nozione del Werden, del Divenire che, come si vedrà in appresso, era per lui “la Lingua degli dei”. Egli era portatore di un nuovo messaggio della Poesia come fondazione del mondo nella parola e come diretta manifestazione dell’Essere. In questo senso si può affermare che Holderlin è stato la prima, più alta coscienza della poesia che sia rimasta integra e totale in se stessa,  senza cadere nell’estetismo dell’art pour l’art o nell’edonismo decadentistico giacchè, secondo il suo Inno, solo se il poeta ha il cuore puro e le mani monde, può ricevere il fuoco celeste della Begeinsterung (l’ispirazione, l’invasamento divino), senza esserne folgorato.
In altri termini: non si dà poesia che non sia fuoco solidale dello Spirito, convergenza di tutti i suoi raggi nel momento divino dell’io poetico, poiché il valore della poesia si conserva integro, solo quando è mantenuto il rapporto totale con lo spirito e con il vivente. Ma il fuoco, la convergenza, anzi l’Identità di questo elemento è un impensabile che solo la poesia può attuare.
E perciò la poesia si pone come un’attività assoluta che tende a superare e a potenziare verso un grado più alto la filosofia stessa, riassorbendone l’elemento noetico e speculativo nella parola del poeta.
E’ chiaro che tanto Hegel, che Schelling, per quanto attratti da questa concezione di un idealismo poetico assoluto, il cui fondamento e principio è la poesia,  non potevano accedervi senza venir meno alla loro stessa ragione d’esser filosofi.
(nda: Nella famosa Vorrede della Fenomenologia dello Spirito che Hegel compose al termine di questa sua opera, quasi per prendere difinitivo commiato dall’aura poetica dei suoi giovanili compagni di studi e di entusiasmo, e gattare un ponte verso il panlogismo della Scienza della Logica –  la parola Begeisterung ricorre non so quante volte, sempre citata con irrisione e in senso menomativo, indicante la cono scienza irrazionale, immediata ed estatica, la folgorazione ispirata e, cioè, “proprio il contrario del Concetto”. E i riferimenti pungenti a Holderlin, quando Hegel parla di “garende Begeisterung,  mi sembrano evidenti.)
Tuttavia essi sempre ne conerveranno il germe, innestando nella loro filosofia il nucleo di quella medesima intuizione; e occultando il principio poetico, più o meno mascherato in principio logico o trascendentale, ne faranno il segreto demone imprigionato, l’allievo mago che costruirà, quale schiavo della Ragione, le architetture estetiche dei loro sistemi, come veri poemi di idee filosofie della natura o fenomenologie dello spirito Poetante.
… Ma sotto le pur mirabili costruzioni di questi sistemi, il Principio poetico come tale rimarrà soffocato e diminuito;  per Hegel la poesia sarà ridotta ad ancella sensitiva del Concetto,  confinata in una condizione inferiore, in uno stao di perenne minore età.
… Per Schelling, l’arte era sì prodotto dell’Assoluto, ma in quanto ispirazione inconscia; non molto diversamente da Hegel che ne fece la mera veste sensibile dell’Idea; sensibile e, perciò,  esclusa dai consci lumi della mente. Ma se noi, con Holderlin, rovesciando questa posizione, o meglio restituendola al suo giusto rapporto, poniamo l’io poetico come conscio dell’Assoluto,  poiché nel principio originario della parola e soltanto in esso si illumina una coscienza dell’universo, abbiamo allora l’ispirazione conscia o la consapevolezza ispirata del poeta che si sa tale, che, parlando la lingua del Divenire, sull’Essere riposa.  L’identità assoluta, che per Schelling era attinta solo dalla Ragione, è invece raggiunta solo nell’apice ardente della Poesia, l’Intuizione intellettuale si pone come “vivente”, come intuizione poetica;  e la soluzione di tutte le contraddizioni sta nella Identià della Ispirazione, come ispirazione conscia e tutta presente a sé nella memoria, coscienza in atto della Poesia, autocoscienza dell’Io poetico nella parola nascente e nominante.
Si può dunque concludere senza troppa temerarietà che l’Idealismo in origine sia sorto come una Poetica, come una Fenomenologia dello Spirito Poetante. Holderlin ebbe per primo questa intuizione, la portò a una pressocché compiuta coscienza; ma, soprattutto, ne operò la più fedele attuazione nella sua poesia, quando questa non fu troppo contesa e rapita a se stessa dal volo nel mitico o non tornò ad ascondersi, a chiudersi nel Sacro, come nella sua sistole (se la diastole è invece l’apertura neò poetico). In Schelling, invece, e in Hegel, si ebbe la deviazione di quella medesima corrente in terreno filosofico,  con subordinazione della poesia al concetto. E questo capovolgimento di una Poetica del mondo in una filosofia o addirittura in un panlogismo, impronta di sé gran parte della cultura e della storia europea nel secono XIX e XX.

2. L’Identità poetica e l’Intuizione vivente.

 “Nel finale della sua elegia L’Arcipelago, H. rivolge un’invocazione al dio del mare, perché gli doni la facoltà d’intendere la “lingua degli dei”.
Orbene: che cosa è questa lingua degli dei per il nostro poeta? Egli stesso ce lo dice con la più grande chiarezza: questa lingua è il divenire.
Anzi, per esprimere l’idea corrispondente egli adopera due tipici astratti neutri: das Wechseln und das Werden , l’alternarsi e il divenire.

“O dio del mare! Risuonami spesso nell’anima,  in modo che sopra le  acque / Impavido si muova lo spirito, come a nuoto… / E la lingua degli dei, l’alternarsi e il divenire intenda”.

Si noti come questa invocazione basti già a creare con i suoi termini così caratteristici una atmosfera tipicamente holderliniana.
In essa noi abbiamo infatti gli dei, abbiamo l’evocazione dell’antica Grecia.
 Ma questo non basterebbe ancora a fare Holderlin: molti altri poeti hanno invocato la Grecia e i suoi dei. Ciò che qui importa, ciò che ci fa sentire questo passo come di Holderlin e solo di Holderlin, è che gli dei parlino come loro lingua das Werden, il divenire; poiché questo termine, usato con quel particolare valore,  dà subito anche al linguaggio un carattere che si richiama alle correnti di pensiero di quel tempo e più specificamente all’idealismo dialettico.
In un’altra invocazione agli dei che si legge nell’ode Mein Eigentum (La mia proprietà), il poeta ha un’espressione consimile, in cui anche adopera il verbo wechseln:

“Con troppa potenza, o altitudini celesti, mi tirate su nell’alto; come tempeste, nel giorno sereno io vi sento alternarvi nel mio petto, trasmutevoli forze degli dei!”

Ciò che abbiamo tradotto con “alternarvi” è anche qui il tipico verbo wechseln, che indica la ritmica del divenire, e cioè l’alterno polso dialettico con cui le forze celesti si manifestano.
Questa è anche la ritmica interna della poesia di H.,  il cui temperamento ha una costituzione profondamente dialettica, non nel senso logico, bensì poetico.

Ma questo ritmo, per cui l’immagine continuamente “diveniente”  è sempre soggetta,  dopo un breve indugio nella sua identità, al dileguare, al perire, al trapassare nell’altro,  determina anche un altro carattere fondamentale nella poesia holderliniana:  il suo accento tragico che intimamente convive in seno al lirico.

In un suo epigramma: Sophokles, H. ha scritto:
“molti tentarono invano di dire gioiosamente ciò che vi è di più gioioso; qui, finalmente, nel lutto esso si esprime.” Nel lutto: in der Trauer, nella tragicità.

L’untergehen  (il trapassare, il dileguare) è la negazione tragico-dialettica dell’individuale e del momento positivo che continuamente travalica nell’altro e defluisce nel Tutto.

Da ciò l’importanza che nella poesia holderliniana hanno i fiumi, in cui lo scorrere e il perire si determinano come la struttura del fenomeno nella sua costanza, che è costanza di un continuo dileguare, mutare, vagare dei molti per tornare all’Uno.
Si veda a questo riguardo come l’immagine e l’idea del fiume, nella ode Heidelberg si incarni in un paesaggio amato dal poeta, si arricchisca di riflessi di ogni sorta,  di evocazioni affettive, e si avrà una chiave fondamentale della poesia holderliniana. Non senza profondo motivo, l’ode si inizia con una sosta felice, contemplativa sopra il ponte di Heidekberg, sospeso sulla fuga di Neckar.  Il ponte ha per Holderlin, sempre, una misteriosa magia: qui sembra che gli dei stessi abbiano  come incatenato  il poeta a guardare lontano verso l’incantesimo dei monti raggianti dell’Odenwald.
Ma all’indugio propriamente lirico della visione segue, subito dopo, la parte tragica dell’ode, la “triste allegrezza” del giovane fiume che, invano trattenuto dall’amore delle rive, si scaglia verso la pianura per perire nei flutti del tempo.

La tragicità dell’untergehen, del trapassare, segna l’acme dell’ode: donde poi la tragicità, non più in atto, fuggente-fluida,  ma fissata plasticamente, sorge solidificata nell’apparizione del castello squarciato dalle folgori, in cui si condensa l’essenza titanica del fiume in figura di destino. Su di esso scrosciano ora gli arbusti e l’edera verdeggiante, come prima le rive e le fresche ombre seguivano il fiume con i loro sguardi amorosi. Così la tensione tragica di nuovo si distende e si placa, si spegne silenziosa in accordi lievissimi di profumi e di fiori nel ritrovato limite umano delle “straducce gaie che fra odorosi giardini dormono”.
Questo rientrare nella misura, nel limite, dopo lo struggimento del tragico agognare è il metro aureo della poesia di Holderlin.

Ma lo stesso H. ci ha lasciato nei suoi scritti di estetica una definizione del tragico che può avere la più alta importanza ai fini della nostra ricerca. Egli scrive infatti:

“ La poesia tragica è una metafora della intuizione intellettuale”

(Saggio sulla diversità della poesia epica, lirica e tragica)
Presupponiamo noto il concetto di intellektuale Auschauung e il significato che ebbe nella filosofia di Kant, di Fichte, poi di Shelling.  H. indubbiamente se ne era imbevuto nei suoi studi e più ancora ascoltando le lezioni di Fichte a Jena.  L’intuizione intellettuale era il concetto limite della conoscenza: indicava l’apprensione immediata, intuitiva, e perciò estetica, dell’universale, come la divinità può averla del mondo: “eritis sicut dii”. Era una folgorazione poetica, una intuizione assoluta in cui il muro divisorio tra filosofia e poesia veniva abbattuto.
Esso segnava anche il punto di massima tensione fra l’universale e l’individuale. Ed ecco perché il “tragico” poteva apparire a H. come una “metafora della intuizione intellettuale”.
Nel momento della più tesa opposizione tra  l’individuale e l’universale (il “tragico” è sempre questo conflitto),  avveniva anche il contatto, scoccava la scintilla illuminante tra i due poli.
E’ questa concezione fondamentale che dà alla poesia di H. il suo carattere di tragismo, intessentesi con il lirismo vero e proprio: poiché nel lirismo si può vedere l’assoluta contemplazione e immobilità quasi parmenidea della immagine che si contempla, in sé felice e compiuta (per questo un lirismo assoluto non potrebbe essere in senso stretto che la monade lirica o il frammento);  ma il dileguare, il perire di quella immagine e il suo trapassare in altra è dovuto al principio attivo che si oppone al contemplativo e, introducendovi il moto, ne determina il ritmo, che è azione e “drama” già nei suoni e nelle immagini; che è il tragico, e cioè il doloroso eppur gioioso senso della infinita trasmutazione e dell’intero processo. Onde H. potè definire das Freudigste, il gioiosissimo, ciò che è tragico, e la poesia tragica una metafora della intuizione intellettuale.
Questa gioia del tragico è anche e soprattutto il sentimento mistico, esultante dell’Intiero, della Totalità (il Ritmo) che viene ritrovata sempre attraverso il tramontare del singolo. Frohlich im Herrn!

Di questa situazione tragica lo stesso H. ci ha stillato il succo nel suo saggio Fondamento dell’Empedocle, e particolarmente in questo passo: 

“ Nel  centro sta la morte del singolo,  cioè quel momento in cui l’Organico si dispoglia della sua Egoità (Ichheit), del suo esistere che si era spinto all’estremo. E l’Inorganico (o meglio, come dice H. l’Aorgico) si spoglia della sua universalità; non, come al principio, in una fusione ideale, ma nell’altissima lotta del reale. Il particolare deve universalizzarsi nel suo estremo,  in opposizione all’estremo dell’Aorgico, e sempre più strapparsi dal suo centro. Invece l’Aorgico deve sempre più concentrarsi contro l’estremo del particolare, conquistarsi un centro e diventare quanto più possibile particolare. Allora l’Organico divenuto Aorgico sembra ritrovare se stesso, e ritornare a sé, mentre si appoggia sulla individualità dell’Aorgico: e l’Oggetto, l’Aorgico, sembra ritrovare se stesso, mentre nello stesso momento che assume l’individualità, trova anche l’Organico nel più alto estremo dell’Aorgico. Così, in questo momento,  in questa nascita della più alta inimicizia, sembra che sia effettivamente la più alta conciliazione. L’individualità di questo momento è solo il prodotto della lotta suprema.”

Nel piano che H. aveva steso a Francoforte per la sua tragedia,  Empedocle è definito “un nemico mortale di ogni esistenza unilaterale”. Egli soffre di condizioni di vita anche belle, perché sono individuali, mentre aspira a un “grande accordo con tutto ciò che è vivente”. Perciò matura la sue decisione di unirsi alla natura infinita con una morte volontaria: e si getta nelle fiamme dell’Etna. Il suo allievo prediletto, Pausania, trova subito dopo i sandali di bronzo del suo maestro “che il rigurgito di fuoco aveva scagliato nell’abbisso”.
Nel più tardo svolgersi della sua vita poetica, quando H. vedrà riapparire Cristo al convito degli Dei, la sua tragicità si solleverà  a una concezione ancora più alta,  al nucleo stesso della filosofia criastiano-romantica, ponendo al luogo della morte del singolo, la morte di Dio. Ciò che è principalmente il tema centrale del grande inno Patmos.

Allora si spense il giorno del Sole,
Il regale; e fece in pezzi,
Da sé, lo scettro dai raggi diritti
Soffrendo come Dio.

Circa la nozione dell’Aorgico, aggiungeremo che in esso sembra risiedere l’elemento degli dei, e che anzi gli dei sono la Egoità, la Ichheit che l’Aorgico cerca di darsi appoggiandosi sull’Organico. Il grande conflitto tragico di universale e  singolo, riportato nella elementarità ontica, starebbe dunque fra le due egoità dell’Organico e dell’Aorgico che s’incrociano cercando di aspirarsi a vicenda, di scambiarsi l’uno con l’altro. Gli dei hanno bisogno di uomini per sentire (candaulismo degli dei), gli uomini degli dei per durare – poiché la personalità intima dell’uomo manca della forza, della consistenza,  della universalità dell’Aorgico. Di qui la “lotta suprema” che  si compie poi, quasi cosmicamente, attraverso la persona di Empedocle e il suo olocausto nell’elemento dell’Etna:

                 grandiosamente si aprono
Qui innanzi a noi i sacri Elementi.
Gl’impassibili fervono sempre uguali
Nella loro forza gioiosamente qui intorno a noi.
Alle sue ferme sponde riposa e dorme
L’antico mare e la montagna sorge
Col suono dei suoi fiumi;  ondeggia e scroscia
La sua verde foresta da valle a valle giù,
E in alto s’indugia la luce, l’Etere calma
Lo spirito e il più segreto struggimento…

Nella sua stretta contiguità con la filosofia idealistica, la posiziome di H. rimane peraltro indipendente e singolare: poiché egli tiene fermo alla preminenza della poesia. Anche se non è  arrivato a un perfetto circolo sistematico, a una catena chiusa di deduzioni teoriche – la sua tesi  resta tipica di una concezione del mondo in cui alla poesia è attribuita la più alta funzione che mai filosofo le abbia riconosciuto, senza cadere nell’estetismo. Questo è il punto. I massimi valori dello spirito sono stati attribuiti al “poetico”, conservando però i rapporti, le relazioni e le integrazioni col mondo, con la natura, con la vita sociale,  con la religione, con la filosofia – di più ancora, con l’Essere.

In ciò la posizione  di Holderlin differisce in modo caratteristico, da quella dei suoi contemporanei  più vicini,  da Fichte a Schelling, a Hegel: e insieme non differisce, poiché quella fluidità dialettica che fu la più alta mira di Hegel sul piano logico, H. l’aveva presagita, annunziata, attuata come ritmo poetico.

Si osservi un altro fatto: Hegel in una sua lettera dice di H. che il giovane poeta frequenta le lezioni di Fichte a Jena, e che, nel suo entusiasmo, lo definisce “un titano che lotta per l’umanità”. Ebbene quest’ammirazione non impedisce a H. di respingere decisamente il disvalore della natura,  che Fichte considera come Non-Io.  Ciò denota che la personalità di H. nonostante ogni sua apparente cedevolezza (egli stesso parlò di una sua tenera ricettività come di cera), restava ben ferma alle sue iniziazioni fondamentali, per cui il sentimento della natura, quasi confluente con l’essere della poesia o con la poesia dell’essere – occupava una delle chiavi di volta della sua intera concezione.
Da questa fondamentale intuizione della natura e della poesia  H. non si è mai discostato. Di qui la grande differenza che lo separa da Hegel.  Per Hegel il rapporto, l’unità anzi dello spirito con la natura era stato un accordo, per quanto stupendo, ma avvenuto solo nel mondo greco degli dèi; apparteneva perciò a un periodo storico sorpassato. Dopo i Greci, la natura aveva perduto l’incanto che derivava dalla sua unione con lo spirito poetico dell’ umanità,  e ora “giaceva tra l’uomo e la sua coscienza come una cadavere sconsacrato”. L’uomo, per Hegel, ritroverà la sua unità solo logicamente nel concetto.
A questo concetto H. contrapponeva il Ritmo poetico,  superiore alla ragione, in cui peraltro la ragione stessa era articolata nella alterna musica delle facoltà.
Per H. l’unità dell’uomo doveva celebrarsi con la natura, che dell’uomo è tanta parte,  è tutta la parte inconscia, istintiva, sensibile,  comunicante con l’anima (Seele).
La natura conciliata nell’unità voleva dire anche rapporto con le forze cosmiche e poteva avere a suo organo solo la poesia, poiché solo nella poesia H.  vedeva attuarsi la conciliazione degli elementi, e ritrovava con ciò “l’essere nell’unico senso della parola, la pace di tutte le paci”.

Se per Hegel “il reale è razionale”,  per H. invece il reale è poetico, e solo dalla poesia riceve il suo essere, poiché la via verso l’essere e dall’essere decorre solo dalla poesia.
Chi dei due aveva colto nel vero? Dov’era la soluzione, nella logica o nella poesia? Oggi che molte derivazioni della concezione logica sono giunte all’estremo, noi cominciamo a guardare a H., come al poeta dell’altra via che pone la poesia a fondamento del mondo, della vita, della realtà stessa – e dove Hegel aveva nel suo mondo logico presagito la  fatale “morte dell’arte”, noi vediamo che sulla scia splendente della meteora holderliniana tutto un nuovo interesse sta risorgendo per qualche cosa che possa rianimare quel morente mondo dell’arte e della vita stessa.

In uno dei suoi ultimi e più illuminanti scritti, le “Osservazioni sull’Antigone” (6.2),  il poeta giunge a porre ben chiaramente l’istanza di una “logica Poetica”, da contrapporre alla logica concettuale: e tale “logica poetica” per H.  non è che il Ritmo, inteso come rapporto di tutte le facoltà spirituali che, perciò raggiungono solo nella poesia l’accordo intiero della loro unità. Egli dice esplicitamente:

“La successione della rappresentazione, del sentimento e del ragionamento si sviluppa secondo una logia poetica (nach poeticscher Logik). Mentre la filosofia si vale sempre di una facoltà dell’anima,  in modo che la rappresentazione di quest’unica facoltà viene denominata Logica, la poesia invece si vale delle diverse facoltà dell’uomo, in modo da formare un tutto con la rappresentazione di queste diverse facoltà. Il nesso delle parti indipendenti delle diverse facoltà può essere denominato Ritmo nel più alto senso.”

Si noti che tra le “diverse facoltà dell’anima” deve intendersi incluso anche il principio attivo, dinamico, tragico che incalza la immobile contemplazione nel trapasso e nel fluire delle immagini e dei suoni (lingua). La logica figura di H. dunque è il ritmo ontologicamente inteso: e la Poesia non è singola facoltà, scissa dalle altre, come la filosofia, ma è l’armonia di tutte le altre, il ritmo dello spirito nell’alternarsi  e vario fluire di tutte le sue facoltà, compresa l’attiva. Idea che, del resto, H. aveva già espresso nel celebre Discorso di Iperione, sul rapporto della filosofia con la poesia, che rimane il rapporto fondamentale ed esistenziale del suo temperamento. Lì egli aveva affermato, richiamandosi al detto di Eraclito: l’Uno in sé diverso:

L’Uno in sé diverso è l’essenza della bellezza, e prima che fosse stato trovato non esisteva alcuna filosofia (…) La poesia è il principio e la fine di questa scienza. Come Minerva dal capo di Giove, essa balza dalla poesia di un infinito divino essere. E così alla fine torna a confluire in essa ciò che non si è potuto unificare nella misteriosa sorgente della poesia.

In questo passo, due punti fondamentali sono da notare:

 1) la sussunzione della filosofia nella sfera della poesia;  2) l’affermazione dell’essere a fondamento della poesia.

La poesia, riunendo ciò che è diviso nell’effimero è l’unica via che ci riconduce all’essere, da cui procede immediatamente.

H. parla anzi della poesia di un infinito, divino essere: quasi “scintilla della sinderesi”.
Questa concezione appare anche nell’Abbozzo di prefazione all’Iperione  che Karl Vietor pubblicò nel 1920 (ora è di solito annesso alle edizioni dell’Iperione).

“La beata unità, l’essere nell’unico senso della parola, è per noi perduto.  E abbiamo dovuto perderlo per poi agognare a riconquistarlo. Noi ci siamo strappati via dal quieto en kai pan per ricostruirlo con noi stessi.  Siamo venuti in dissidio con la natura, e ciò che una volta, come è da credere, era Uno, recalcitra ora, e alterna signoria e servitù da ambo le parti. Spesso è per noi come se il mondo fosse tutto e noi nulla, spesso però anche come se noi fossimo tutto e il mondo nulla. Anche Iperione era scisso fra questi due estremi.
Porre fine all’eterno conflitto tra noi stessi e il mondo, riconquistare la pace di tutte le paci – che è più alta di ogni ragione – unirci con la natura a un Tutto infinito, questo è lo scopo di ogni nostro tendere, si possa o non si possa intenderci su ciò.
Ma né il nostro sapere, né il nostro agire in alcun momento dell’esistenza giungono mai là, dove cessa ogni cotrasto, dove Tutto è Uno; la linea detrminata si unisce alla linea indeterminata solo con una approssimazione infinita. Non avremmo nemmeno un presentimento di quella infinita pace, di quell’essere nell’unico senso della parola, non tenderemmo affatto a unire la natura con noi, non penseremmo, non agiremmo, nulla affatto esisterebbe, anzi penseremmo il nulla, se per mezzo di quella infinita unificazione, quell’essere nell’unico senso della parola non esistesse”.

La poesia diviene con ciò, per H. fondatrice della realtà, dell’esistente, “Ma ciò che permane, lo fondano i poeti”. 

Come organo della perenne conciliazione e unificazione, essa adduce l’essere all’esistente, riconduce l’esistente all’essere e risolve l’infinita tragicità del mondo nella “pace di tutte le paci”.
E con ciò il presente punto della questione, fondamentale per la interpretazione di H. è appena sfiorato. Valgano solo questi accenni a indicare come in lui  la coscienza della poesia abbia raggiunto quasi un apice della mente,  ponendo al tempo stesso un rapporto nuovo e originalissimo con le altre facoltà, con l’agire, col pensiero e con la natura, che in se stessi restano divisi e solo nella poesia trovano la loro fluenza totale: il Ritmo.
La stessa concezione H. porta poi nell’interno della poetica,  come si vede da questo suo frammento:

“Il poeta tragico fa bene a studiare il lirico, il lirico l’epico, l’epico il tragico; poiché nel tragico sta la perfezione dell’epico, nel lirico la perfezione del tragico,  nell’epico la perfezione del lirico.  Sebbene poi la perfezione di ognuno sia  una commista espressione di tutti, peraltro solo uno dei tre lati è in ciascuno ciò che più spicca,  ed è messo in esponente”.

Anche qui, l’uno nel diverso, e quasi una “circolarità”  dei momenti estetici.
Ma la particolare considerazione che “il lirico sia la perfezione del tragico” può avere uno speciale interesse, nello studio della poesia propriamente lirica di H., poiché nel ritmo poetico che abbiamo accennato il perire, il dileguare è di continuo presente come un accento tragico che però si sublima in una sorta di esaltazione, di Begeisterung, che è la mistica risoluzione del Tutto.
Dove il singolo momento perisce, si ritrova il sentimento dell’intiero processo, della totalità.
C’è ancora da riflettere come, una volta inclusa la filosofia nell’orizzonte della poesia (cfr. il già citato Discorso di Iperione) – facendo di quella quasi un organo di questa, un momento del metodo necessario alla poesia,  – astratto e poetico divengano in H. due estremi attraverso i quali si determinano le varie tensioni della sua esperienza. 
Allo stesso modo la filosofia diviene per lui una palestra mentale in cui lo spirito si addestra ed appronta le strutture (sintattiche e categoriali) che passeranno poi allo stato di suono nella lingua – in cui il “poetico” dovrà essere assunto.
La filosofia è stata anche per H. , come egli riconosce nelle lettere, un regime di idee, un digiuno dal sensibile appassionato, una specie di nuchternes Wasser, di acqua sobria o “aorgica” – egli avrebbe detto – che abitua l’anima e la mente a riordinarsi interiormente, quando troppo la sconvolgerebbero o l’hanno sconvolta il fuoco celeste, la Begeisterung e la sacra ebrietà.
Così  l’astratto è un monento necessario nel processo della creazione holderliniana: è una sorta di anacrusi, di tempo in levare, prima della battuta poetica vera e propria, in cui l’astratto si corporeizza in suono-parola.  L’astratto è l’elemento arido e tralucente dell’aorgico che cerca una personalità nell’organico, come l’organico la cerca nell’aorgico, negli elementi, negli dei.

Cogliere questo ritmo che anima e dà senso alla successione dei momenti in una composizione lirica – significa uscire dalla notazione critica della singola immagine o del singolo frammento per abbracciare l’intera figura, la forma, il vivente del poema e rendersi conto della sua unità e misteriosamente intessuta totalità.

Questo vale per ogni poeta; ma per H. acquista una specifica attinenza, non già, ci si intenda bene,  perché nella sua poesia domini un gusto schematico  di antitesi e di sintesi, bensì per una intima tensione e fluidità di rapporti tonali così giusti, che solo da essi egli può di volta in volta modulare e risolvere in quei “pianissimi” di straordinaria leggerezza e discrezione nei quali è impareggiabile. Si pensi alle “solitarie straducce che tra odorosi giardini dormono”, con cui si spegne l’ode Heildegerg.
Lo stesso Goethe, che pure fu così avaro di riconoscimenti per H.  dette però un giudizio critico da grande intenditore, quando scrisse a Shiller su due poesie mandategli a vedere: “ambedue le poesie esprimono un dolce agognare che si risolve in moderazione”.  Vedremo ora come quella che Goethe aveva chiamato Genugsamkeit, quasi sobrietà, fosse uno dei motivi maggiori della poetica di H. , quello appunto del Mass, della misura, il gusto della Leichtigkeit e della Stille, della levità e del silenzio; e come poi tutto si equilibrasse in quella“armonica composizione” in cui H. coglieva il fiore del sentimento dialettico, ponendo l’istanza del “momento divino” come rappresentazione dell’infinito, intuizione vivente e “identità della Begeisterung”.

Nel già citato fondamento teoretico, che intendeva mandare innanzi alla sua tragedia di Empedocle,  (Grund zum Empedokles), H. ci dà insieme una esposizione delle qualità, inclinazioni e doni che fanno la natura del poeta, come egli la concepisce. Egli infatti presenta Empedocle

“nato in tutto per essere il poeta”.

Ora, in che cosa H. vede particolarmente questa predisposizione?
In una – egli dice,

“non comune tendenza alla Allgemeinheit (universalità, comunità), la quale, grazie a una perspicacia che sappia evitare una sua influenza troppo forte, diviene quella tranquilla contemplazione, quella plenitudine della coscienza, con cui il poeta considera un tutto. Così pure la sua natura oggettiva, la sua passività sembrano possedere quei doni felici che, senza alcun deliberato  o preconcetto disegno di ordine, di pensieri, di forma,  inclinano all’ordine, al pensiero, alla forma; quella Bildsamkeit (quella plasticità, quella souplesse) dei sensi e dell’animo, che con facilità e prontezza si sa appropriare vitalmente di tutto nella sua Ganzheit, nella sua totalità”.

In questo passo rilevo, anzitutto, il valore attribuito, nel temperamento poetico, alla non comune tendenza alla universalità; e poi il modo con cui questa tendenza, che deve esercitarsi senza eccessi,  viene fatta ingranare con le altre facoltà, in modo da non nuocere loro, perché il poeta in un accordo completo dell’anima, possa giungere alla placida contemplazione della totalità.
H., qui come altrove, considera una presenza di “delicati rapporti” per cui, solo, il poeta può equilibrare i suoi doni, giungendo a una coscienza librata, piena, perfetta, che adegui nel sentimento poetico il molteplice fluire e intessersi di relazioni nella vita stessa.  Questi delicati rapporti formano sfere singole che sono i vari dei:  e una connessione totale che è l’Uno-Tutto divino. Nella sua più alta vita spirituale l’uomo si solleva a codeste sfere superiori di rapporti e il fondamento del suo hoheres Leben risiede nella possibilità che ha lo spirito di riflettere e ripetere la vita reale nell’opera poetica. Questa è propriamente la Wiederholung holderliniana, che presenta qualche affinità con la Ripetizione (Gjentagense) di Kierkegaard.
Sempre nello stesso ordine di idee è, negli aforismi di estetica, quanto H. afferma sulla misura, sul tono, sulla levità, sulla dolcezza e interiorità che sono elementi così integranti della sua poetica:

“In genere il poeta deve abituarsi a non voler raggiungere l’intero (das Ganze) nei singoli momenti e a sopportare le momentanee imperfezioni;  il suo piacere deve consistere nel superarsi, da un momento ad un altro momento, secondo la misura e il modo che la cosa esige, sinché alla fine il tono dominante (der Hauptton) guadagni il suo intero.  Egli anzi non deve pensare che solo nel “crescendo” (in italiano nel testo) dal più debole al forte, possa avvantaggiarsi,  poiché così anzi riuscirebbe falso ed esagerato; ma deve sentire che guadagna in levità quel che perde in importanza. La Stille (il silenzio, la calma) sostituisce bene la veemenza; e la pensosità, l’intima profondità contemplativa sostituisce bene lo slancio dell’enfasi. Così non darà nello sviluppo della sua opera un tono necessario,  il quale in certo qual modo non si avvantaggi sul precedente, e il tono dominante consisterà solo in questo che l’intero (das Ganze) è composto in quel certo modo e non in un altro”.

Superfluo sottolineare il valore della Levità (Leichtigkeit), qui affermata come gusto delle soluzioni tenui, smorzate, e così anche della Stille; elementi in cui al poesia holderliniana dà quasi sempre il suo meglio. Il tono non è  che il risultato della fluida unità compositiva ed è dato quasi esclusivamente da un intimo sentimento equilibrante dell’intiero, che non si preordina, che nasce via via dal rapporto dei singoli toni.  Così dirà nel successivo aforisma:

“ La più vera verità è quella in cui anche l’errore diventa verità, perché essa nell’intiero del suo sistema lo colloca a tempo e luogo. Questa è la luce che illumina se stessa e anche la notte. Così pure la più alta poesia è quella in cui anche l’impoetico diviene poetico,  perché è detto a giusto tempo, e al giusto luogo nell’intiero dell’opera d’arte. Ma a ciò è necessarissimo un concetto veloce. Si ha l’eterna serenità, si ha la gioia del dio, quando si pone il singolo al posto che gli spetta nell’intiero. Perciò senza intelletto,  e senza un sentimento che via via si venga facendo organico – nessuna perfezione, nessuna vita”.

I “delicati rapporti” in cui H. ravvisa il più fluido configurarsi dell’elemento vitale della poesia stessa, sono quelli in cui egli dice nel suo Saggio sulla religione, che essi non possono essere meramente pensati.
Il pensiero non li esaurisce, non va infondo a quella connessione infinita della vita. Perciò Antigone può parlare di “divine leggi non scritte”, osserva Holderlin.  Ora queste leggi si riferiscono appunto a quel totale e implicatissimo Zusammenhang der Lebens (connessione della vita), il quale peraltro non può essere mai pensato astrattamente, ma solo sentito, intuito e indotto col ritmo in un delicatissimo tessuto di suono e di significato.
Quella più alta connessione non può essere ripetuta nel mero pensiero.

“Noi ci siamo fatti dei più sottili, infiniti rapporti della vita una arrogante morale, e crediamo con i  nostri ferrei concetti di essere più illuminati degli antichi i quali consideravano quei delicati rapporti come religiosi, cioè come rapporti tali che non possono essere considerati solo in sé e per sé,  ma come procedenti dallo spirito, il quale domina nella sfera dove codesti rapporti hanno luogo”

E ancora nei citati Aforismi:

“Con gioia tu devi intendere in genere il puro, gli uomini e le altre creature, abbracciare tutto l’essenziale e il significativo, conoscere tutti i rapporti nella loro reciprocanza; e ripetere a te stesso le loro parti costitutive nella loro connessione fino a che nuovamente la Lebendige Anschaunng, la intuizione vivente scaturisca dal pensiero, con gioia, prima che intervenga lo sforzo, la necessità (die Noth). L’intelletto che sorge dallo sforzo è sempre unilateralmente obliquo”.

Ecco dunque la Lebendige Anschauung prendere il luogo della Intellektuale Anschauung, della intuizione intellettuale che H. vedeva metaforizzata nella poesia tragica,  nella poesia della lacerante contrapposizione.
Mentre, il più alto piano di poesia in cui si torna a intessere la totale e implicatissima connessione della vita e dei suoi delicati rapporti è la “intuizione vivente” – cui corrisponde per Holderlin la sintesi poetico dialettica di “armonica contrapposizione” ed anzi, quel supremo equilibrio di classico e di romantico, di finito e di infinito, di singolo e di universale che egli chiamerà “l’identità della Begeisterung”.

“E’ anche necessario che lo spirito poetico nella sua unificazione e nel suo armonioso processo si dia una infinita mira nella sua opera,  una unità donde tutto derivi e dove tutto ritorni in un armonico processo e scambio (Wechsel): e col suo continuo riferirsi a questa unità, conquisti una connessione, non puramente obiettiva per il filosofo, ma una connessione e una identità sentita e sensibile nell’alternarsi degli opposti. Il suo più alto compito è avere, nell’armonico alternarsi, un filo e una memoria, perché lo spirito rimanga continuo e presente a se stesso nelle diverse tonalità, come esso è continuamente presente a se stesso nella unità infinita, che prima è il punto divisorio dell’Uno con l’Uno, ma poi  è anche punto di unione dell’Uno come opposto.
Infine esso è simultaneamente l’uno e l’altro, cosicché in esso ciò che è armonicamente opposto è sentito come inseparabile, non come opposizione dell’Uno, né come l’Uno opposto, ma come ambedue in uno: e ciò si rivela come un che di sentito. Questo sentimento (Sinn) è propriamente il carattere del poetico, né genio, né arte, ma poetica individualità. Solo in questo si ha la identità dell’entusiasmo (die Identitat der Begeisterung) e la Vollendung, la compiuta perfezione del genio e dell’arte, la viva rappresentazione dell’infinito, il momento divino”.

In questo passo H. ha compiuto forse il suo più audace tentativo di  “pensare il poetico”, di dedurre speculativamente il processo della poesia.  Vi si sente la lotta quasi disperata, ma infine vittoriosa dello Spirito Poetico per non perdere la sua identità nel processo dialettico e filosofico, per non naufragare, come egli dice, nella “vuota infinità”. Egli si avvale qui dello stesso metodo di Fichte nella Dottrina della Scienza, aspira a fondare una Dottrina della Poesia, per giungere a una vera e propria “deduzione del Sentimento” come organo poetico, allo stesso modo che nell’opera fichitiana si ha la celebre deduzione della Rappresentazione.
Dedotto il Sentimento come Armonica contrapposizione inscindibile (che “si rivela come un che di sentito”), H. vede in esso il carattere specifico di ciò che è poetico; “nè genio, né arte, ma poetica individualità”. E con ciò intende evidentemente che l’unicum della Poesia si differenzia sia dal Genio artistico in generale della Kantiana Critica del Giudizio, sia dall’Arte dell’Estetica Schellinghiana per concentrarsi nella “individualità poetica”. L’Io Poetico (das poetische Ich) prende il posto dell’Io fichtiano come principio e fondamento della holderliniana Dottrina della Poesia;  e solo in esso il poeta vede attuabili le due mire maggiori della filosofia e della estetica del suo tempo: l’identità assoluta e l’intuizione iltellettuale (che, assunta poeticamente, diviene “intuizione vivente”).

E’ questo che egli propriamente chiama: die Identitat der Begeinsterung.
Nella Begeinsterung trova infine la sua soluzione quella che altrimenti sarebbe la più grave aporia della Poetica holderliniana, dove noi incontriamo da un lato “la poesia di un infinito divino essere” e dall’altro l’Individualità poetica e l’Io poetico. Ora la mediazione di questi due termini si ha nella Beisterung, in quanto l’ispirazione entusiastica è insieme una emanazione della poesia cosmica nell’Io del poeta e una unione mistica dell’Io del poeta col Tutto, la quale infine si ipostatizza nella figura di Cristo, conciliatore cosmico, mediator dei.

3. La pace della foresta.

L’accento tragico del trapasso, dell’untergehen, per cui il momento si nega, non si immobilizza mai  nell’affermato, ma dilegua in altro e l’esistenza non è che un fuggire di suoni in un canto, domina in queste parole di Empedocle:

“Io sono quello che sono, Pausania,
e il mio permanere non è sugli anni
un bagliore soltanto che subito dilegua
Una nota nella musica di una cetra…”

Questo elemento tragico è prima di tutto nella esperienza vissuta di H, che ha definito se stesso: ein scheidender (un dipartente, uno che si accomiata). In ogni suo rapporto umano c’è la nota che dilegua, c’è il fato dell’addio, dell’Abschied. Così Empedocle sente che deve separarsi dal discepolo prediletto, Pausania:

“Chiama
Il Dio, e questo è troppo fedele io debbo
Anche lasciare libero, la mia strada non è la sua”.

Tale necessità del commiato, che ha poi radici nella sensibilità, nella psiche di H., sembra quasi voluta dal poeta stesso: e la rappresentazione più dolorosa di tale “volontà di commiato” si legge nell’Hyperion, quando il protagonista, dopo la catastrofe della tentata liberazione della Grecia, strappa via dal suo cuore l’amore per Diotima e le scrive la lettera d’addio (penultima del libro I della parte II). Qui mi è sempre sembrato di scorgere una delle punte titaniche dell’anima di H., una Hibrys del sentimento tragico come lacerazione dell’amore. Qui Hyperion-Holderlin mi appare come un Achille che, distaccando da sé volontariamente la persona amata (perché sente la austera necessità del suo fato tragico), quasi desideri affrettare l’accesso dell’ira e del più profondo spasimo.

“Il dolore genuino entusiasma”

ecco cosa scrive a Diotima nella lettera d’addio. E poi, ancora:

“Chi passa sulla sua disperazione, sta più in alto.  Ed è stupendo come noi solo nel dolore dell’anima sentiamo libertà. Libertà! Chi intende questa parola? E’ una parola profonda, Diotima…”.

Anche in questo punto noi ritroviamo quel senso del Freudigste, del “gioiosissimo” che si  cela come tragico entusiasmo nella radice del lutto.
E qui l’idea del “gioiosissimo” si integra con quella di libertà: il tragico, infatti, risolve la posizione individuale e lo stesso individuo, libera il finito nell’infinito; e ciò beatifica l’anima nella Begeinsterung, nell’entusiastico sentimento dell’intiero e del processo totale, per cui ciò che si perde nel momento, si ritrova nell’universale e nella più alta vita dello spirito. Onde il poeta dirà:

“Noi ci separiamo, solo per essere più intimamente uniti. Moriamo per vivere”.

Si veda, infatti, come poi nel finale dell’Hyperion, Diotima,  morta di dolore dopo l’abbandono, ritorna misteriosamente santificata,  assunta nel Tutto, con la voce che chiama dall’intimo di una natura spirituale.

“Una volta sedevo lontano nei campi, vicino a una sorgente, nell’ombra di rocce verdi d’edera… Dolci brezze spiravano, nel fresco mattino il paese ancora splendente e la luce sorrideva nell’etere che è la sua patria. Un indicibile struggimento era in me. “Diotima – chiamai – dove sei?” E allora mi parve di udire la voce di Diotima la voce che una volta mi rasserenava nei giorni della gioia, che mi diceva: “Io sto presso i miei, presso i tuoi,  che lo sviato spirito umano misconosce”.

Sembra che, per lo stesso ritmo che si attua nella sua vita,  Holderlin non possa restare appagato e immerso nella identità della singola immagine. Anche l’immagine è per lui un individuale, un particolare; e la passione metafisica dell’Uno-Tutto lo incalza, lo snida di volta in volta dal riposo, dalla Ruhe della singola immagine, verso quello che egli ha definito “l’Essere nell’unico senso della parola”, dove è “la pace di tutte le paci”.

Questo anelito verso l’assoluto Essere gli impedisce di prolungare l’indugio nella immagine singola che muore a se stessa per far luogo alla incalzante vita del discorso.

In tale perpetuo fluire eracliteo, l’apparenza è uno Schimmer, un baglore. Questo, nell’accento negativo, nella considerazione dell’apparire rispetto al dileguare, propriamente tragica. Invece nella considerazione positiva (propriamente lirica) dell’apparire come momento contemplativo, anziché attivo, l’immagine liricamente contemplata è un indugiare,  uno zogern (esitare) sul particolare, in quanto vi si riflette momentaneamente il Tutto, e il rapporto fra la singola determinatezza della immagine e l’indeterminata infinità spirituale che le si contrappone – stabilisce la tensione polare, per la quale unicamente l’immagine singola ha valore, arde e splende,  si consuma nel momento.

(cioè la singola immagine ha valore in quanto espressione della tensione tra il particolare che è e il Tutto cui tende)

Questo indugio sul particolare, , questa “sosta sul ponte di Heidelberg”, come riposo dalla sempre infinita fuga nel Tutto, produce un calmo sentimento di felicità (che si contrappone al “gioiosissimo” del  sentimento tragico); e ad esso corrisponde nella poetica di H. la nozione della Misura (das Mass), del freno d’oro; e, in genere, della sobrietà giunonica contrapposta alla esaltazione dionisiaca. E’ il momento che i cigni ebbri tuffano il capo nell’acqua santamente sobria.
Anche per questo momento dell’indugio oblioso nel fenomeno, dello zogern, può essere utile richiamarci oltre che all’ode Heidelberg, già citata, al seguente passo dell’Hyperion, che è anch’esso una sosta sul ponte:

“– In ciò, – esclamai, – io la riconosco, l’anima della natura, in questo indugiare nella sua corsa poderosa.
– Ed è così caro all’uomo felice questo indugiare, – soggiunse Diotima, – lo sai? Noi stavamo una volta di sera insieme sul ponte, dopo un violento temporale, e la rossa cascata cadeva dal monte, come una freccia, verso di noi. Ma lì accanto verdeggiava in pace la foresta e le chiare foglie dei faggi si muovevano appena… Ci faceva così bene che quel verde, pieno di anima, non fuggisse anch’esso via da noi come il torrente e che la bella primavera così tranquilla stesse ferma per noi come un uccello mansueto”.

E si noti qui come il ritmo tragico dell’apparenza diventa quasi una Farbenlehre (teoria dei colori), nella complementarità dei colori di quel rosso e di quel verde. Il rosso è il violento scorrere della vita, è quasi la corrente stessa del tumultuoso sangue; il verde è lo zogern, l’indugio calmo della pace vegetale.
Simile è un passo della lettera al fratello del 2 Giugnio 1796:

“Spesso invero desideriamo di trapassare da questa condizione intermedia fra vita e morte nell’Essere infinito… Ma se tutto va per la sua strada inflessiblie, perché dovremmo noi affrettarci a precipitare prima del tempo, dove pure dobbiamo giungere? Il sole non ci deve far sentire vergogna. Esso va su buoni e cattivi! Così sia dato anche a noi rimanere un poco, indugiare fra gli uomini e i loro fatti, pur nella nostra propria barriea (??? – forse pur nel nostro limite…) e debolezza.”

La stessa idea dell’indugio nella corsa violenta si può vedere nell’ode Stimme des Volks (Voce del popolo) riflessa nella vita dei popoli;  dei quali alcuni, di essenza più tragica, rapidamente tramontano, altri sono risparmiati dagli dei che li amano e perciò inceppano quasi la loro strada, vi frappongono ostacoli, perché non corrano troppo presto alla loro fine.

(frapporre ostacoli alla vita affinchè non corra troppo presto verso la fine)

Per questo, all’inizio dell’ode, la voce del popolo suona come i fiumi. Il lettore, tenendo presente l’intima ritmica fenomenologica di H., intenderà come ambedue, la vita di un popolo e quella di un fiume, siano sentite quali un fluire e poi un dileguare: e come sul ritmo di questo fluire il poeta appunto scandisca il suo poema, sull’arsi del veloce fuggire che è un untergehen, uno schwinden (tramontare, sparire) – e poi sulla tesi dell’indugio, in cui il fenomeno resiste “alla meravigliosa tensione verso l’abisso”, che trascina così i fiumi a tornare sulla nuvola, come i popoli alla voluttà della morte. Cioè: il ritmo ontico è il fondamento dello stesso ritmo poetico.
L’equilibrio di questo ritmo, il giusto indugio nella fuga, il festina lente è appunto il “volo dell’aquila”, che va per la sua strada lanciata nell’aria, librata sul vuoto, indugiando nella fuga: In Eile zogernd. Questo è considerato, nella penultima strofa di Stimme des Volks, come l’ideale del ritmo poetico vitale; ed  è la ritmica soluzione della dialettica holderliniana in un cursus dove, in realtà, armoniosamente conciliati sono il momento della contemplazione e dell’azione, oltre che lo slancio romantico con la fermezza classica.

4. La fenomenologia dello spirito poetante.


Fare dell’Uno-Tutto la ragione insieme formale e sostanziale della composizione poetica, l’unità della sua forma e del suo spirito plasmatore, è il principio cui H. costantemente si ispira.
Se ne può vedere un’attuazione nella elegia L’Arcipelago, dove il poeta ha raggiunto forse il suo più compiuto ed  ampio arco costruttivo, esprimendo e intessendo la vita dei Greci in una sfera totale di rapporti.
La natura dei luoghi e le genti, il paesaggio e la storia, le creazioni dell’arte, la religione, lo stato, tutto vi consuona in una connessione totale.
Perciò esso in alcuni momenti è poesia epica, in altri poesia gnomica, in altri estaticamente lirica o dolorosamente elegiaca e perfino profezia,  apocalissi, palingenesi sociale, in quanto l’armonia della Grecia, prima apparsa in uno stato di felice ma inconscia naturalità, e poi dileguata col fuggire degli dei nel presente stato di privazione, dovrà riapparire in una condizione futura dell’umanità, insieme con la coscienza, con l’armonioso e libero ordinarsi degli uomini, socialmente redenti.

(che era esattamente il proposito di Nietzsche)

La concertazione unitaria di questi motivi investe quindi non solo la sfera dei rapporti della Grecia, ma di un intero sistema della vita e del mondo, anche nelle sue epoche.
Il passato, il presente ed il futuro vengono assunti in una grande sintesi  e articolati in essa come i tre momenti di una triade dialettica, in cui il primo è negato dal secondo, ma ritorna potenziato nel terzo.
Questa poesia tende a far cadere ogni carattere soggettivo per attingere con la mediazione della Begeinsterung a qualcosa di fondamentale e di ontico da cui la stessa poesia promana. L’ “esaltazione” parrebbe quasi l’azione irradiante di una Sostanza poetica che è nell’essere stesso.  Perciò qui la gesta di Salamina non è narrata dal poeta, ma è essa stessa un poema poetato dagli elementi,  dalle forze cosmiche e storiche che vi si intrecciano: e tutto vi i configura come una vera e propria Fenomenologia dello Spirito Poetante, intendendo qui per Spirito (Geist) lo spirito profondo e magari anche lo Spirito Santo della Dichtung originaria da cui erompe impersonalmente la “lingua degli dei”, il Divenire e la Storia.
Quando Serse, ormai sopraffato dagli eventi, è preso dallo sgomento e dal terrore, H. dirà di lui che rotea lo sguardo “nel sogno di vertigine cantato dal canto del Giorno”. E’ una espressione che può sembrare oscura, ma che si chiarisce se si pensa che il Tag (giorno), con un processo abbastanza comune in Holderlin, è stato da lui ipostatizzato in una entità poetica che è in sé soggetto di poesia, soggetto poetante della Dichtung originaria. E perciò la battaglia di Salamina è una canzone di gesta, un Lied che il Giorno canta sulla terra, è un suo poema, che appare come un sogno vertiginoso.

Tutta l’apparenza, del resto, ha per H. il valore di un sogno, è un fenomeno della poesia cosmica. Nello stesso Arcipelago, quasi protagonista di questa fenomenologia è il Sole del Giorno. E’ il Sole che, come poeta, poetando, appresta ogni mattina il sogno diurno per tutti i viventi.
Tenendo bene presente il carattere di queste ipostasi poetiche di enti della Natura o di sfere di rapporti del Vivente, così frequenti in Holderlin, si ha in mano una chiave che spiega l’intima essenza dei suoi dei, ma anche di molte altre congeneri ontificazioni di fiumi e di paesaggi, di semidei e di Angeli della sua poesia.
Così nella elegia Heimkunft, la nuvola, covante all’alba sulla vallata, è chiamata freudigesdichtend, e cioè “addensatrice del Gioioso”, colei, insomma, che assorbe e condensa tutto l’elemento della gioia che freme nella vallata.
Ma il senso di quel dichtend è pregnante, è bivalente; è naturale e insieme poetico: poiché dichtend significa addensare, ma anche poetare. Pure la nuvola, dunque è una poetante, e il freudigesdichten diviene il modo della poesia naturale della nuvola,  sempre come allusione ed emanazione della fondamentale Poesia dell’infinito divino essere.
… La stessa unità compositiva, notata per l’Arcipelago,si può osservare anche nell’altra celebre elegia Menon’s Klagen und Diotima; dove il motivo triadico di evocazione, di rimpianto e di trasfigurazione, anzicché la Grecia è l’amata Diotima, che H. aveva sublimato in una incarnazione della Grecia stessa.
Nell’altra grande elegia Brot und Wein il divenire delle epoche del mondo è analogamente concepito come un immenso alternarsi di Notte e Giorno, in una rotazione universa.
In questa dialettica cosmica, infiniti valori e motivi vengono polarizzati da H. nella opposizione di Tenebra  e Luce, di Notte e di Giorno. L’accento positivo batte sul giorno, che è Giorno degli Dei, teofania già apparsa nella Grecia: ma essa deve ritornare più alta e concreta attraverso la coscienza dell’uomo, e gli eventi dell’umanità che H. vedeva svolgersi con fragore d’armi e di rivoluzioni nell’Europa del suo tempo. La Notte invece è, antiteticamente, il periodo di carenza del divino, il tempo di privazione,  in cui gli dei si sono allontanati, sono tramontati, e sul mondo è sopravvenuto il periodo notturno della notte cristiana, qualche cosa di molto simile a ciò che, nella Fenomenologia dello Spirito, Hegel chiamerà poi il periodo della “coscienza infelice”.

Il primo Giorno, la prima teofania degli dei, è stata possibile nell’antica Grecia come un divino accordo con la Natura, quando gli uomini erano circondati dagli dei senza saperlo; gli dei erano giunti quasi inavvertiti, i Greci erano andati loro incontro come fanciulli;

(bella questa immagine dell’uomo-fanciullo che riconosce gli dei, li “avverte”; il fanciullo, l’uomo ancora libero dal dominio dell’intelligenza.)

Poiché troppo luminosa, troppo accecante giunge la felicità, e l’uomo la teme. Solo un semidio può darle dei nomi, e nominare i doni che essa gli porge.

Con l’accrescersi dei doni celesti, viene meno nell’uomo ancora immaturo, la facoltà di sostenere la pienezza del Divino, l’esaltazione del fuoco celeste; poiché la gioia, quando si unisce allo Spirito, cioè alla coscienza, diviene un peso troppo grandeper l’anima umana; il suo debole vaso è incapace di contenerla.
Questo periodo di intervallo, di intermundio, fra la natura e lo spirito conscio, in cui lo spirito non è più in grado di accogliere con innocenza il Divino, i doni degli dei,  e non è ancora abbastanza forte per sostenerli con la coscienza, questo periodo è la Notte in cui l’umanità è piombata con la loro scomparsa.

(Dove se n’è andato Dio? Così comincia il frammento di Nietzsche. Analoga la visione, analoga la prospettiva e analoga la profezia. Nietzsche sembra ripercorrere il sentiero di H. in tutto, anche nella sopravvenuta follia.
La Notte è il tempo della razionalità, che però implica responsabilità (la morte di Dio) che l’uomo non è in grado di sostenere. In questo senso è solo un uomo altro, cioè un uomo fatto dio che può salvarci. Questo cioè diceva Nietzsche e poi Heidegger, e non che dobbiamo aspettare che qualcuno venga a salvarci dall’esterno. L’interpretazione di Sloterdijk è malfondata. Quando Heidegger diceva che solo un dio può salvarci intendeva che l’uomo deve dibentare Dio, e solo così si può salvare.)


Ma fra la Notte e il Giorno, divino conciliatore è il Dioniso-Cristo. Per il pantheon holderliniano, Cristo è l’ultimo degli dei,  il quale ha preso figura umana e ha compiuto e chiuso in maniera consolante il celeste convito, lasciando agli uomini, nel periodo della notte, i carismi poetici del Pane e del Vino. E la nissione dei poeti è qui paragonata  a quella dei sacerdoti di Dioniso, che “ di paese in paese vanno nella sacra notte”.

Una fondamentale idea di H. è il dio manifesto, palesato. La poesia è palesamento del divino. Perciò i termini offenbar, offen (il rivelato, l’aprire, l’aperto) acquistano in lui un significato costante al quale bisogna dare la necessaria importanza anche quando parrebbero avere solo un valore spaziale, paesistico, come nel principio della elegia Stuggart, dove l’apertura della valle è nel paesaggio quasi la struttura visibile della rivelazione, del palesamento, ma anche della cordialità accogliente.
Il divino diviene, nella poesia di H. aperto e comune. Ciò è Rousseau, è il frutto dello spirito del nuovo tempo, è la inebriata ragione che dall’illuminismo s’incontra con il cosmico entusiasmo romantico della poesia.
… Questo senso dell’immanente, del divino che è presente e reale sulla terra si rafforza sempre più nell’ultimo H.  costituendo il carattere principale della sua Umkehr, del rivolgimento, della conversione alla terrestrità e all’elemento della patria. E giova a questo proposito ricordare un passo dell’Antigone in cui il poeta chiama Zeus “padre del Tempo e della Terra”, e dice  che “contro la tendenza all’eterno, contro l’anelito di questo mondo verso l’altro,  il suo carattere è invece di rovesciare quella tendenza nell’anelito da un altro mondo verso questo”. Similmente,  in una redazione tarda dell’inno Der Einzige, dirà il poeta che “la vita universa sempre anelerebbe gioiosamente a fuggire dalla terra, per lasciarla nuda e spoglia, se l’elemento umano non la trattenesse”.

5. L’amalgama biblico-pindarico

Mentre le componenti della formazione culturale, ideologica, filosofica, religiosa di H. sono fra le più complesse, si può dire per altro che esse non “passino la soglia” della sua lingua poetica. Gli elementi di questa lingua risultano al confronto relativamente semplici e omogenei, come si vede nella stessa povertà del suo lessico, un lessico da Vangelo della Natura. Ciò ha la sua ragione anche nel fatto che l’archetipo linguistico e stilistico di H. resta la Sacra Scrittura nella tradizione di Lutero, con  il relativo sostrato teologico, che ha le sue radici nella scolastica e nella patristica e insomma in tutto il profondo terreno di latinità che la teologia protestante ha germanizzato. Nonstante il suo orientamento ellenistico H. si è formato su queste basi, in cui il latino ha un’importanza fondamentale, anché perché, com’è noto, Lutero rimodellò il tedesco sullo stampo della sintassi  e della letteratura latina, fino a farne una nordica propaggine delle lingue romanze.
Ora, per quanto H. si sia poi esclusivamente polarizzato verso il culto della Grecia e della patria germanica, concepita come una Nuova Ellade dello Spirito, la sua più profonda formazione è avvenuta sulle basi che abbiamo accennato,  oltre che sullo studio dei poeti latini che egli abbondantemente traduce in versi tedeschi, specie in esametri,  e da cui ha assorbito quella inconfondibile aura georgica e pia che tanto lo apparenta a Virgilio. Anche l’influsso di Orazio dev’essere stato in lui molto più profondo, per intima congenialità per il gusto del paesaggio e la religione dei campi di quanto non si sia finora voluto rilevare.

Nella lingua e nella composizione degli inni entrano indubbiamente nuovi e specifici elementi elleni quando il poeta studia intyensamente e traduce Pindaro e Sofocle. Le immissioni di pindarismi, di clausole tipiche dell’ode,  si fanno frequenti e facilmente riconoscibili, e così il tipico “oro” pindarico.
Anche da Sofocle egli deriva modi fraseologici, prima inusitati nel tedesco.
… Nell’inno Patmos, vicino alle derivazioni sofoclee, pindariche e anche omeriche, pullulano le citazioni bibliche ed evangeliche. Questo algama biblico-pindarico è quanto di più holderliniano si possa immaginare. Qui il poeta svevo ottiene in pieno,  linguisticamente, quella fusione del mondo ellenico col cristiano, quella festa della pace che forse non gli riusci di ottenere altrettanto con la concilliazione dialettica o lirico-mistica di Cristo con gli Dei.

Oltre a questi elementi costitutivi bisogna tenere sempore presente nella formazione del linguaggio holderliniano il fondo filosofico e l’uso dei tipici verbi categoriali (…) oltre ai neutri astratti (…), che rivelano la costante tensione verso l’Uno-Tutto.

Vorrei richiamare anche l’attenzione su un passo dell’elegia L’Arcipelago, che può apparire, in anticipo,  come una estetica schellinghiana in nuce, nella sua definizione dell’opera del Genio o dell’opera d’arte.
Vi trovimo l’idea della Grenze, del limite con cui l’infinito si limita nel finito, nella forma, ponendo quasi un argine del suo fluire nella figura splendente dell’Arte:

“…opera del Genio che, come legami d’amore,
Si crea volentieri, così in grandi figure si serra
Che costruisce a se stesso, restando in sé il Sempremobile”.

Il linguaggio di questi versi  è improntato a una lucidissima forza dell’idea, che assimila i limiti della figura (in cui il libero fluire dello spirito volontariamente si argina pur restando in perpetuo moto, in se stesso) – ai legami dell’amore in cui anche l’infinito Eros si incatena a una sola persona. E qui si ritrova un altro motivo dominante di H. : l’infinito limitato, legato nel finito, che sarà poi il tema dell’ode “Il fiume incatenato”.

6. Grecia e Germania


Se non fosse  per lo slancio visionario con cui H. evoca l’antica Ellade, i sui templi, Atene e Delfo, e, più  che evocarla, ne soffre la privazione, il pathos dell’assnza dei suoi eroi e dei nel prersente,  parrebbe superfluo dover notare che questo vagheggiamento di una bellezza remota e perduta, di cui egli si strugge in consumante nostalgia, tutto ciò è quanto di meno greco si possa immaginare, è anzi uno degli aspetti estremi della tensione romantica e il più nostalgico dei sogno dell’anima tedesca.
… Egli è l’inverso di un greco innocentemente calato nel vitale elemento dei suoi istinti e del suo eros; tutto trasposto e fremente in apici di sublimazioni delirantìi, egli cerca di ritrovare l’unità e l’armonia degli opposti nell’ideale, e la trova infatti come tale  solo nell’atto della sua poesia.
…  H. che aveva attinto, anche teoreticamente, nella poesia il valore supremo, il fuoco e l’apice dello Spirito, come intuizione vivente e fluido ritmo dell’armonica conciliazione degli opposti, è poi ammaliato ancora dalla Grecia e dai suoi Dei. E cristasllizza in questo mitologema un Ideale distaccato della poesia, che egli vagheggia e adora, misticamente. La Grecia è per  H. un miraggio della poesia, sublimata in una icona favolosa di allontanamento nel tempo e nello spazio; ed è perciò una trascendenza della poesia, trasferita nell’Ideale e nell’Assenza; è una ebbrezza di visione profetica rovesciata alle origini, in cui l’età dell’oro di Rousseau viene proiettata sui marmi dell’acropoli, sui templi di Delfo o sulle isole dell’Arcipelago.
Tutto ciò corrisponde allo stato d’animo romantico, poiché il Romanticismo, nella sua essenza più sottile, è struggimento di lontananza,  è evasione dal reale e dal presente, dall’oggi e dal qui.
… Il sogno della Grecia diventa per lui qualche cosa di così esaltante che egli tende quasi a viverlo fichtianamente nell’azione e immagina così il romanzo Hyperion come quello di un giovane eroe greco del suo stesso tempo il quale partecipa alla rivolta del 1770, durante la guerra russo turca, per liberare il suo paese dal gioco ottomano.
L’ideale della Grecia è così trascinato giù, nella storia contemporanea; mescolandosi con gli ideali di patria, delle libertà nazionali, sembra toccare il suo punto di maggiore approssimazione al verosimile,  sembra incontrarsi con fatti reali e con l’oggi; ma s’incontra solo con la catastrofe e con un più lacerante senso dell’antitesi fra l’ideale greco e l’orribile realtà del presente. Estremamente significvativo è il fatto che l’Hyperion si concluda con una furente invettiva contro i Tedeschi, definiti barbari.
Questo atteggiamento negativo si attenuerà, grazie alla cukltura e alla filologia tedesca che avvicineranno Grecia e Germania. Già Herder affermava che la lingua tedesca era una sorella da parte di padre della più perfetta delle lingue, la greca. Idea questa alla quale si veniva quella di una consanguineità  di ceppo, dei Tedeschi con gli Elleni, di una comune migrazione in Europa in tempi preistorici. Allora la Germania non è più l’Anti-Grecia. Come la primavera migra da una terra all’altra, così la civiltà dell’antica Ellade è ora nella fase di uan grande migrazione cosmica; prossima a tornare nell’Occidente, ma non come la Grecia di prima, bensì come la nuova Grecia del mondo moderno, e della civiltà esperia.

7.  Il Sacro e la Poesia

Un essenziale valore della poesia di  H.  si deve pur sempre riconoscere  nella singolare forza religiosa di essa, come purezza del Sacro,  come “nascenza”,  assolutamente incontaminata del poetico che, in quanto originario sgorgo, è anche il più alto sentimento di una sacralità, anteriore a tutte le precipitazioni  e cristallizzazioni positive, dogmatiche ecc.

“ E ciò che io vidi, il Sacro, sia mia parola”. 

E’ un fatto che la  poesia di H.  in alcuni suoi passi comunica uno stato di grazia, di illuminazione, di veggenza, di purezza come i più alti testi mistici, le sante scritture.  Sembra essa stessa Rivelazione, Parola, carisma del Pneuma celeste.  E ciò spiega meglio di ogni altro motivo la profonda risonanza che ha avuto nel mondo odierno, nel nostro secolo così dissacrato o  scientificizzato: poiché poche voci poetiche come quella di H. sanno riempire l’intervallo delle epoche nella morte degli ideali, nell’assenza del divino, nel perduto contatto con la Natura. Allora, in quella pausa della vita, in quel profondo della notte egli attinge ogni volta, con candore e venerazione senza pari, il principio stesso e l’origine dell’ attività spirituale nel suo assoluto scaturire come poesia; nel momento cioè, in cui il divino albeggia nell’anima come ineffabile crepuscolo,  e aderisce con una presenza immediata e assoluta al germoglio della parola, premendo su di essa con le forze dell’infinito.

L’unità dell’uomo con il divino, del finito con l’infinito (che è il problema essenziale delle religioni)  trova attuazione in questo assoluto vivente della poesia;  si pone come una Poetica, quale itinerario della coscienza di sé che viene a contatto con la rivelazione nella parola; poiché nella Parola l’Essere procede alla rivelazione ed esprime se stesso immediatamente,  non mediatamente come nella rappresentazione figurativa, nella statua o nel simbolo: ma nell’elemento –anima del suono, del linguaggio,  si ha il contatto ancora dinamico dell’Infinito con il Finito, la presenza viva dell’ideale nel sensibile; e il divino si manifesta a sé,  manifestandosi all’uomo, cioè facendosi uomo nella parola.

Solo nell’apice di questa vera e propria “sinderesi poetica” si ha la Presenza sensibile dell’Assoluto; l’identità del Tutto con il Singolo, dell’ Oggetto con il Soggetto, si ha l’assoluta libertà della creazione, che poi è necessità assoluta di leggi poste a se stessa.
La estrama delicatezza che il problema critico ed estetico che l’opera di Holderlin presenta sta proprio nel fatto che essa ripropone continuamente il problema del rapporto fra poesia e religione;  e non solo di continuo lo propone, ma variamente lo risolve…

L’altro essenziale carattere della poesia di H. è di essere una poesia al limite,  una poesia che pone un nuovo rapporto con la conoscenza teoretica (e che perciò mette di nuovo in discussione l’intera categoria del “poetico”).
Il suo carattere dominante è questo suo confinare con l’altro, ma principalmente con la sfera delle idee.
Il fuoco celeste è il fuoco stesso dell’idea che diviene folgorazione poetica; o “intuizione vicvente”, secondo la più perfetta definizione che lo stesso Holderlin ha dato del suo poetare, attuando in essa e insieme superando l’ “intuizione intellettuale”.

Se noi ammettiamo che possa esistere il calore,  la commozione,  il rapimento quasi estatico dell’idea che produce una aisthesis di non minore intensità di quella che comunemente si intende per artistica;
se ammettiamo che una idea possa essere conosciuta immediatamente, sentita, intuita, amata e con ciò divenire oggetto diretto della fantasia e dell’attività verbale, della facoltà creatrice della lingua, sollecitando i più intimi poteri della parola, – noi forse saremo vicini al punto di vista più favorevole per trovare la ragione estetica della poesia holderliniana.

Il rapporto di questa poesia con l’idea non è, per altro, come quello simbolistico in cui l’idea è già data, è già fissata e ricevuta quale oggetto – e l’artista la ricopre di una veste sensibile, di un emblema.

Il cammino di H. è l’opposto; non va dall’idea data alla forma sensibile,  ma la forma sensibile (e l’elemento verbale, semantico) viene ricondotta alle radici religiose e universali della sua forza creativa, alla condizione originaria in cui idea e parola nascono insieme.

Questo è il vero e proprio mistero del  Reinentspringenes, della scaturigine pura, al di qua della distinzione.

Qualcosa di molto simile all’universale concreto che Hegel cercò poi  nel terreno della logica e del reale-razionale, H. lo attinse poeticamente ante rem,  in una condizione originaria della parola come massima tensione del particolare con l’universale nelle radici stesse della lingua.

Così in alcune parole capostipiti  (categoriali), in alcuni neutri che diverranno gli dei e i Verbi del suo Olimpo poetico… le forze della lingua tenderanno a fare di ciascuna di esse una categoria dell’esprimibile, a fondare delle parole-limite, o delle “parole-al-limite”.
Ciò che più colpisce nei grandi inni  è l’esperienza che vi si compie attraverso la parola, è il grado di tensione e di sintesi cui si giunge fra i due poli del suono e della significazione; è la energia, la scintillazione energetica che fra questi due poli si genera.

Raramente una poetica si è così totalmente identificata con l’atto vivente del poetare, del creare poetico, e col destino di vita del suo poeta.
Ciò vuol dire che H. ha interiorizzato le forze dell’azione nella parola,  facendo infine della parola il suo stesso Destino. Il poeta porta in questo non una piacevole fruizione di estetico compiacimento,  ma una passione cosmica che lo consuma.
Le foze celesti passano nel suo petto come tempeste, lo aspirano a gorgo verso altitudini disumane, aorgiche.
E il poeta chiede solo un poco di “indugio” nella esistenza, “perché molto ho da cantare ancora”.

…Qui appunto è da considerare il grado di accensione anche sensibile, anzi tragico e patetico, in cui questa poesia dell’idea, questo dramma cosmogonico della pura trascendenza, che è poi anche il puro agire del poeta, la sua Volontà di poesia, arriva ad ardere come il calore bianco di una estrema azione contemplata e contemplazione agita, ché tale si rivela poi il ritmo di questa poesia;
ritmo di un fare (poiein) che trapassa di continuo nel contemplare, di un contemplare che si annulla e perisce nella spinta ansiosa verso l’agire.

Qui è passato nella poesia lo slancio etico dell’azione fichtiana, realizzando però l’intuizione intellettuale nell’azione del poeta, in modo che essa divenga intuizione vivente. Nell’alterna vicenda, nel wechseln und werden, l’idea si incarna nella parola, si istintivizza in passione (arrossisce e impallidisce), si cancella in amore e torna poi a splendere intragica sapienza empedoclea.
Indubbiamente il tragilirismo di Holderlin tendeva a risalire ai processi con cui, dal “divino essere”, la poesia viene posta come mondo.
D’altra parte il suo atto poetico tende alla “identità della Begeisterung”, al “momento divino” per continua adeguazione ad infinitum,  non li presuppone con l’escamotage iniziale di uno dei due termini a favore dell’altro (con l’assorbimento dell’Essere nel Conoscere come avverrà nella ontofagia dell’Idealismo logico).
Di qui sorge la perenne oscillazione che nella sua poesia minaccia l’identità e crea la tensione tragica.
I due termini vengono conciliati solo a sprazzi e baleni,  in una superiore trasfusione di valore assolutamente poetico, ma logicamente impensabile.
Pur essendo altissima  in H. la forza della riflessione, essa giunge a negarsi del tutto, a riconoscersi inetta dinanzi a ciò che solo la poesia può rivelare e attingere. Come totale connessone della più alta vita.

L’istanza di scorgere nel poetico la sostanza ontologica dell’esistente, e il fondamento del Mondo si fa sempre più forte, specie nell’ultima produzione di Holderlin.
Questo conferisce alla sua poesia il carattere di un unicum; poiché non solo egli vuole riportare la poesia al primo piano delle forze che modificano il corso degli eventi, snidandola fuori dalla clausura del lirismo individualistico romantico – ma nella poesia egli vede la stessa unità del mondo che altrimenti sfuggirebbe alla nostra coscienza dilaniata, fuori del tutto, nelle angustie della nostra individuazione singola e della frammentata scissione delle nostre facoltà.
Perciò, mentre muovendo dalle stesse premesse, dalla stessa formazione culturale, filosofica, teologica ed estetica, dallo stesso culto per la Grecia, rivissuto in terreno di filosofia germanica e conciliato con la riscoperta romantica del Cristianesimo – Hegel deviò poi tutta questa grande corrente di una nuova intuizione poetica del mondo sul terreno del panlogismo, e i doni trafugati da Eleusi recò ai piedi della Ragione, coronata con un triregno di concetti puri – in Holderlin la sacra corrente seguì il suo leggittimo e necessario corso sul terreno di una “poetica assoluta”.

Il nuovo tempo poneva alla poesia moderna istanze di sintesi sempre più integratrici, di una sementica sempre più illuminante; la metteva di fronte al bivio, o di assorbire un più alto elemento noetico con un intero processo delle forze fondatrici della parola, entrando così nella maggiore età dello spirito; oppure di accettare la subordinazione e la limitazione impostale dal  concettualismo hegeliano (e sue attinenze) rassegnandosi alle mansioni di un’arte confinata nel sensibile e in una fanciullesca intuitività perennemente insufficiente.

La nostra ricerca si è proposta invece di  favorire una presa di coscienza della funzione piena che H., diversamente dall’hegelismo, ha dato alla Poesia, con la sua opera e con i suoi scritti teoretici. Noi oggi accogliamo quella poetica con una coscienza forse meno immatura, ma certo più fidente nei suoi valori assoluti, nella forza ancora e sempre creatrice e rinnovatrice della Begeisterung.
E il fiume caduto nel buio per più di un secolo, torna ad affiorare e scorrere alla luce, suscitando quel nuovo appassionarsi degli animi per la poesia che Holderlin ha saputo riaccendere.

Diciamo anche: una nuova speranza nella poesia, non solo sul piano estetico, ma come rigeneratrice spirituale del mondo moderno, come risanatrice della sua crisi.

Giorgio Vigolo.

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